PRIMISSIMO
PIANO

Il grande murale di Kate Street, a Leicester, dedicato a Ranieri
dall'artista Richard Wilson
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EURASIA, NUOVA
RUSSIA (EST DI KIEV) E RIPRISTINO DELL'UNIONE SOVIETICA ( SENZA
PASSARE PER LE REPUBBLICHE SOCIALISTE....):LA RIVINCITA DEI NAZBOLS
Il Nazional-Bolscevismo è l'ideologia che
permea i passi di Vladimir Putin all'interno della ricostituzione
dell'Unione Sovietica.
Il NazionalBolscevismo (o Bolscevismo Nazionale) è una ideologia
politica sincretica fra il Bolscevismo ed il Nazionalismo, con forti
accentuazioni geopolitiche ed etniche (come il pangermanismo o il
panslavismo).
Il movimento, nato negli anni venti in Germania ad opera di
comunisti "eretici", a cavallo tra la fine del XX secolo e l'inizio
del XXI secolo è stato attivo principalmente in Russia, con il
Partito Nazional Bolscevico di Aleksandr Gel'evič Dugin e Eduard
Limonov. Peculiare la bandiera del partito, simile a quella della
Germania nazista ma con una falce e martello al posto della
svastica. Si può dire anche che i NazBols rappresentano L'ESTREMA
DESTRA DEL PARTITO COMUNISTA RUSSO.

In Belgio le istanze nazionalbolsceviche sono sostenute dal "Parti
Communautaire National-Européen", discendente del Parti
Communautaire Européen di Jean-François Thiriart. In Italia dal
progetto "Fronte Patriottico" e dalla rivista "Patria - bollettino
socialista",la matrice Millenium Millenarista che ha impastato
assieme "il Socialismo in un Solo Stato" stalinista con il manifesto
della RSI di Salò.
È accompagnato da una visione complessiva, che ne accentua il
realismo e quindi concepisce la politica all'interno del
"continente" Eurasia comprendente l'intera Europa, la Russia, e
parte dell'Asia. Il nazional bolscevismo è programmaticamente
nazionalrivoluzionario, tradizionalista, antiamericano,
anticapitalista nell'ambito della Terza via; concilia le concezioni
rivoluzionarie materialiste e spirituali.
Le figure di riferimento sono prese dai rivoluzionari politici del
Novecento, dai teorici comunisti e socialisti, a molti teorici
nazional rivoluzionari come Niekisch e Sorel. I riferimenti
idealisti trovano ispirazione in Hegel, Julius Evola e altri
filosofi, mentre economicamente i nazional-bolscevichi appoggiano
una commistione tra le riforme economiche del comunismo e varie
teorie sindacaliste di natura socializzatrice e antifiscale, ma
sempre mettendo l'accento sulla spiritualità dell'azione.
Da parte dei suoi fautori il nazionalbolscevismo sembra non essere
altro che una chiave per rinnovare completamente le logiche
politiche che considerano ormai obsolete, superando quelli che
chiamano "opposti estremismi" utili, a loro avviso, solo a dividere
le tematiche popolari e rivoluzionarie.
Mentre
in Russia il NazBols cresciuto e soppresso dall'azione politica
sovietica si poneva a destra del Partito Comunista Russo col suo
Panslavismo non del tutto abiurato dallo stesso Stalin, nell'area
mediterranea (Francia,Italia) il Nazional-Comunismo era la sinistra
dell'estrema destra ibridizzandosi ideologicamente di COMUNITARISMO,ossia
quella tendenza d'area anglosassone tesa a mitigare gli effetti del
liberalismo e che in Italia ha avuto come fautori Tommaso Demaria:1957,
anno in cui Tommaso Demaria pubblica la sua opera fondamentale
"Sintesi sociale cristiana". Si diffonde ad opera di vari movimenti
che fanno capo al MID (Movimento Ideoprassico Dinontorganico) e FAC
(Fraterno Aiuto Cristiano); in particolare il MID custodisce e
promuove l'alternativa ideoprassica a comunismo e liberalismo.
Promosso da un gruppo di industriali capitanati da Giacomo Costa ,
il comunitarismo dinontorganico di Tommaso Demaria aprì negli anni
'50 interessanti prospettive al mondo dell'industria perché si
poneva come trampolino per la costruzione di un nuovo tipo di
società. I numerosi convegni di Rapallo tenuti agli industriali tra
il 1958 e il 1971, l'azione di Giacomo Costa e Adriano Olivetti,
furono il segno tangibile e concreto dell'interesse di una certa
parte della classe dirigente che ambiva in quegli anni a lanciare in
Italia un modello cristiano alternativo sia al capitalismo che al
marxismo. Di quello sforzo resta traccia nelle opere di T. Demaria e
nei progetti solo in parte realizzati e ancora rintracciabili negli
atti dei convegni.Verso la fine degli anni settanta, in risposta
all'opzione marxista delle ACLI venne fondato il sindacato
comunitarista delle LACLI o Libere Acli di cui Demaria compose lo
statuto. L'eredità di questa ambiziosa impresa trova patria e
rinnovato vigore ancora oggi presso alcuni ambienti
dell'imprenditoria e dell'attivismo cattolico italiano ( www.dinontorganico.it )
In Italia il comunitarismo ha cominciato a diffondersi in alcuni
settori della DC, di piccoli partiti locali e della destra
extraparlamentare a partire dagli anni settanta ed ha trovato spazio
negli ambienti della Nouvelle Droite, senza tuttavia riuscire a dare
vita ad iniziative di rilievo politico ad
esclusione del Movimento Zero, fondato nel 2005 dal giornalista
Massimo Fini, tendente a rivalutare il medievalismo e la societa'
feudale plasmatasi sulla contingenza delle feroci contrazioni socio
economiche successive alla caduta dell'Impero Romano, contro lo
sviluppo industriale inglese.
Attualmente, un certo richiamo al comunitarismo è stato adottato
anche da settori della sinistra, dal movimento per la decrescita e
da altri soggetti che ripensano globalmente la propria identità
politica accogliendo anche istanze storicamente proprie dell'altra
parte politica e le sviluppano, come spesso affermato, oltre i
concetti di destra e sinistra.
Tuttavia, al di là della dichiarata volontà di superare le categorie
di destra e sinistra permangono a tutt'oggi profonde divisioni tra
le varie anime del comunitarismo.
Il comunitarismo di impostazione marxista è più strutturato a
livello teoretico rispetto a quello di destra (si pensi alla rivista
Comunitarismo animata dal filosofo Costanzo Preve) e ha dato vita
all'organizzazione internazionale denominata Campo Antimperialista.
Questa organizzazione è stata duramente attaccata[3] da alcuni
militanti di sinistra che non hanno gradito l'adesione ad una
manifestazione di sostegno alla resistenza irachena da parte di
persone provenienti da ambienti di destra[4].

Ucraina, Europa ko. Ha vinto Putin:
si è preso il Donbass. E Obama non può nulla
A poco servono le 5 piccole basi
che la Nato installerà sui confini. Con l'inverno le case degli
europei dovranno essere riscaldate in buona percentuale con il gas
erogato da Gazprom e nessuno, a di qua dell'ex cortina di ferro,
vuole rischiare la catastrofe per l’Ucraina: lo "zar" lo sa ed è lui
a dettare le regole del gioco. Per lui, alle prese con i danni
economici provocati dalle sanzioni, dalla svalutazione del rublo,
dalla negatività della Borsa di Mosca, la questione è vitale: non
può permettersi di uscire sconfitto
Cara stolida, impotente, divisa
Europa, inutile fingere di non capire, di credere
nelle tregue sollecitate dai cannoni invasori, di immaginare che
creando un “cordone” Nato di sicurezza con cinque (piccole)
basi a Est si possa indurre a più miti consigli il
Cremlino. E’ solo fumo negli occhi, illusioni politiche,
parole che pesano nemmeno il tempo d’essere pronunciate. Sul fronte
occidentale, infatti, nulla di nuovo. Tra poco ricomincia il freddo,
le case dei tedeschi, degli italiani, di gran parte degli europei
dovranno essere riscaldate in buona percentuale con il gas erogato
da Gazprom, mica c’è Washington a rifornirci di
prezioso combustibile e per di più ai prezzi concorrenziali dei
russi, tantomeno con il chimerico gas di scisto…quindi, finiamola di
fare la voce grossa, di esercitarci nel teatrino dei muscoli e degli
schieramenti contrapposti, così tanto strombazzati dai mass media
che alzano toni e ingrossano titoli, nessuno vuole rischiare la
catastrofe per l’Ucraina e questo, prima di tutti,
lo sa benissimo il cinico ed abile Vladimir Vladimirovic
Putin. I suoi “cessate-il-fuoco” sono prese in giro,
documentate regolarmente dai satelliti spia Usa. Le sue pretese, al
contrario, sono chiare e ben definite, e questo fin dall’inizio
degli scontri in Crimea e poi nella regione di
Donetsk.
L’equazione è semplice: non solo
la Russia minaccia la pace nel Vecchio Continente, ma è Putin a
dettare le regole del Grande Gioco, e non vi è
Obama che possa alzare la voce con annunci bellicosi di
riarmo alle frontiere orientali della Nato per impedirglielo. I
fatti sono piuttosto semplici, conseguenti all’atteggiamento
putiniano: un giorno il capo del Cremlino assume la parte di colui
che auspica la pace e propone la tregua, il giorno dopo indossa i
panni del Conquistatore, di colui cioè che ridarà alla Russia il suo
impero perduto a causa del Grande Errore – ossia la inopinata
dissoluzione dell’Unione Sovietica. La doppiezza di
Putin è l’essenza del suo profilo diciamo così “professionale”, di
spia allevata dal Kgb (“lo si resta per sempre”, ha
lui stesso detto più volte nei raduni coi vecchi ex compagni dei
servizi segreti sovietici); del dominus di un regime che si puntella
sul concetto di “democratura” (sorta di dittatura pseudodemocratica)
e sulla dottrina militare che considera “minacce supplementari” e
intollerabili la progressione continua della Nato verso le sue
frontiere, il dispiegamento di nuovi armamenti occidentali nei Paesi
baltici, soprattutto la situazione in Ucraina: considerazioni,
queste, espresse sulla Rossiskaja Gazeta di qualche giorno
fa (più esattamente, il 4 settembre).
Anzi, cara Europa bruxelliana e
renziana, Putin si può permettere di giocare la sua Telesina a carte
scoperte. Nella sua recentissima visita in Mongolia,
quando ha presentato il suo piano di pace immediatamente seguite
dalle dichiarazioni dei rappresentanti delle repubbliche
autoproclamate confermano che la Russia si orienta verso la
stabilizzazione di uno Stato non riconosciuto che
si chiama “Nuova Russia“, sul territorio
dell’Ucraina. Cito l’editoriale di Gazeta.ru del 6
settembre: “Le frontiere georgrafiche di questo territorio
qualificato zona di sicurezza nel piano di Putin sono ancora
fluide, ma il loro significato geopolitico
è evidente sia per la Russia che per l’Ucraina”. Tant’è che la
dirigenza della Repubblica popolare del Donetsk (l’autoproclamata
RPD) sta per avviare a Mosca dei colloqui per gestire l’erogazione
di gas russo nel Donbass, secondo quanto ha
dichiarato il ministro della Sicurezza della RPD, tale
Leonid Baranov. Il gasdotto in questione passa nella
regione di Lugansk per confluire in quella del
Donetsk, e pure questo è un segnale ben preciso, e propagandistico:
l’indipendenza energetica da Kiev. Come la volontà di entrare
nell’area monetaria di Mosca, adottando il rublo.
E’ una partita che Putin non si
può permettere di perdere: difendendo “i diritti delle
popolazioni russofone” (concetto basilare ufficiale russo
amplificato dai media asserviti al regime, ossia quasi tutti), vuole
mettere in discussione la governabilità dell’Ucraina, vuole cioè un
cambiamento di potere a Kiev, un ritorno cioè all’ovile. La guerra
in Ucraina, dunque, è diventata una questione “esistenziale”
per il regime russo, una battaglia in cui Putin mette in gioco tutta
la sua credibilità. Forte di un consenso schiacciante, sinora, quasi
del 90 per cento. Ma è un consenso solido in apparenza: tutto
dipende dal successo finale. Per questo sono stati
mobilitati i migliori e più efficienti reparti dell’esercito,
dell’aviazione della marina. I costi della mobilitazione sono
ingenti, si accumulano ai danni economici provocati
dalle sanzioni, alla svalutazione del rublo, alla
negatività della Borsa di Mosca, alle
perplessità degli oligarchi amici del Cremlino. Per questo,
nell’ottica putiniana, è necessario il ritorno della riottosa e
ribelle Kiev nell’ovile russo. Rea, l’Ucraina, di avere scelto un
modello di sviluppo “occidentale” (ed estraneo a quello proposto da
Mosca); di avere chiesto l’aiuto della Nato e di volere entrare
nell’alveo dell’Unione Europea. Il vero disegno di Putin è
rendere ingovernabile l’Ucraina, alimentando il caos e
sollecitando la frantumazione territoriale ad Est. Nell’impegnativo
e sfacciato sostegno ai ribelli c’è sia la vendetta del Cremlino,
sia l’esigenza di dimostrare – più all’interno della Russia che
all’esterno – che la sovranità russa è quella imperiale e non quella
mutilata dal crollo dell’Urss. Del resto, lo stesso Mikhail
Gorbachev, l’ultimo presidente dell’Unione Sovietica, ha
ricordato anche sulle pagine del Fatto quotidiano di sabato
che aveva proposto a suo tempo le trattative su “unione economica,
unica difesa e unica politica estera”, nonché la delicata questione
relativa allo status di Sebastopoli – storica base navale della
Flotta Russa Meridionale del Mar Nero. Questione risolta brutalmente
con le armi da Putin.
Il quale non intende cedere di un
millimetro. Ogni passo indietro, per lui, sarebbe ammissione di
debolezza. La sua Unione Euroasiatica – velleitaria
replica alla Ue – mostra già qualche crepa e parecchie riluttanze
(segnatamente da parte del Kazakhistan e persino
della Bielorussia). Quanto ai separatisti ucraini,
costoro non hanno la benché minima intenzione di organizzare
elezioni legislative per entrare alla Rada, il
parlamento ucraino. I bombardamenti su Mariupol,
che stanno incrinando questa precarissima tregua, hanno
chiaramente lo scopo di conquistare uno sbocco sul mare per le
regioni del Donetsk e del Lugansk. Per quel che se ne sa, o per
quello che lasciano trapelare i media russi, il piano di pace
perorato da Putin prevede il ritiro delle truppe di Kiev dai due
territori e la soppressione di ogni posto di controllo su quel pezzo
di frontiera che unisce le due regioni alla Russia. E questo riporta
in primo piano la questione dello status dei territori separatisti.
La mossa è astuta: Mosca non intende annetterli come ha fatto con la
Crimea, perché questo alimenterebbe l’inevitabile guerra civile (ci
sono stati già 2600 morti). Unica concessione eventuale, il
riconoscimento formale da parte della Russia nel caso in cui
l’Ucraina, spalleggiata dall’Occidente, tentasse la riconquista.
In ogni modo, il rischio è che le
due autoproclamatisi repubbliche popolari (RPD e RPL, Repubblica
Popolare di Lugansk) diventino delle cosiddette “bombe
territoriali”, come è successo nel caso della Transnistria
in Moldavia, dell’Ossezia del Sud
e dell’Abkhazia in Georgia. Zone d’influenza russa,
cuscinetti contro la Nato. Riposizionamento di missili, revisioni
delle strategie militari, ma quel che conta di più, l’apertura di un
ciclo di negoziati con Kiev sotto l’egida di Mosca. E qui, di nuovo,
siamo al gioco delle parti. Putin come l’uomo che vuole la pace, ma
anche come quello che può scatenare l’inferno. Bisogna dargli atto
che, appena il “concerto delle nazioni” occidentali strepita e grida
“al lupo, al lupo!”, egli si mostra disponibile al colloquio, per
sabotarli appena le cose non vanno come Mosca desidera. Negli ultimi
sei mesi, è successo già tre volte. L’obiettivo di
Putin è smorzare le rappresaglie. E’, soprattutto, seminare
zizzania all’interno del fronte europeo. Ciò gli riesce
benissimo. Perché il primo vero punto debole è l’intrinseca
debolezza politica e militare dell’Ucraina. Che vanta un esercito di
800 mila uomini. Peccato che solo il dieci per cento di queste forze
fossero in grado di battersi al momento dell’inizio delle ostilità,
in un territorio vasto tre volte l’Italia e che solo un migliaio di
essi fossero stati utilizzati “immediatamente”. Cosa che i servizi
d’intelligence russa conoscevano perfettamente.
E’, in fondo, questo lo stesso
scenario vigliacco che si sviluppò durante la crisi moldava e poi,
sei anni fa, in Georgia. Qualcuno dice che Putin si
comporta come un bullo in una scuola per bene. Senza dimenticare che
una certa Europa è stata già conquistata – anzi, sarebbe meglio
dire: acquistata – dalla Russia: l’Europa degli affari, delle
mazzette legate al business dell’energia e delle materie prime, dei
politici prezzolati dal Cremlino, e questa è una guerra assai più
insidiosa da debellare.
.
Mondo

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ISIS-DAESH, Guerra dal Nord
Africa all'Afghanistan (2011 [inizio della Primavera Araba]-?)
Iraq, viaggio tra le rovine di Ramadi,la capitale del gigantesco
ovest irakeno: liberata dall'Is, distrutta dalle bombe(1-5-16)
(ap)
Da sempre considerato ribelle e difficile da governare, il
capoluogo sunnita della provincia di al Anbar è stato dominato
dagli uomini di abu Musab al Zarkawi, il capo del ramo iracheno
dell'organizzazione fondata da Bin Laden. E' stato lui a gettare
le basi del Califfato. C'è voluto un anno per riconquistarla. Ma
gli effetti della pioggia di raid aerei e degli ordigni eplosivi
disseminati dai miliziani dell'Is prima di fuggire hanno
trasformato la città. La reazione del governatore davanti ai
giornalisti arrivati per un'intervista: "Andate subito via,
restare è un suicidio". Ramadi è situata a 50 chilometri ad ovest
di Bagdad, sulla medesima direttrice di Falluja, la città
completamente annientata dagli statunitensi tra l'aprile ed il
dicembre del 2004. Non solo annientata, ma fosforizzata e riempita
di uranio impoverito, facendone una delle aree più contaminate di
radiazioni ed agenti tossici dell'intero pianeta.
I marines assediarono e bombardarono Falluja nell’aprile di 6 anni
fa, dopo che 4 dipendenti della compagnia di sicurezza Blackwater
furono uccisi e i loro corpi bruciati e portati per la città. Dopo
8 mesi di stallo nelle operazioni, i Marines decisero di usare
l’artiglieria e i bombardamenti aerei per piegare la resistenza.
Utilizzando armi legali, fu detto. Prima che si scoprisse dell’uso
del fosforo bianco, in grado di bruciare, a contatto con l’aria,
pelle e carne su cui si deposita: un’arma illegale, in campi di
guerra densamente popolati come una città. E ora il dubbio è “che
siano state usate anche armi contenenti uranio, in qualche forma”,
dice il dottor Busby.
I militari britannici, che affiancarono gli americani durante
l’assalto, rimsaero esterrefatti notando il volume di fuoco
impiegato per l’operazione. Falluja venne considerata una zona
sulla quale poter sparare liberamente: “In una sola notte vennero
lanciati 40 colpi di artiglieria pesante su un singolo settore
della città”, ricorda il brigadiere Nigel
Aylwin-Foster. Il comandante che ordinò quell’uso
devastante di munizioni non lo considerò rilevante, tanto da non
menzionarlo nemmeno nel rapporto al comandante delle truppe Usa.
na città spettrale, trafitta da migliaia di enormi crateri e
montagne di terra sollevate dalla forza delle esplosioni. Bombe
piovute dall’alto, cariche di tritolo degli ordigni piazzati
dai miliziani dell’Is in fuga.
Basta scorrere le immagini di questa gallery per capire la
devastazione subita dalla capitale della provincia irachena di al
Anbar. Da sempre feudo sunnita, Ramadi si è distinta per la sua
indole ribelle sin dai tempi di Saddam Hussein. Immersa nel
deserto che si apre a ovest del paese, è stata sempre considerata
una città difficile da gestire. Confina con la più nota Falluja
che nel 2004, tre anni dopo l’invasione dell’Iraq da parte della
Coalizione internazionale a guida Usa, venne assediata da 4 mila
carri armati e diventata per questo il simbolo della resistenza.
Ci si arriva percorrendo l’autostrada che collega Bagdad al
confine con la Giordania. Una lunga arteria usata da frotte di
giornalisti, volontari e avventurieri a bordo di convogli che
viaggiavano sempre in colonna per motivi di sicurezza. Uno dei
punti più rischiosi in questo viaggio che poteva durare fino a 12
ore, era appunto lo svincolo tra Ramadi e Falluja, un centinaio di
chilometri dalla capitale irachena. Sfrecciando a oltre 140
chilometri l’ora si cercava di evitare soste inopportune e si
tirava dritto verso Bagdad. Ma non era raro vedersi affiancare, a
quella velocità, da auto scure con a bordo civili in armi che ti
scrutavano e spesso tentavano di farti finire fuori strada o a
obbligarti a fermare. Per derubarti o rapirti.
Iraq: "Ramadi liberata", l'annuncio in tv del portavoce
dell'esercito
Per coprire il conflitto e la fasi caotiche dei primi anni dopo la
sconfitta dell’esercito di Saddam Hussein era utile andarci e
raccontare come la popolazione viveva quei momenti. I sunniti
erano stati emarginati. Fedeli al dittatore, in fuga e nascosto
verso la sua città natale Tikrit, si erano rifugiati nel loro
capoluogo e da qui studiavano gli sviluppi della situazione a
Bagdad. La sede del Governatorato sembrava un porto di mare. La
gente entrava e usciva da questo palazzo a sei piani che sorgeva
nella piazza principale. Gli uffici, le stanze e i corridoi, erano
invasi da uomini e donne con in mano fogli, documenti, registri,
libroni, schede. Ognuno aveva bisogno di qualcosa.
La tensione si respirava nell’aria. Tutto era incerto: il presente
e il futuro. C’era una costante atmosfera di assedio. Una mattina
ci entrammo anche noi. Chiedemmo del governatore. Ci indicarono
una stanza: la più grande. L’uomo, seduto ad una scrivania, era
attorniato da gente che lamentava ingiustizie o sollecitava una
pratica. Il governatore si accorse della nostra presenza. Eravamo
chiaramente degli estranei. “Chi siete, cosa ci fate qui?”, chiese
allarmato. Ci qualificammo. Saltò sulla sedia. Reagì con furia.
Era spaventato. “Non potete rimanere, dovete andare subito via. La
città pullula di miliziani di al Qaeda”. All’epoca, era il 2003,
l’intero Iraq era scosso dagli attentati di abu Musab al Zarqawi,
il capo della rete fondata da Bin Laden in Mesopotamia. L’uomo che
avrebbe gettato le basi per la nascita, 10 anni dopo, dello Stato
Islamico.
Gli uomini del Califfato l’hanno occupata per quasi due anni. La
conquista di Ramadi è stata forse più importante della stessa
Mosul. Tagliava le vie di rifornimento dell’esercito iracheno e
stringeva in una morsa la stessa capitale. Per liberarla c’è
voluto un anno di scontri e di battaglie devastanti. Con centinaia
di raid aerei e decine di assalti via terra.
Il risultato sono le immagini che vediamo in queste foto.
Ricostruirla richiederà anni e una montagna di quattrini. I
soldati dell’Is, prima di ritirarsi, l’hanno disseminata di
trappole esplosive. Una tecnica usata in ogni territorio o città
che abbandonano: ritarda l’avanzata e consente di infliggere
perdite al nemico. A rimetterci, come sempre, è la popolazione.
Chi non aveva i mezzi, il tempo e la possibilità di fuggire è
dovuto rimanere. Intrappolato tra due fuochi, incapace di reagire.
Timoroso di schierarsi, preoccupato delle vendette, inevitabili,
dei nuovi padroni. Con una città devastata: buchi al posto di
case, macerie invece degli uffici, strade e piazze trasformate in
detriti. Con una sola certezza: Ramadi resterà sempre la capitale
sunnita dell’Iraq.
dalla ritirata di palmira al ro
dalla ritirata di palmira al rosso di bilancio: anche l'isis deve
fare due conti. in un anno di bombardamenti perso un miliardo di
dollari.
Sono finiti i tempi d’oro per i bilanci economici dell’Isis.
I raid aerei contro il presunto Stato islamico hanno portato alla
distruzione di almeno 800
milioni di dollari in
denaro contante, conservati all’interno di obiettivi sensibili
centrati dai caccia della coalizione. Tutto ciò è stato confermato
dal maggiore generale di divisione Peter
Gersten vice
comandante Operazioni e Intelligence della Combined Joint Task
Force-Operazione Inherent Resolve, secondo cui i velivoli
americani hanno colpito a più riprese magazzini in cui erano rinchiusi
parte dei fondi del gruppo jihadista.
I vantaggi di aderire all’organizzazione terroristica, che
includono il supporto monetario per un combattente,
per la moglie, l’amante e altri membri della famiglia, sono stati
un fattore enorme nel processo di reclutamento di Isis. Ma i tagli
agli stipendi fino al 50 per cento scoraggiano i potenziali
membri. Si è passati da1500/2000
nuovi arruolati al
mese nell’Isis a circa 200. Secondo poi uno studio di IHS Jane’s
emerge che nel marzo 2016 le
entrate mensili dello Stato islamico sono scese a 56 milioni di
dollari.
A metà 2015, l’insieme dei ricavi su base mensile era in media di
80 milioni di dollari.
Il rapporto aggiunge inoltre che laproduzione
di petrolionelle zone sotto il controllo jihadista è
anch’essa diminuita, passando da 33mila a 22mila barili al giorno.
Almeno la metà dei soldi che confluiscono nelle casse di Daeshprovengono
dalle tasse e dalla confisca di imprese e beni. Per sopperire alle
perdite i leader del movimento jihadista hanno aumentato le
imposte nei servizi di base: fra questi vi sono le tasse agli
autisti di camion, imposte per chi vuole installare o riparare
antenne paraboliche e “dazi sull’uscita” per chi vuole lasciare
una città o un villaggio nelle mani dell’Isis. Non va meglio sul
lato mediatico e propagandistico.
Secondo uno studio dell’organismo
egiziano Dar Al-Ifta anche le fotografie e i video postati in
rete dalle case di produzione ufficiale dell’organizzazione
terroristica sono quasi dimezzati. Un calo dovuto alla uccisione
di un gran numero di quadri informatici del Califfatosia
in Iraq che
in Siria.
Secondo i dati elaborati dalla “Casa
della Fatwa” egiziana il numero delle immagini postate in
rete dall’Isis all’apice della sua attività mediatica tra giugno e
settembre 2015, è stato di 3.217 dalla Siria e 3.762 dall’Iraq,
per un totale di quasi 8mila. Una cifra quasi dimezzata scesa ad
un totale complessivo di5.200
negli ultimi 3 mesi del 2015. Nonostante la crisi evidente
che attanaglia il presunto Stato Islamico bisogna però
sottolineare che l’Isis è ancora in grado di accedere ai
cambiavalute in Iraq,Turchia e Libano che
operano al di fuori del sistema finanziario formale. Finché
continua non ci sarà un collasso economico fatale dall’interno ma
peggiorerà sicuramente il tenore di vita.
L’Isis si è comunque dimostrato adattabile e finora resistente ma
se vorrà continuare ad avere mire espansionistiche sicuramente
dovrà fare i conti con i suoi bilanci.
La strategia migliore dellacoalizione
anti-Isis resta
quella di “togliere l’acqua al pesce” come direbbe Mao, l’unica in
grado di essere attuata visto che è difficile mettere d’accordo le
varie potenze su una strategia militare comune. Ognuno in Medio
Oriente sta combattendo la sua guerra e la politica estera e di
difesa specialmente degli europei con in primis laFrancia è
strettamente ambigua e connessa con gli interessi economici di Paesi
arabi che
finanziano l’Isis.
isis: il fronte medio orientale e del maghreb tra il 2014 ed il 2015

Siria, ong: "Kobane liberata dall'Is". Curdi controllano il 90%
della città
Centinaia di ragazze yazide
tenute prigioniere. Intanto
si allunga l'elenco delle denunce
contro i miliziani sunniti dello
Stato islamico (Is, ex Isis).
L'ultima, fatta dalla parlamentare
yazida Vian Dakhil, riguarda oltre
600 ragazze della minoranza
religiosa degli yazidi che sono
tenute in ostaggio nel carcere di
Badush, a Ninive. Le ragazze sono
state rapite insieme ad altri
componenti della minoranza yazida a
Sinjar, località vicina a Mosul.
Continua intanto il dramma di decine
di migliaia di profughi yazidi,
fuggiti nei giorni scorsi da Sinjar,
conquistata dagli islamisti. Secondo
Dakhil, "50 bambini al giorno"
muoiono sulle montagne intorno a
Sinjar, dove migliaia di sfollati
sono bloccati senza viveri ed acqua.
Per alleviare le loro sofferenze
aerei statunitensi hanno lanciato
pacchi di aiuti umanitari. Altre
migliaia, invece, affrontano in
condizioni difficilissime il viaggio
verso la frontiera siriana, distante
decine di chilometri, per mettersi
in salvo. Il segretario generale
dell'Onu, Ban Ki-moon, ha chiesto al
mondo "di fare di più" di fronte al
dramma degli yazidi.
Ma proprio la Dakhil, protagonista
qualche giorno fa di un drammatico
appello nel Parlamento di Bagdad, è
rimasta ferita oggi dopo che
l'elicottero su cui viaggiava si è
schiantato mentre stava fornendo
aiuti umanitari agli sfollati sul
monte Sinjar. Al momento non si
hanno altre notizie sulle sue
condizioni di salute. Nell'incidente
sarebbe stato coinvolto anche un
giornalista del New York Times
e il fotografo freelance che
viaggiava con lei, i quali però
avrebbero solo ferite lievi.
IL DISASTRO DEI SERVIZI SEGRETI
USA:ISIS COMPLETAMENTE IGNORATA!!
Usa, così l’intelligence ha
sottovalutato Isis Obama: “Più veloce dei nostri servizi”
Gli Stati
Uniti, le sue spie, i suoi militari, i suoi politici, non sarebbero
stati capaci di valutare la minaccia effettiva. L’accusa è stata
rilanciata dal conservatore The Wall Street Journal, ma anche altri
media di solito più benevoli nei confronti dell’amministrazione
democratica cominciano a esprimere i primi dubbi. E c'è chi ricorda
che nel covo di Bin Laden fu trovato un documento in cui si
definivano "troppo radicali" le azioni dei miliziani
Un gigantesco fallimento dei
servizi di intelligence americani. È questo il
dubbio, secondo alcuni la certezza, che si diffonde in queste ore
nelle stanze del potere a Washington. Gli Stati Uniti, le sue spie,
i suoi militari, i suoi politici, non sarebbero stati capaci di
valutare
la minaccia effettiva
portata dall’Isis, lo Stato Islamico dell’Iraq e
della Siria. L’accusa è stata rilanciata, nelle
scorse ore, dal conservatore The Wall Street Journal,
ma anche altri media di solito più benevoli nei confronti
dell’amministrazione democratica cominciano a esprimere i primi
dubbi e distinguo.
Obama:
“Avanzata Isis più veloce di quanto i nostri servizi prevedevano”"
“Abbiamo sottostimato forza,
coesione e leadership dell’Isis”, ha detto il generale
Michael Flynn prima di abbandonare la guida della Defense
Intelligence Agency (DIA). “L’avanzata dell’Isis è stata più veloce
di quanto i nostri servizi e i politici Usa prevedevano”; ha ammesso
Barack Obama qualche ora dopo. La ‘svista’ –
centinaia di militanti che si impadroniscono di alcune delle più
importanti città irachene, e molte aree in terra siriana, sino a
essere pronti a formare un califfato islamico – appare tanto più
clamorosa se si considera che almeno dal 2001 il terrorismo
islamico è al centro delle preoccupazioni della politica
Usa, e che in Iraq gli Stati Uniti ci sono rimasti per otto lunghi
anni. Qui è stata costruita la più grande ambasciata Usa al mondo,
con oltre duemila funzionari; qui, a Baghdad e dintorni, ci sono
almeno 25 mila contractors americani che
lavorano in tutti i settori, da quello militare al sanitario
all’estrazione del petrolio. Oltre confine, in Siria, è in corso da
tre anni una guerra civile che tiene impegnati i
servizi e i politici di mezzo mondo.
Prima della
presa di Mosul i servizi dubitavano che l’Isis ne avrebbe avuto la
forza
Tutti questi fattori avrebbero
dovuto/potuto spingere all’adozione delle necessarie
contromisure da parte della prima potenza al mondo. Invece
nulla. Nei giorni immediatamente precedenti
la presa da parte dell’Isis di Mosul, la seconda città irachena,
i funzionari dell’intelligence americana si trovavano ancora a
discutere se il gruppo islamista ne avrebbe avuto la forza. Dopo la
caduta della città, l’ammiraglio John Kirby,
portavoce del Pentagono, spiegava che “a questo punto fissiamo la
nostra attenzione su Mosul, ma ciò non cambia i nostri calcoli”.
Ancora nei giorni successivi alla presa di Mosul, il 10 giugno, con
le truppe islamiste che procedevano verso Sud
mostrando una straordinaria efficacia e una
capacità di penetrazione praticamente infallibile, le autorità
d’intelligence americana discutevano se l’Isis “sarebbe stato capace
di mantenere la presa di Mosul”, (lo ha dichiarato al Wall
Street Journal un funzionario, rimasto anonimo, della
Defence Intelligence Agency).
In documento
di Al Qaeda le azioni di Isis definite “troppo radicali”
Eppure le autorità americane
avrebbero avuto nel passato diverse occasioni per tracciare la
“minaccia Isis”. Un documento di 21 pagine trovato nel rifugio
pakistano dove Osama bin Laden fu ucciso, redatto
con ogni probabilità da un suo collaboratore e di cui ha parlato
nelle scorse ore l’inglese Daily Mail,
dettaglia sulle atrocità dell’Isis – uso di armi chimiche,
bombardamento delle moschee, massacri di cristiani – e conclude che
le sue azioni erano “troppo radicali” e tali da gettare discredito
sulla stessa al Qaeda all’interno del mondo
musulmano. Alle autorità Usa era poi già chiaro, a fine 2013, che l’Isis
stava cercando di montare una campagna per la conquista di vaste
aree in Iraq. La cosa era chiara perché Cia e Dia erano al corrente
di incontri tra militanti dell’Isis e i vertici dell’Armata
di Naqshbandia, guidata da un ex-collaboratore di
Saddam Hussein, Izzat Ibrahim al-Douri, in
questo momento presumibilmente in Siria. Proprio la connessione
siriana illumina in modo ancor più netto il fallimento
dell’intelligence Usa. Mentre l’Isid stringeva alleanze in Siria, e
rafforzava il suo controllo di vaste aree del territorio siriano
attorno a Deir al Zour, i funzionari dell’intelligence Usa andavano
al Congresso e spiegavano a deputati e senatori che la minaccia
principale nel paese di Assad veniva dalla riorganizzazione di al
Qaeda.
Dalla Libia
all’Afghanistan gli svarioni dell’intelligence Usa
“La raccolta dei dati è un
compito difficile”, si è giustificato Jeff Anchukaitis,
portavoce del direttore della National Intelligence. “Gli analisti
devono fare le loro previsioni sulla base delle percezioni di
comando, controllo, capacità di leadership, esperienza e disciplina
di combattimento”. Per molti, proprio questa capacità di previsione
è qui tragicamente fallita, e aggiunto il “fallimento Isis” ad altri
clamorosi svarioni dell”intelligence Usa: in Egitto,
Mali, Libia, Kenya,
Ucraina, Afghanistan. Tra le
possibili cause di questi risultati così scadenti c’è probabilmente
il fatto che le agenzie di intelligence Usa, a partire dallo scoppio
della cosiddetta “Global War on Terrorism”, sono state coperte di
finanziamenti e lasciate praticamente libere di agire, al di fuori
di ogni controllo (il caso della Nsa e dei poteri di intercettazione
denunciati da Edward Snowden ne è solo un esempio).
Un’altra causa, più politica e profonda, l’ha proposta
Michael Brenner, analista del Center for Transatlantic
Relations. L’eccezionalismo americano, la fede
nell’indispensabile capacità di leadership americana, condivisa da
George W. Bush e Barack Obama, hanno coperto
“l’inesperienza, l’incapacità di valutare gli aspetti interni dei
Paesi esteri, l’incompetenza di molti che hanno usato la
minaccia terroristica soltanto come strumento di ambizioni
personali”.

IN 100.000 IN FUGA
NELL'ESTREMO NORD ED IN TURCHIA
, USA E FRANCIA
VOGLIONO RIATTIVARE I BOMBARDAMENTI
PER BLOCCARE
L'AVANZATA DELL'ISIS


Lo Yazidismo (dal
persiano yazd, "angelo") è la
religione praticata dagli Yazidi o Yezidi, 500.000 persone che
vivono soprattutto nei dintorni della città di
Mossul,
in Iraq.
Vi sono poi piccole comunità sparse per
Siria,
Turchia,
Iran,
Georgia e
Armenia, a cui si aggiungono alcuni rifugiati in
Europa.
Lo Yazidismo è presente nel
Vicino Oriente da più di 4.000 anni. In esso sono confluiti, nel
tempo, elementi di
giudaismo cabalistico, Cristianesimo mazdeo (vedi
Zoroastrismo) e
misticismo islamico. Alcuni studiosi definiscono lo Yazidismo
"il museo dei culti orientali".
L'origine della religione degli yazidi è ormai
generalmente considerata dagli studiosi come un complesso processo
di sincretismo, in cui il sistema di credenze e le pratiche di una
fede locale hanno avuto una profonda influenza sulla religiosità
degli aderenti all'ordine dei
sufi
Adawiyya, dopo la morte dello Sheik
Adi ibn Mustafa, ci fu una deviazione delle iniziali norme
islamiche dello yazidismo. Lo sheik si stabilì nella valle del Lalis
(circa 36 miglia a nord-est di Mossul), nei primi anni del
XII secolo, era una figura di indubbia ortodossia, godeva di
molta influenza. Morì nel 1162, e la sua tomba a Lalis è oggetto di
pellegrinaggio.
Secondo il calendario Yezidi, l'aprile 2012 ha
segnato l'inizio dell'anno 6762 (quindi l'anno 1 sarebbe stato il
4.750 aC secondo il calendario gregoriano).
Nel corso del XIV secolo, importanti tribù Yezidi
la cui sfera di influenza si estendeva anche in Turchia furono
citati nelle fonti storiche come Yazidi.
La loro resistenza ai dominatori arabi calati su
Mossul
fu storica. Gli yazidi superarono indenni il dominio della dinastia
Safavide e degli
Ottomani, che si contesero nei secoli il controllo di
Mossul,
città yazidi bagnata dal fiume
Tigri
e situata ai piedi delle montagne del
Kurdistan e all'inizio del deserto arabico del
Rub‘ al-Khālī. Era un punto di passaggio obbligato per tutte le
carovane che dall'Asia centrale si dirigono verso la
Siria
(e il
mare Mediterraneo) e verso l'Anatolia.
I mongoli di
Gengis Khan, che pure avevano preso
Baghdad dopo un assedio di una sola settimana, a Mossul
dovettero mantenere l'assedio per un anno intero.
In un proverbio arabo è raccolto tutto l'odio
contro i curdi yazidi: «Tre calamità vi sono al mondo: le locuste, i
topi e i curdi». Se i
wahhabiti hanno dato la caccia agli yazidi in quanto "apostati",
i tradizionalisti
sunniti li chiamano "adoratori del diavolo".
Gli yazidi rischiarono l'estinzione nel
1892,
quando le truppe ottomane penetrarono nella valle di
Lalish
e passarono a fil di spada migliaia di abitanti, distruggendo il
mausoleo dello
shaykh ("maestro")
Adi ibn Mustafa, morto nel
1162.
Durante il regime di
Saddam Hussein, gli yazidi vennero classificati come "arabi",
in modo tale da falsare gli equilibri etnici nella regione. Il
regime comunque li emarginò e li trattò da cittadini di serie B.
Dalla caduta di Saddam nel
2003, i
curdi richiedono che gli yazidi siano riconosciuti come facenti
parte del popolo curdo a tutti gli effetti.
Gli yazidi venerano
Melek Ṭāʾūs, un angelo dalle sembianze di un
pavone. Il culto di Melek Ta'us sembra contenere elementi propri
di
mitraismo,
mazdeismo,
manicheismo,
islam
e
giudaismo. Con tutta probabilità, esso deriverebbe dall'antico
culto
pre-islamico proprio del popolo curdo. Intorno alla metà del
XII secolo, il maestro
Adi ibn Mustafa riformò la religione (ciò fa pensare dunque che
il culto originario fosse in qualche misura diverso dall'attuale). I
vari clan possono inoltre presentare alcune differenze
nell'interpretazione dei testi sacri.
Gli yazidi chiamano loro stessi Dasin. Secondo
un'errata etimologia popolare, il termine "yazidi" deriverebbe dal
nome del
califfo
omayyade
Yazid I (680-683); più probabilmente, esso proviene dal
medio-persiano (lingua
pahlavi) yazd, cioè "angelo", forse in riferimento a Melek Ta'us.
Gli yazidi credono in un dio primordiale, la cui
azione è terminata con la creazione dell'universo.
Melek Ta'us, invece, è un'entità divina attiva, in origine un angelo
dalle sembianze di un
pavone (Melek vuol dire appunto "angelo" e Ṭāʾūs significa
"pavone") che, dopo essere decaduto, si pentì e decise di ricreare
il mondo che era stato distrutto. Riempì perciò alcune giare con le
sue lacrime e se ne servì per estinguere il fuoco dell'Inferno.
Alcuni clan venerano come un santo il maestro ʿAdi, considerato una
sorta di discepolo di Melek Ta'us. Altre sei divinità minori sono
talvolta onorate.
Le sacre scritture dello Yazidismo sono il Libro
della Rivelazione e il Libro Nero.
Gli yazidi sono piuttosto diffidenti verso le
persone di altre religioni: per esempio, la preghiera (da effettuare
due volte al giorno sempre in direzione del sole) non può essere
recitata in presenza di persone estranee al culto di Melek Ṭāʾūs. Il
mercoledì è il giorno sacro, sebbene sia il sabato ad essere
considerato il giorno di riposo. A dicembre vi è poi una lunga
festività di tre giorni. Vi sono altri giorni sacri definiti dal
Libro Nero, ad esempio il giorno 20 di luglio è definito di riposo
perché sacro. Il significato di molte di queste ricorrenze non è
però comunemente divulgato e tutto ciò ammanta di misterioso questo
complesso culto.
Il rituale principale è il
pellegrinaggio annuale, della durata di sei giorni, verso la
tomba del maestro ʿAdi a
Lalish
(a nord di
Mossul).
Durante la celebrazione i fedeli si immergono nelle acque di un
fiume, lavano le statue raffiguranti Melek Ta'us e accendono
centinaia di lampade sulle tombe di ʿAdi e degli altri santi. Nel
corso della cerimonia viene anche sacrificato un
bue, ragione per cui lo Yazidismo è talvolta associato al
mitraismo.
La società yazidi presenta una struttura
gerarchica che vede ai vertici un capo secolare, detto
Amīr,
e un capo religioso, detto
Shaykh.
Usi e costumi
Gli yazidi sono per lo più
monogami, anche se, in alcuni rari casi, ai capi è concesso
avere più di una moglie. I bambini vengono battezzati alla nascita;
la
circoncisione è una pratica diffusa ma non obbligatoria. Subito
dopo la morte i defunti sono deposti con le mani giunte in tombe di
forma conica.
Gli yazidi, ritenendosi gli unici veri discendenti
di Adamo,
non accettano né i matrimoni interreligiosi (neppure con i curdi di
religione musulmana), né le conversioni. La pena più grave per un
fedele è l'espulsione dalla comunità, poiché l'espulso va incontro
alla perdita dell'anima, anche se non mancano casi di violenza
fisica. Come nel caso di
Du'a Khalil Aswad, una ragazza di 17 anni curda di fede Yazidi
uccisa a calci e pietre nel 2007, per essere stata vista con un
ragazzo di etnia diversa.
Quale figura di
demiurgo, Melek Ta'us è spesso ritenuto dai musulmani uno
shaytan, cioè un "diavolo" che devia i veri credenti.
Nell'Islam, infatti, si ritiene che
Iblis o Shaytan corrompa l'uomo, portandolo ad affiancare altre
divinità ad
Allah,
che secondo la religione islamica è l'unico vero dio. Proprio a
causa di tale interpretazione, gli yazidi sono stati spesso
perseguitati con l'accusa di adorare il diavolo.

Dopo
le bombe, le marce, i sermoni,
arrivano le ruspe. Fra le
priorità dell'Isis,
l'esercito qaedista che sta prendendo il controllo dell'Iraq, c'è
infatti la fretta di abbattere le vestigia e i monumenti considerati
infedeli. Così sui canali della propaganda fondamentalista arrivano
le immagini di minareti, tombe e templi sciiti e cristiani abbattuti
o fatti saltare per aria.
Ora la minaccia è arrivata anche alle testimonianze
più antiche, ai capolavori di due millenni e mezzo fa, quando l'Iraq
si chiamava Mesopotamia ed era il cuore della nascente civiltà
mediterranea. Concentrati nei dintorni della roccaforte di quello
che già definiscono il nuovo Califfato, Mosul, si
trovano infatti 1.791 aree archeologiche, oltre a quattro capitali
dell'impero considerato nell'Antico Testamento l'esempio stesso del
potere spregiudicato e blasfemo: le città monumentali degli Assiri,
con le loro sculture ciclopiche e i meravigliosi bassorilievi in
pietra da poco studiati. Tutto ora è nelle mani dei ribelli.«Dopo
anni di abbandono, monumenti quali Ninive, Nimrud e la stessa Mosul
saranno programmaticamente cancellati, rasi al suolo dalla furia
iconoclasta di questi gruppi», spiega preoccupato
Carlo Lippolis , che ha frequentato spesso quelle zone per scavi
diretti dall'Università di Torino: «Al momento nessuno sa nulla di
certo. Ma se succederà qualcosa penso che l'Isis lo farà sapere a
tutto il mondo». Perché colpire Ninive significa colpire le radici
della società occidentale.
Per ora, non sono stati dimostrati danneggiamenti.
Ma in un'intervista al
intervista al Daily Beast il direttore del museo
archeologico nazionale, Qais Hussein Rashid, ha raccontato come gli
uomini di al-Baghdadi si siano installati definitivamente, la
settimana scorsa, all'interno del museo di Mosul, dicendo agli
impiegati locali di «essere in attesa di istruzioni dalla loro guida
per distruggere le statue».
L'ordine sembra sia stato chiaro: tutti i falsi idoli vanno spazzati
via. Compresi quelli millenari delle sale museali di Mosul, già
saccheggiate durante l'invasione statunitense del 2003, da poco
ristrutturate e pronte a riaprire con ciò che era rimasto della loro
ricca collezione.L'obiettivo dei miliziani dell'Isis potrebbe però
non essere solo la distruzione che ruspe ed esplosivi stanno
portando avanti contro i simboli della fede sciita. Secondo
un'inchiesta del Guardian buona parte della ricchezza
accumulata da al-Baghdadi (stimata approssimativamente in due
miliardi di dollari) arriva proprio dal commercio di opere trafugate
illegalmente in Siria e vendute sul mercato nero. «Hanno guadagnato
36 milioni di dollari solo dall'area di al-Nabuk, a ovest di
Damasco. I pezzi hanno fino a ottomila anni», avrebbe spiegato un
ufficiale dell'intelligence. E come
ha raccontato l'Espresso un anno fa , i tesori
strappati dalla Siria erano arrivati illegalmente anche in Italia.
Ad essere minacciati poi non sono solo i monumenti sciiti o le
antichità assire. Da giugno i miliziani starebbero infatti bruciando
chiese e monasteri cristiani. «Un nostro
collaboratore che si trova a Baghdad mi ha confermato che per ora
non ci sono notizie sicure che facciano pensare che la distruzione
di antichità (musei e siti archeologici) sia già cominciata, mentre
è confermato l'accanimento contro moschee sciite e chiese
cristiane», continua Lippolis: «Inoltre si registrano danni a tombe
di profeti: si parla ad esempio della tomba del profeta Giona, che
sorge all'interno dell'area archeologica di Ninive, su di una
collina sotto cui si celano le rovine di un palazzo neo-assiro, e
che fino ad ora, salvo limitati sondaggi, era stata preclusa allo
scavo archeologico estensivo proprio per la sacralità del luogo».
Secondo quanto
ha riportato un impiegato del dipartimento dei manoscritti della
biblioteca centrale di Mosul, molti volumi rari, soprattutto
islamici, sarebbero scomparsi, per risbucare al di là del confine
con la Turchia. E le aree archeologiche si troveranno a breve in
mezzo ai combattimenti, denunciano gli archeologi, mettendo a
rischio il poco che si è salvato dai tombaroli e dalla furia
religiosa, come è successo in Siria.Una fine da evitare. Ma come?
«L'unica forza che può fermare questa scellerata azione dell'Isis è
la popolazione locale», sostiene il docente di Torino: «che finora
ha sempre tenuto molto al proprio glorioso passato e alla propria
identità». Un episodio in questo senso sarebbe già avvenuto:
settimana scorsa, i miliziani avrebbero provato a distruggere il
santuario di Sheikh Fathi, ma sarebbero stati
bloccati da un gruppo di abitanti che aveva circondato il tempio
e lanciato pietre finché i ribelli non se ne erano andati. Un
successo importante, ma breve: nella notte gli uomini di al-Baghdadi
sarebbero tornati con un bulldozer, danneggiando irrimediabilmente
la struttura.
«Io spero che la popolazione abbia la forza, la possibilità e il
coraggio di opporsi», conclude Lippolis: «Sarebbe un segnale
fortissimo per il mondo intero». Con una domanda che arriva fino a
qui: «Noi lo faremmo?

Afghanistan, drone Usa uccide il numero uno dei Talebani Mansour.
Islamisti confermano (22-05-16)
Il successore del mullah Omar è morto in un blitz in Pakistan.
Secondo il Pentagono era il principale “ostacolo alla pace e alla
riconciliazione tra governo afghano e milizie”
Più volte annunciata e poi smentita, questa volta pare che sia la
buona. Se non altro perché sono gli stessi Talebani ad annunciare la
morte del loro leader mullah Akhtar
Mansour ucciso
dall’attacco di un drone Usa mentre si trovava in una remota regione
del Pakistan ai
confini con l’Afghanistan.
La conferma arriva da un comandante delle milizie islamiche.
Soprannominato il Guercio,
perché cieco da un occhio, Mansour diventa capo dopo la morte nel
luglio 2013 del fondatore mullah
Mohamed Omar.
“Un ostacolo alla pace e alla riconciliazione tra il governo afghano
e i Talebani, impedendo loro di partecipare ai
colloqui di pace he
avrebbero potuto portare alla fine del conflitto”, afferma Peter Cook,
portavoce del Pentagono.
Molti critici del mullah Mansour lo hanno accusato di essere una
pedina nelle mani dell’intelligence
pakistana, che hanno affermato gli abbia offerto
protezione. Il dissenso interno aveva anche spinto allo stop dei
colloqui di pace con Kabul.
Lui stesso, nel primo discorso dopo la nomina a leader, dichiarò:
“Non dovremmo concentrarci sui colloqui di pace o su cose correlate.
Dovremmo farlo sull’applicazione del sistema islamico”.
Parole che gli provocarono il definitivo riconoscimento di al-Qaeda,
conAyman
al-Zawahiri che
gli aveva giurato fedeltà riconoscendolo come legittimo successore
del fondatore Omar.
Di lui, al di là degli incarichi come combattente, non si è mai
saputo molto. Aveva studiato in una
madrassa nel
villaggio di Jazolai,
nel distretto
Nowshera della
provincia pakistana di Khyber-Pakhtunkhwa. Per un breve periodo
aveva combattuto contro le forze
sovietiche in
Afghanistan, parte di un ex gruppo paramilitare. Dopo l’ingresso nei
talebani, gli era stato assegnato un ruolo nella sicurezza a Kandahar,
poi ilministero
dell’Aviazione civile negli
anni dei talebani al potere, tra il 1996 e il 2001. Salì sempre di
più nella scala gerarchica del gruppo, sino ad arrivare al vertice.
Il 4 dicembre scorso diverse fonti talebani affermarono fosse stato
gravemente ferito o addirittura ucciso in una sparatoria tra vari
leader del gruppo estremista. Ma un portavoce smentito e il giorno
successivo i talebani avevano diffuso una registrazione audio che
affermavano fosse della voce del loro leader. Vi veniva negata la
notizia del ferimento o
del decesso:
“Io sono in mezzo al mio popolo. Questo incidente non è mai avvenuto
e non è vero. Questa è la propaganda del nemico”.
Kabul, il mullah Omar è morto due anni fa,nel 2013
Lo hanno confermato i servizi segreti afgani, anche se gli
integralisti insistono nel negare la morte del loro capo supremo,
che sarebbe avvenuta nell'aprile 2013. Mistero sulle cause del
decesso (29-07-15)
FRONTE DEL MEDITERRANEO
(IL
PICCOLO ALIAN, SIRIANO,6 ANNI, PER NON DIMENTICARE MAI COSA
PURTROPPO E' CAPACE DI FARE L'UOMO SULL'UOMO A 70 ANNI DALLA
CARNEFICINA DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE.....NON ABBIAMO IMPARATO
NIENTE...)
Il
gommone soccorso nel Canale di Sicilia (foto dalla nave Aquarius
dell'Ong Sos Méditerranée)Migranti, già superato record di sbarchi
"A fine anno saranno più di 100mila"
Lega: "Colpa di Renzi". Il Pd: "Sciacalli"
ECONOMIA
ITALIOTA
La banca centrale cinese prende un 2% anche di Unicredit e Monte dei
Paschi

Investimento da quasi un miliardo, a due settimane dalla stessa
puntata su Intesa Sanpaolo. Le blue chip italiane si confermano le
preferite di Pechino in Europa, dopo le aziende della City.
Unipol, sciopero nel giorno dell'assemblea,28 aprile 2016
http://www.bolognatoday.it/cronaca/unipol-stalingrado-sciopero-contratto-polizia.html
Unipol non vuole più rating
di S&P. Come il re che per
non vedersi abolì gli specchi:il
gruppo ha l'80% degli investimenti in italia ed e' inevitabile un
suo rating al ribasso ancorato a quello nazionale (bbb-), altresi
-5,8% di utile netto rispetto al 2014,-8,8% di raccolta diretta
rispetto al 2014...
Banca popolare di Vicenza, la Borsa dice no. Salvata dal fondo
Atlante, ma le banche tremano (2-5-16)
Paracadute o veicolo di contagio? Lo
stop arrivato alla quotazione in Borsa della Banca di Vicenza chiama
in causa il Fondo Atlante, la ciambella di salvataggio per le banche
in difficoltà, tormentate da aumenti di capitale che vanno quasi a
vuoto sul mercato e affossate dal peso dei crediti deteriorati. Se
le cose si mettono male per queste banche, come sta succedendo
proprio a Vicenza, il Fondo deve intervenire e assolvere a uno dei
suoi compiti, cioè sostenere la ricapitalizzazione. Così per l’ex
Bpvi, che da sola è andata incontro al flop della sottoscrizione del
nuovo capitale, Atlante sarà la mano salvifica perché garantirà
l’intera copertura, andando a sottoscrivere tutte le azioni per un
esborso pari a 1,5 miliardi di euro. Atlante salverà Vicenza, ma
rischia di mettere in difficoltà due istituti solidi, UniCredit e
Intesa Sanpaolo, che dovranno sostenere lo sforzo maggiore. Cosa
succederà infatti se, come avverrà per la Banca di Vicenza dopo lo
stop a piazza Affari, il Fondo dovrà tirare in ballo in modo
consistente le banche che contribuiscono al suo funzionamento?
Inizia la battaglia per il Corriere della Sera
I soci storici lanciano la controfferta anti-Cairo
Il fine giustifica i mezzi e la sepoltura degli antichi
dissapori. E così, pur di non far passare il Corriere della Sera
nelle mani di Urbano Cairo, Diego Della Valle, Mediobanca,
Unipol e Marco Tronchetti Provera hanno unito le forze. E
rispolverato dal Lussemburgo Andrea Bonomi, per lanciare una
controfferta da 282,75 milioni sull’editrice del quotidiano
milanese, Rcs. L’Opa totalitaria valorizza la società 70
centesimi per azione, per un totale di circa 365 milioni, il
31,58% in più rispetto a quanto offerto da Cairo, per di più in
azioni della sua casa editrice e non in denaro sonante. Del
resto un salotto è per sempre. |
Mediaset: accordo fatto con Vivendi, Premium passa ai francesi
Il cda del Biscione ratifica l'intesa con il gruppo del finanziere
Bolloré: scambio del 3,5% del capitale e passaggio della pay-tv
sotto le insegne transalpine. Il titolo sale del 5,4% in Borsa.
MILANO -
Accordo fatto: parte ufficialmente l'alleanza industriale e
azionaria tra Mediaset e i francesi di Vivendi, il gruppo media
guidato dal finanziere
Vincent Bolloré che
rappresenta anche il primo azionista di Telecom Italia, a un passo
dal 25% della società Tlc. Il consiglio di amministrazione del
Biscione,convocato
nel pomeriggio per
ufficializzare lo scambio azionario di un pacchetto del 3,5% del
capitale con Vivendi, ha dato il via libera all'intesa che prevede una
collaborazione che spazia dalla pay tv alla produzione in comune di
contenuti proprietari. Il tutto in una giornata trionfale in Borsa
per la società di Cologno Monzese, vissuta proprio sull'attesa
dell'annuncio.
In una nota, le due società hanno spiegato di aver raggiunto un
accordo "strategico industriale" che include la vendita della quota
del Biscione nella pay-tv Mediaset
Premium (l'89%
della pay-tv, mentre il
restante 11% è stato acquistato dagli spagnoli di Telefonica per
100 milioni, ma questi ultimi usciranno dalla piattaforma), in rosso
e a questo punto destinata fuori dal perimetro del gruppo
berlusconiano
Le due società hanno inoltre deciso di "sviluppare una partnership
industriale a livello internazionale, da una parte sviluppando
insieme varie iniziative per la produzione e la distribuzione di
ambiziosi contenuti audiovisivi, e dall'altra di creare una
piattaforma globale televisiva OTT". Si tratta di unire le
piattaforme Over the top, che forniscono contenuti attraverso il
web: Infinity per gli italiani e Watchever per i francesi, con
l'intento di frenare l'avanzata di Netflix nel Sud Europa con
un'offerta di tv e video on demand. Con Mediaset Premium, Vivendi
"espande fortemente" la propria presenza e la pay tv europea,
incrementando i propri clienti individuali a oltre 13 milioni "in un
mercato italiano che offre importanti opportunità di crescita".
In attesa
delle comunicazioni da Cologno Monzese, arrivate a Borse chiuse, il
titolo del Biscione ha
chiuso in rialzo del 5,4%, superando la pur brillante performance
del Ftse Mib che
ha guadagnato il 4%.
11 lug 2014
Le cessioni di Digital+ e
di parte di Mediaset
Premium hanno
dato linfa al titolo, che rimane però in ritardo rispetto a Piazza
Affari. Stimiamo un utile per azione di 0,02 euro nel 2014 e di
0,09 euro nel 2015. Con queste stime il titolo resta caro.
Prezzo al momento
dell’analisi (10/7/2014): 3,35 euro
Mediaset continua a fare
cassa. Dopo aver venduto in aprile il 25% delle torri di
trasmissione di Ei
Towers per
circa 284 milioni di euro, ha ora ceduto per 365 milioni il 22%
della pay-tv spagnola Digital+ a Telefonica,
alla quale ha passato anche l’11% diMediaset Premium per
un corrispettivo di 100 milioni (significa valutarla nel suo
complesso 900 milioni di euro, non male per un’attività ancora in
rosso). In tutto fanno 749 milioni incassati, che vanno a
compensare, in parte, il miliardo investito per accaparrarsi i
diritti della Champions
League di
calcio dal 2015 (700 milioni la spesa) e parte dei diritti della Serie
A italiana
(373 i milioni spesi – vedi Altroconsumo
Finanza n°
1084). E le cessioni non sono finite, Mediaset
Premium è
infatti ancora sul mercato: in prima fila sembra esserci Al
Jazeera, ma anche Vivendi può
essere della partita.
Accordo Gruppo Espresso-Itedi. L'unione di Repubblica, Stampa e
Secolo XIX porterà alla creazione del primo gruppo italiano
dell'informazione stampata e digitale. Monica Mondardini sarà alla
guida operativa.
Dopo l’uscita di Fca dai quotidiani, nasce un nuovo gruppo
editoriale proprietario de La Repubblica e La Stampa. Quello dei
media è però un mercato particolare. E l’analisi degli effetti su
concorrenza e pluralismo dovrebbe essere svolta a livello regionale
e provinciale. Le prospettive di Rcs.
Mondadori si prende Rizzoli Libri per 127,5 milioni di euro.
Per volontà degli Agnelli RCS svende la sua divisione libri a
Berlusconi, poi gli Agnelli decidono di dismettere tutto il parco
giornali locali italiota, 5 marzo 2016, cedendolo al gruppo
Espresso-De Benedetti (La Stampa-Il Secolo XIX), uscendo altresi da
RCS dopo 35 anni e da socio di maggioranza dal 2014.
Fondi sovrani verso la progressiva regressione, il sistema bancario
secondo l'M5s, Netflix sbarca
in Italia, l'Opec mette fuori gioco gli Usa ma Nigeria, libia,
Venezuela, Algeria, Iraq sono al collasso, Credit Suisse in
difficoltà vara un aumento di capitale da 6 miliardi di euro,
Mediaset a picco in borsa: gli abbonamenti premium non crescono.
Alitalia-Etihad firmata la "svolta sexy"
che costerà allo Stato almeno 600 milioni
Esuberi e soldi pubblici: giravolte di Lupi
La compagnia di bandiera ha siglato
l’intesa che permetterà al vettore del Golfo di diventare socio
al 49%. L'ad della compagnia del Golfo, James Hogan: "Non sarà
una rivoluzione ma una evoluzione, vogliamo rendere Alitalia più
sexy". Intervento di Poste, amortizzatori sociali e banche: ecco
il costo per la collettività
(di F. Capozzi). Videoblob: tutti gli
annunci del ministro
(di G. Ruccia)
Letizia Brichetto
Moratti, la manager con il buco del culo intorno

La “donna del fare”,
chiamata al governo da Silvio Berlusconi, sfoggia con orgoglio il
suo curriculum. Ma il gruppo da lei fondato nel 2000 si è
trasformato in un buco senza fondo che ha inghiottito centinaia di
milioni di perdite
“È presidente e
maggiore azionista di Syntek capital group, società d’investimento
attiva nel settore delle telecomunicazioni e dei media con sede a
Monaco di Baviera”. Correva l’anno 2001 e Letizia
Brichetto Arnaboldi Moratti si raccontava così sul sito
Internet del ministero dell’Istruzione. Lei, donna manager, “donna
del fare”, chiamata al governo da Silvio Berlusconi, sfoggiava
orgogliosa l’ultimo traguardo raggiunto in carriera. A un decennio
di distanza, nella sua pagina online del Comune di Milano, la
sindaca Moratti conferma: è ancora lei il socio principale nonché
presidente dell’advisory board di Syntek. Solo che nel frattempo è
successo di tutto.
Il gruppo fondato nel 2000 dalla
moglie del petroliere
Gianmarco Moratti
si è trasformato in un buco senza fondo che ha inghiottito centinaia
di milioni di perdite. Quasi peggio dell’Inter, gran passione
dell’altro Moratti, Massimo.
Anche lì i bilanci sono da tempo in rosso profondo, ma almeno la
squadra ha fatto man bassa di trofei. Nel regno di Letizia, invece,
si perdono quattrini e basta. E poi tocca al marito staccare
l’assegno per far fronte al passivo.
Negli ultimi cinque anni
l’avventura Syntek è costata una somma non inferiore ai 200 milioni
di euro. I conti sballati della società con sede in Baviera hanno
mandato a picco i bilanci della Securfin holdings, la società di
famiglia di Gianmarco e Letizia Moratti. La stessa a cui fanno capo
una serie di proprietà immobiliari in Italia e all’estero (Stati
Uniti e Gran Bretagna), compresa la casa del sindaco in pieno centro
di Milano e il castello di Cigognola, nell’Oltrepo Pavese.
Securfin holdings ha perso 11
milioni nel 2006, addirittura 112 milioni l’anno successivo, poi 45
milioni nel 2008 e altri 20 nel 2009, ultimo dato disponibile. Dal
bilancio emerge che la holding targata Moratti vanta crediti per
oltre 180 milioni nei confronti di una finanziaria olandese, la
Golden.e, a sua volta esposta verso Syntek. Ma le probabilità di
recuperare questi prestiti sono talmente ridotte che sono state
iscritte all’attivo a valore zero.
Insomma, una situazione
disastrosa. Mica male per una signora che ama sfoggiare le sue
competenze manageriali. Proprio lei, l’erede dei Brichetto, una
dinastia di assicuratori partiti da Genova alla fine dell’Ottocento.
Certo, impegnata a fare il sindaco, forse Letizia Moratti avrà
trovato poco tempo da dedicare alla sua Syntek. È un fatto,
comunque, che nel suo ruolo di maggiore azionista e presidente dell’advisory
board avrebbe comunque dovuto dare un occhio alla gestione aziendale
e alla scelta degli investimenti.
A quanto sembra gli affari sono
andati a rotoli sin da principio. L’iniziativa è partita troppo
tardi per cavalcare a fine anni Novanta l’onda del boom della
cosiddetta New Economy. In compenso è stata investita in pieno dalla
crisi. Una delle operazioni meno fortunate (eufemismo) è però molto
lontana dal mondo delle nuove tecnologie. Carte alle mano si scopre
che la società controllata da Letizia Moratti è riuscita a perdere
svariate decine di milioni con la Cargoitalia, una compagnia aerea
per il trasporto merci. Nel 2008 Syntek ha messo in vendita
l’azienda, passata al gruppo Leali con il supporto di Banca Intesa.
Il conto finale è stato pesantissimo: 76 milioni di perdite. Un
mezzo crac che ha lasciato il segno nel bilancio della holding.
Speranze di recupero? Pochine, al
momento. E pensare che nel 2000, per lanciare la neonata Syntek, i
Moratti chiamarono a raccolta una schiera di consulenti d’eccezione.
Un vero parterre di grandi nomi della finanza internazionale.
Scorrendo l’advisory board si incontrano personaggi come
Antoine Bernheim, a lungo
presidente delle assicurazioni Generali, l’avvocato
Sergio Erede, titolare di uno degli studi legali più
noti nella city milanese, Eckhard Pfeiffer,
già numero uno di Compaq computer e molti altri ancora.
Nell’elenco spunta anche il nome
di Sonja Kohn,
banchiera con base in Austria che dopo la sua esperienza in Syntek è
stata travolta dal crac di Bernard Madoff.
Era lei, questa l’accusa, a vendere in Europa i prodotti finanziari
del bancarottiere americano, protagonista di uno dei crac più
clamorosi della storia di Wall Street. La Kohn, così come gran parte
degli altri consulenti, ha da tempo rotto i rapporti con Syntek.
Motivi d’immagine: meglio tenere le distanze da una società che
perde soldi a rotta di collo. Così, alla fine, il cerino acceso è
rimasto a Letizia Moratti. E il marito paga.
POLITICA ITALIOTA
Allle Comunali del 5 giugno, M5S al ballottaggio a Roma e
Torino, il PDiMerda non prende al primo turno nemmeno Bologna;
liquefatta la pseudo destra: testa a testa solo a Milano

Se la prima forza
italiana esulta per essere arrivata seconda (staccatissima) a Roma,
per aver vinto al primo turno a Cagliari (con un candidato di Sel) o
per essere andata al secondo turno da favorita in città dove fino a
tre mesi fa credeva di vincere in ciabatte (Torino, Milano,
Bologna): be’, se tutto questo accade, quel partito – sebbene abbia
quasi tutta l’informazione a favore – non
sta forse benissimo.
Le sfide chiave. Renzi ha parlato pochissimo di
Amministrative perché avvertiva
la mal parata: ha il coraggio dei puffi, quando perde. Da
qui al 19 giugno ciarlerà senza dire nulla: come sempre. Il 19
giugno farà i complimenti alla Raggi,
tanto Roma l’ha già data per persa e spera che i 5 Stelle dimostrino
in una grande città di non
saper governare, regalandogli così il trionfo nel 2018 (o
2017). Le sfide chiave sono Torino e
soprattutto Milano.
Se perderà il suo Sala, che fino a febbraio doveva vincere al primo
turno (cit), sarà per lui un disastro senza pari. Tenendo per giunta
conto del tanto di buono fatto da Pisapia.
M5S. A metà notte credevano di avere vinto ancora di più e
già erano partiti con i soliti toni inutilmente trionfalistici:
l’harakiri del #vinciamonoi,
a molti attivisti, non ha insegnato nulla. E’ però innegabile che
siano i
veri vincitori. Sembra già normale, ma una forza
“antagonista” che a soli 7 anni dalla nascita vince nella Capitale è notizia
clamorosa. Notevole anche il risultato di Torino: Chiara
Appendino parte
con 11 punti in meno rispetto a Fassino, un altro che fino a pochi
mesi fa doveva vincere in carrozza (cit). Torino sarebbe la vittoria
perfetta per i M5S, perché Torino è molto
meno complessa di Roma. Emblematico che una città
notoriamente “tradizionalista” abbia regalato tanti consensi al M5S:
soltanto sei anni fa, quando la Bresso perse comicamente con Cota, Pd e
stampa regionale sentenziarono che era colpa di Grillo, reo di avere
“rubato” i voti al centrosinistra. In
sei anni è cambiato tutto. I 5 Stelle si confermano però
forza altalenante: in alcune parti attecchiscono (Savona, Sicilia) e
in altre no. Mestissime le prestazioni a Milano e Napoli: De
Magistris gli ha
rubato completamente la scena. Discreto il 16% di Bologna, ma niente
ballottaggio.
M5S (dimenticavo). Due
cose ancora. 1. I
dibattiti sulla “democrazia interna” – vedi Pizzarotti e affini –
appassionano social e media, ma interessano meno di niente
l’elettorato. Non
spostano nulla, anche perché tutti sanno benissimo che Di
Maio conti più di Giarrusso o Grillo più di Toninelli: è il segreto
di Pulcinella. 2. I
5 Stelle sono stupidamente accostati da più parti al populismo dei
Trump & Le Pen, ma – oltre a non entrarci nulla – vincono proprio
dove si presentano più
garbati e meno divisivi. La minor presenza (mediatica) di
Grillo li ha aiutati. I 5 Stelle vincono con le Raggi e vanno forte
con le Appendino: nel momento in cui invece puntano sul loro aspetto crimi-lombardesco,
ovvero quello “talebano-sentenziante”, esaltano i tanti ultrà in
servizio permanente sul web ma vincono al massimo alla playstation.
M5S (dimenticavo un’altra volta). Il
M5S non pare esattamente “morto”
come si sostiene ciclicamente, per esempio dopo la loro waterloo
alle Europee. Renzi non è minimamente riuscito a disinnescarli, anzi
con la sua boria bulimica di potere e con le sue fanfaronate
comico-dittatoriali li ha esaltati: è la sua più grande sconfitta. Stacce,
Matteo.
Centrodestra. E’ morto e sepolto, anche se una vittoria di
Parisi cambierebbe la narrazione (cit). Un centrodestra così
marginale non si era mai visto negli ultimi vent’anni. Qualcuno mi
dirà qui che il centrodestra non è certo marginale, essendo come
noto al governo: vero, ma stavo parlando di centrodestra
“ufficiale”. Il quale, e si sapeva già, ha chance solo quando si
presenta unito (a forza e per forza). Vedi caso Liguria con Toti,
vedi caso Milano con Parisi. A parte Bologna e Lettieri, dove
partono comunque in netto ritardo, il resto fa piangere. Disastro
assoluto a Roma: Berlusconi non
ha regalato voti a Marchini, ma glieli ha tolti. Ormai quel che
tocca muore, e ve lo dice un milanista.
Trani indaga su Deutsche Bank: la caduta del governo Berlusconi fu
davvero ‘un colpo di Stato’?
La recente notizia dell’apertura di un’indagine, da parte dellaProcura
di Trani, sulla Deutsche
Bank per
le operazioni – 7 miliardi di euro di valore – effettuate sui
titoli di Stato italiani tra il gennaio e il giugno del 2011, ci
obbliga a fare i conti, finalmente, con quanto avvenuto in Italia
nel corso di quel drammatico anno. Uncolpo
di Stato: era questa la tesi che avevo sostenuto per indicare
come la caduta di Berlusconi ed il conferimento dell’incarico di
Presidente del Consiglio a Monti, non fosse stato che il risultato
di una operazione decisa da “poteri
forti” estranei al nostro Paese e realizzata con la
complicità dell’allora Presidente della Repubblica Giorgio
Napolitano.
Tutti ricorderanno come sia stata l’improvvisa crisi dello spread a
determinare la fine del governo
Berlusconi: lo spread cominciò a salire dai primi giorni di luglio
2011, raggiungendo quota 244, per poi, da agosto in poi,
crescere vertiginosamente fino ad arrivare, la seconda settimana di
novembre, a quota 553. Chi come il sottoscritto sollevò, allora,
l’ipotesi che lo spread fosse
stato “forzato” a salire artificialmente e con il solo scopo di
costringere Berlusconi alle dimissioni, venne accusato di “complottismo”.
E ciò nonostante i fatti parlassero chiaro: Mario
Draghi, in una lettera segreta in seguito resa pubblica a
fine settembre, aveva già dettato a Berlusconi misure urgenti per
evitare il collasso dell’Euro e ad ottobre Merkel e Sarkozy si
erano lasciati sorprendere, durante una conferenza stampa, ad ironizzare,
con una certa complicità, sulla loro “fiducia” nei confronti di
Berlusconi.
POI SONO
COMINCIATE, LENTAMENTE, AD USCIRE ALCUNE RIVELAZIONI. ALAN
FRIEDMAN, NEL 2014, RIVELÒ CHE, GIÀ NEL GIUGNO 2011,
NAPOLITANO AVEVA SONDATO MARIO
MONTI, CHIEDENDOGLI SE SAREBBE STATO DISPONIBILE A PRENDERE
IL POSTO DI BERLUSCONI. LA PUBBLICAZIONE DEL TESTO DI UN’AUDIZIONE
DEL 7 DICEMBRE 2011 DI PAOLO
SAVONA HA
RIVELATO INOLTRE CHE NELL’AGOSTO 2010 L’ALLORA MINISTRO TREMONTI
AVREBBE CONFERMATO L’ESISTENZA DI UN PIANO STRAORDINARIO DEL GOVERNO
PER ABBANDONARE L’EURO E TORNARE ALLA LIRA. CHE LA GERMANIA AVESSE
IL MASSIMO INTERESSE AD IMPEDIRE AD OGNI COSTO QUESTO “PIANO B”,
APPARE EVIDENTE. ED ECCO CHE, ORA, SI SCOPRONO LE MANOVRE DI
DEUTSCHE BANK PER ALTERARE
IL PREZZO DEI TITOLI DI STATO ITALIANI, COMINCIATE PROPRIO
NEI MESI IN CUI FU AVVIATA LA CRISI DEL DEBITO ITALIANO CHE PORTÒ
ALLA CADUTA DEL GOVERNO BERLUSCONI.
QUI NON SI
TRATTA, BENE INTESO, DI DIFENDERE UNA PARTE POLITICA NEI CONFRONTI
DI UN’ALTRA. SI TRATTA DI FARE
FINALMENTE CHIAREZZA SU
QUANTO ACCADUTO. È TEMPO CHE UNA COMMISSIONE PARLAMENTARE
D’INCHIESTA SI PRENDA IL COMPITO DI FAR LUCE SU QUELLO CHE È
SUCCESSO IN QUELL’ANNO. NÉ PIÙ NÉ MENO CHE “UN
COLPO DI STATO”, CONTINUO PERSONALMENTE A PENSARE.
CERTAMENTE UNA CRISI CHE HA SEGNATO LA FINE DELLA “SECONDA
REPUBBLICA” E L’INIZIO DI QUELLA STAGIONE CHE, OGGI, HA PORTATO
RENZI AL POTERE. E CON LUI IL TENTATIVO DI CONCLUDERE QUEL COLPO
DI STATO CON LA DISTRUZIONE DELL’ORDINE DEMOCRATICO ATTRAVERSO LA
DEMOLIZIONE DELLA COSTITUZIONE.
LA FINE
DEL NORD
Con meno sgravi lavoro stabile
crolla
“In primo trimestre -77% di nuovi posti
fissi rispetto a 2015. E a
marzo -150%”
M5s, Pizzarotti sospeso. “Trasparenza è dovere”
Lui replica: “Sono mesi che chiedo chiarimenti”
Addio Pannella, il leader radicale morto a 86 anni
Così ha cambiato l’Italia restando in minoranza(19-05-16)
Ha dato il divorzio all’Italia. Quando i poteri forti cattolici non
ne volevano sapere. Alle donne diede l’aborto legale. Ha inventato
le battaglie per i diritti civili, per l’obiezione di coscienza
antimilitarista, ha avversato la partitocrazia quando gli altri
intascavano tangenti. Questo e altro, Marco Pannella – morto a 86
anni – ha regalato all’Italia. Ricavandone spesso sorrisi beffardi e
offese. Se ne va un grande del Novecento italiano, che si è
confrontato e polemizzato con tutti i leader della storia: da
Togliatti e De Gasperi fino a Berlusconi e Renzi. Sempre in
minoranza, ma capace, con i radicali, di trascinare masse e segnare
nel profondo animo e storia del Paese
ARRESTATO SINDACO PD DI LODI SIMONE UGGETTI
“STAVA FORMATTANDO PC CANCELLANDO LE PROVE”
25
aprile: Nel giorno dell'inizio della precipitosa ritirata
nazifascista dall'Italonia, incalzati dagli
anglo-americani, che si sostituiranno a loro mantenendo armi e
bagagli anche dopo la liquidazione dell'URSS,anche
il Fatto Quotidiano piazza in prima pagina la vittoria di una
squadra DI MERDA.
DIMEZZATI GLI SGRAVI CROLLANO GLI IMPIEGHI STABILI
INPS: “A FEBBRAIO -33 PER CENTO DI INDETERMINATI”
IL REFERENDUM
SULLE TRIVELLE
L’AFFLUENZA FINALE SI FERMA AL TRENTADUE PER CENTO
LA
FACCIA DI MERDA:
"POLITICI VECCHIO STILE DIRANNO DI AVER VINTO ANCHE SE HANNO PERSO".
LO SCANDALO PETROLIO DELL'EX MINISTRO GUIDI FA SFONDARE IL QUORUM
SOLO IN BASILICATA.(17-4-16)
MARONI INDAGATO PER CONCUSSIONE
"Pressioni per piazzare due fedelissime"
Il
governatore è accusato dalla Procura di Busto di avere indotto le
società Eupolis ed Expo
a contrattualizzare due sue ex collaboratrici in modo da evitare i
rilievi della Corte dei Conti
Debito pubblico, nuovo record a maggio
raggiunta quota 2.166,3 miliardi di euro
Il debito pubblico tocca a maggio i
2.166,3 miliardi. L'Adusbef: "Il governo Renzi chiude il quarto
mese di presidenza con un debito pro capite pari a 36.225 euro"
Il
ministro spiega le linee guida del disegno di legge delega sulla
riforma della Pubblica amministrazione: "Stop alle carriere
automatiche: si andrà avanti solo per merito". Sul piano dei
contenuti, un solo ufficio territoriale del governo per uscire
"dall'idea della frammentazione"

I dati dell'Istat. La popolazione residente in Italia si riduce di
139 mila unit�. Al 1 gennaio 2016 i residenti erano 60 milioni 656
mila. Centomila italiani (+12,4%) hanno lasciato Paese
DIARIO
DELLA POLITICA ITALIANA DAL 2014 FINO AL 01 MARZO 2016
..Tutta
la politca interna dalle amministrative regionali della
primavera 2015, passando per le riforme delle banche popolari,al
decreto milleproroghe, all'esplosione di forza italia,alla nuova
responsabilita delle toghe,l'uscita di lupi,il veneto razzista, il
reddito di cittadinanza finendo
a pietro ingrao