È una manovrona. Smentendo le anticipazioni
della vigilia, le nostre incluse, la manovra è lievitata
rapidamente nelle ultime due settimane, prima 20 poi 30,
addirittura
36 miliardi l’ultimo giorno, con un incremento di 6 miliardi
dall’inizio alla fine di un Consiglio dei ministri.
Corrispondentemente, i tagli di spesa sono saliti
da 5 a 15 miliardi. Straordinario. Anche se è difficile non
sfuggire all’impressione di una qualche approssimazione negli
interventi e soprattutto nelle coperture: 6 miliardi
non si tirano fuori dal cappello in due ore.
Una scossa salutare
Sul piano macroeconomico, è però una
buona manovra. Coraggiosa, anche se rischiosa. Dopo tre
anni di recessione, era assurdo inseguire ancora il pareggio dei
conti con manovre restrittive. Siamo oramai al punto che
incrementi d’imposte o tagli di spesa rischiano di rendere ancor
meno sostenibili le finanze pubbliche per gli effetti negativi sul
reddito, non viceversa. È dunque giusto che si tenti una manovra
espansiva, a costo di peggiorare il disavanzo. E
non si tratta solo di spendere qualche soldo in più; qui c’è anche
lo sforzo di cambiare le aspettative degli operatori economici e
sostenerne la fiducia, con interventi strutturali
di modifica del mercato del lavoro e del sistema fiscale. È
corretto in particolare che la manovra accompagni a interventi
strutturali sul lato della domanda interna (bonus fiscale,
intervento famiglie numerose, anche Tfr volontario in busta paga),
interventi strutturali sul lato dell’offerta (taglio dell’Irap,
decontribuzione, nuovi contratti di lavoro). È il tipo di scossa
di cui il paese aveva bisogno, anche se si tratta di una
scommessa rischiosa.
Il rischio non sta tanto nell’Europa. La
Commissione europea dovrà salvare la faccia e dunque solleverà
sicuramente qualche problema; ma perfino i falchi finlandesi e
lettoni sono in grado di capire le conseguenze di uno scontro
frontale con due principali paesi dell’area euro. E il Governo è
stato attento a rispettare almeno formalmente il tetto del
3 per cento dell’indebitamento netto. Di fatto,
all’Italia la Commissione chiedeva una riduzione del disavanzo
strutturale dello 0,7 per cento alla luce delle
stime di giugno, molto più ottimistiche sulla situazione
economica; nel mondo parallelo e surreale rappresentato dalle stime
del prodotto potenziale, l’Italia ora offre una correzione
dello 0,1 per cento. Si metteranno d’accordo; i 3 miliardi di
riserva nella legge di stabilità sembra stiano lì proprio per
quello.
Il rischio della scommessa
Il rischio sta piuttosto nel potenziale
rimbalzo sui tassi d’interesse sul nostro debito, con mercati
nervosi e drogati. D’altra parte, il rischio c’era anche
rispettando gli impegni europei; mai visto un
paese con un tasso di crescita del reddito nominale
uguale a zero e con il 135 per cento di debito pubblico sul
Pil che trovi il favore entusiastico dei mercati.
Inoltre, i tedeschi, presi dai loro problemi politici interni,
sembrano voler far tutto per far saltare gli Omt e la Qe, rendendo
difficile per la Bce acquistare titoli del debito pubblico dei
paesi membri. E siccome la promessa di questi interventi
rappresentava la ragione principale per un’obbedienza stretta alle
regole europee, tanto vale tentare una nuova strada.
Il rischio sta anche sulla capacità di rispondere del sistema
economico, che a sua volta dipende anche dalla capacità di rendere
effettivi e credibili gli interventi previsti.
Se i tagli di spesa previsti non verranno
raggiunti, per esempio, c’è il rischio di aumenti delle imposte in
futuro, e questa aspettativa da sola può deprimere i consumi e gli
investimenti di oggi. Qui, francamente, non c’è molto da star
allegri. I 4 miliardi di tagli sui ministeri sanno di
déjà-vu; un anno di Commissario alla spending
review ha riprodotto pari-pari i soliti tagli lineari, la
cui esperienza nel passato è stata fallimentare. Gli interventi su
enti locali e regioni sembrano altamente casuali; per esempio, si
taglia a man bassa sulle province senza avere ancora deciso a chi
andranno le funzioni precedentemente svolte da queste.
Si impongono 4 miliardi di tagli alle Regioni, facendo finta
di credere che questi possano essere ottenuti senza intervenire
sulla sanità, quando ormai nel bilancio delle
regioni c’è rimasto poc’altro. E con gli inasprimenti fiscali
decisi su fondi pensioni e le altre rendite, si ammazza
probabilmente in modo definitivo la previdenza integrativa, senza
porsi granché il problema del futuro. Vedremo.