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 INTERNOTIZIE CINE MOBILE di Rosy D.  
       

 

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Index Sport 1:
Il filosofo Walter Benjamin in “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” ho sostenuto che il mondo contemporaneo, essendosi dotato di strumenti capaci di moltiplicare all’infinito l’originale (stampa, cinema, televisione, oggi internet) ha distrutto la sacralità dell’originale, con la sua verità, per creare dei simulacri di verità, che, altro non sono, se non prodotti commerciali. Tutto diviene pop, tranne l’ergastolo, il cancro, le malattie neuro degenerative e la morte.
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ISIS-DAESH, Guerra dal Nord Africa all'Afghanistan (2011 [inizio della Primavera Araba]-?)

 

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Attentato Barcellona, la verità è orribile. Per questo non viene detta

La notizia dell’ennesimo attentato che ha colpito l’Europa sta riempiendo giornali, tv e blog di immagini e video. All’indignazione per le tante vittime innocenti si intrecciano i commenti di intellettuali, giornalisti e politici. Purtroppo, come al solito, si tratta di commenti fuorvianti che cavalcano l’emozione del momento, completamente incapaci di mostrare una visione d’insieme. La quasi totalità delle opinioni che ci apprestiamo ad ascoltare nello tsunami dis-informativo che giungerà nelle nostre case non ci spiegheranno i perché di tali gesti che sono solo sintomi di una grave malattia. Una malattia che è la fine del modello di sviluppo del mondo occidentale che, per perseverare nella sua folle crescita economica, deve depredare nuovi territori sempre con maggiore voracità.

Il fine nei prossimi giorni sarà sempre lo stesso: dividere in modo ipocrita il mondo tra buoni e cattivi, in modo da permettere a coloro che esercitano il vero potere di raggiungere gli obiettivi prefissati. Obiettivi atti a giustificare nuove spese militari, ulteriori restrizioni delle libertà in Occidente e la possibilità di usare, ancora un volta, la religione come maschera per celare la vera posta in palio che è la razzia di petrolio, gas e stupefacenti. Negli ultimi anni pianificate guerre dirette e per procura hanno destabilizzato un’importante area geografica. Le aggressioni all’Iraq, all’Afghanistan, alla Libia, alla Siria hanno fatto montare la rabbia. Rancori e odi che si sono incanalati in tanti disadattati europei usati come concime per seminare paura ma anche in gruppi radicali e terroristici. Gruppi come Al Qaeda e Isis, che però sono stati usati e finanziati, come è accaduto in Siria, in maniera strumentale dagli Stati Uniti che si sono autoproclamati portatori sani di democrazia e libertà.


 

L’invito che sento di rivolgere è di non limitarsi a voler interpretare l’immagine di un puzzle solo con l’ultimo pezzo che ci viene mostrato dai mass media. Per rispettare le vittime degli attentati non serve essere informati su che musica ascoltassero e di quali film fossero appassionati, la vera sfida è spegnere la Tv e trovare gli altri tasselli del puzzle, quelli che poi danno la possibilità di vedere il quadro d’insieme, quello che è vietato mostrare. Secondo uno studio dell’associazione privata Council on Foreign Relations, solo nel 2016 il premio Nobel per la Pace, Obama, ha permesso che fossero sganciate ben 26.172 bombe su ben sette Paesi sovrani (Siria, Iraq, Afghanistan, Libia, Yemen, Somalia e Pakistan). Si tratta di tre bombe ogni ora per 24 ore al giorno che hanno ucciso migliaia e migliaia di civili innocenti come coloro che passeggiavano sulla Rambla a Barcellona.

Secondo un rapporto del 2014 dell’Ong britannica Reprive, per ogni “terrorista” ucciso nella guerra dei droni combattuta dagli Usa, le vittime civili sono state 28. In dieci anni, su 41 terroristi assassinati i droni hanno ucciso 1.147 innocenti. Uomini, donne e bambini di cui giornali e Tv non ci renderanno mai conto.

 

Raqqa puzza di morte: sotto le macerie, la tomba dell’Isis(16-09-17)

Tra i teloni neri stesi tra i palazzi per “accecare” i droni Usa e che ora svolazzano, l’odore dei cadaveri rivela le vittime dei raid: jihadisti e civili insieme

La distruzione della città vecchia – Reuters

 

Il blindato sul quale saliamo è made in Kobane, un vecchio Toyota Land Cruiser sfondato completamente avvolto in una blindatura da fabbro ferraio. Il soldato curdo-siriano al volante sostiene che questo grosso aggeggio puzzolente possa resistere anche alle mine anticarro, ma appena entrati ogni dubbio diventa lecito. Comunque ormai è tardi per tornare indietro, sicché ci strizziamo nel vano posteriore per far posto a una decina di casse d’acqua destinate al fronte. Prima di partire Jamal, un ragazzo dolcissimo che ci ha accompagnati fin qui, unisce le mani in preghiera e si raccomanda: “Ci sono mine antiuomo disseminate ovunque, ci sono cecchini dell’Isis nascosti dietro le finestre, ci sono i droni del califfo che sganciano bombe a raffica: mi raccomando, state attenti e seguite le istruzioni”. Così si va. E la sensazione di addentrarsi in un ignoto assoluto si fa sempre più forte via via che la bestia cigolante corre verso il centro della città maledetta. Una svolta, un’altra, un’altra ancora. Il mio amico Adib, compagno di tanti viaggi nel cuore nero del Califfato, si sdraia per reggere gli scossoni. Il filmmaker Paco stabilizza miracolosamente la telecamera. Ho addosso il giubbetto antiproiettile, ma ho tolto il caschetto per farmi spazio, finché una testata sanguinosa contro il soffitto dell’autoblindo mi convince a rimetterlo.

Raqqa. È il viaggio che mi manca per chiudere il cerchio intorno alla vicenda più oscura e violenta degli ultimi decenni: la nascita, il dilagare, la sconfitta dello Stato islamico in Siria e in Iraq.Nel settembre del 2014 eravamo nel Kurdistan iracheno per raccontare il genocidio degli yazidi, avvenuto nell’indifferenza dell’occidente a opera degli uomini neri di Al Baghdadi (in fondo, cos’era allora per il mondo l’Isis se non una vicenda regionale, uno dei tanti modi in cui i musulmani si ammazzavano tra loro?). Qualche mese dopo, entravamo a Kobane occupata dai tagliagole. Poi Sinjar, la patria degli yazidi liberata dai curdi proprio nei giorni della strage del Bataclan. E ancora, la strage di Karrada a Baghdad con i suoi 324 morti innocenti, tutti musulmani, carneficina ignorata dai media italiani. In seguito siamo entrati a Mosul, dove al posto dei curdi c’era l’esercito iracheno assai più equipaggiato: anche qui, i terroristi dello Stato islamico usavano mine nascoste per rendere difficile il compito dei liberatori.

E ora, Raqqa. La capitale del Califfato. La città-bunker dei capi militari e politici di Daesh, il luogo dove i cervelli del jihad elaboravano strategie di propaganda e attentati su scala globale.Oggi, la città che si svela dietro i vetri dell’autoblindo, spessi e scheggiati dalle pallottole, è gialla e nera di polvere e fuoco. Il blindato blocca le gomme davanti a una palazzina mezza sventrata, una nocta, come la chiamano i curdi, un avamposto incuneato nel territorio Daesh.

Attraversiamo di corsa lo sterro che ci separa dall’ingresso, messi in guardia sulla presenza di cecchini nascosti. Al secondo piano dell’edificio, mi viene incontro un ragazzo col sorriso largo e la mano tesa. È italiano, ma non vuole dirmi il nome e chiede che il suo volto venga oscurato in tv: “Mia madre non sa che sono qui”.

Mi racconta che da nove mesi è in Siria, membro della Brigata internazionale dello Ypg, l’esercito curdo-siriano affratellato al Pkk turco. Ma l’idealismo iniziale che lo ha spinto qui, su uno dei fronti più caldi al mondo, si va spegnendo, stemperato dalla fatica, dall’assuefazione, dalla nostalgia di casa. Vuole tornare a casa, in Lombardia. Ma non prima di aver visto l’Isis sconfitto a Raqqa.

“Mia madre non sa che sono qui”. “Il nemico dov’è?”, chiedo guardandomi nervoso attorno. “Può essere ovunque. Anche sotto di noi, in uno dei mille tunnel scavati per sfuggire alle bombe americane”. Sicché mi figuro tagliagole con il kalashnikov puntato sotto i nostri piedi, uomini-ratto con la barba lunghissima e il grugnito animalesco da bestie braccate.

E poi ci sono le mine, celate dappertutto. Il terrore dei curdi (quindi da questo momento anche nostro): “Non abbiamo gli artificieri per trovarle e disinnescarle, occhio a dove metti i piedi”. La linea del nemico è a cinquanta metri da noi, segnata da un telo nero che, nelle intenzioni curde, serve a chiudere la visuale ai tiratori. Da una nocta all’altra, sempre di corsa, col cuore in gola, incontro soldati curdi in ciabatte esausti dai turni di guardia, snervati dal caldo, il poco cibo, la lunga attesa che i caccia americani aprano loro la strada sganciando bombe dove si nascondono i terroristi. Il sistema è questo: una nocta segnala presenze sospette in un edificio via radio al comando curdo. Questo avvisa gli americani dando loro le coordinate Gps. E siccome i curdi hanno già perso troppi uomini irrompendo nei covi dell’Isis e cadendo nelle loro trappole, la tecnica più rapida è delegare alle bombe Usa la soluzione del problema.

“E se nel palazzo colpito ci sono anche civili?” chiedo al soldato italiano. “Noi non possiamo saperlo”, chiude il discorso lui. Così la caccia agli ultimi Daesh rimasti in città rischia di trasformarsi in una carneficina. Me ne rendo conto quando lascio il quartiere di Dahariya, sul fronte occidentale, per trasferirmi su quello orientale, proprio a ridosso della città vecchia.

Lì, una volta arrivati, chiediamo di essere portati sulla linea del fuoco, a pochi metri dalla piazza delle esecuzioni, dove lo Stato islamico giustiziava chi infrangeva le regole. Dopo un breve conciliabolo, i militari ci fanno firmare un foglio nel quale ci assumiamo ogni responsabilità nel caso un cecchino o una bomba ci facciano fuori. Poi ci addentriamo nella città vecchia.

È solo in questo momento, mentre l’Humvee corazzato avanza lentamente fra i detriti, che mi rendo conto di non aver mai visto in vita mia una città rasa al suolo come questa. Non c’è più niente in piedi, la distruzione è totale, irreversibile, agghiacciante. Raqqa è finita, cancellata dalle bombe. Di tanto in tanto il tiro di un cecchino nemico rimbalza sulla blindatura, mentre l’autista è sempre più innervosito dal dover scarrozzare giornalisti in zone troppo pericolose anche per lui: “Non è questione di cecchini, l’Isis ha ancora qualche mortaio e i razzi Milan, evitiamo di rischiare troppo”.

Quando finalmente possiamo sgusciare fuori dall’Humvee, lo scenario è apocalittico. Nel centro di Raqqa, tutti i palazzi sono stati abbattuti. I teli che coprivano le strade per chiudere la visuale ai droni americani penzolano come stracci sporchi dai pilastri di cemento. Ma quello che più mi colpisce è l’odore. Spaventoso, indimenticabile. Un tanfo di corpi decomposti, un’esalazione di marcio che può voler dire solo una cosa: sotto l’immensa mole di macerie ci sono tantissimi corpi. Milioni di mosche si posano dappertutto, si avventano sulle nostre facce, sulle nostre mani, impazzite per la presenza dei cadaveri, mentre cani e gatti randagi si aggirano eccitati tra i detriti.

Nugoli di mosche sul regno del califfo nero. Quanti sono i morti? Nessuno te lo dice, numeri ufficiali non ce ne sono. Ma certo quei corpi non sono solo di terroristi. Ci sono certamente civili che non hanno fatto a tempo a fuggire o erano tenuti in ostaggio dai terroristi. Vittime collaterali, errori di calcolo, chiamatele come volete. È il prezzo pagato per sconfiggere l’Isis. Che muore con Raqqa e con migliaia di suoi abitanti innocenti. Mentre chi sopravvive, mogli e bambini dei jihadisti, vengono chiusi in cella, fuori dal controllo degli organismi internazionali. Ne ho incontrato uno, si chiama Mohammed e ha 13 anni. Me lo hanno portato coperto, poi gli hanno tolto il cappuccio per farmelo intervistare. Alla fine se lo sono riportato via, incappucciato, nella prigione dove vive con gli adulti, piccolo soldato dell’Isis senza futuro.

A Raqqa il confine tra vittime e carnefici è sottile e a volte indecifrabile. A Raqqa i diritti sono un lusso e le organizzazioni internazionali non entrano. Perché è sporca, schifosa e ingiusta anche la più sacrosanta delle guerre.

Iraq, i media locali: “l’Isis ha confermato la morte di al Baghdadi. A breve sarà annunciato il nome del successore”

È quanto riferisce la televisione irachena Al Sumariya, citando una fonte nella provincia di Ninive secondo cui "la morte presunta di Baghdadi ha provocato un 'colpo di Stato' interno, con le rivalità per la successione al Califfato"

“L’Isis ha confermato la morte del suo leader Abu Bakr al BaghdadiÈ quanto riferisce la televisione irachena Al Sumariya, citando una fonte locale nella provincia di Ninive. Secondo l’emittente, i vertici dello Stato Islamico sarebbero pronti ad annunciare il nome del successore del Califfo. “Le autorità di Daesh a Tel(Tal) Afar, che è diventata ufficiosamente la capitale provvisoria dopo la caduta di Mosul – afferma la fonte non precisata – hanno annunciato in un comunicato molto breve diffuso attraverso la loro macchina della propaganda la morte del loro leader Baghdadi, ma senza fornire dettagli”. Non è la prima volta che emergono voci sulla morte o sul ferimento del leader dell’organizzazione. Fino a questo momento non c’è traccia di questo comunicato sui consueti canali informativi dell’Isis, sottolinea il sito World Conflict News.

“Il comunicato di Daesh – aggiunge la fonte – dice che il nome del nuovo leader sarà presto annunciato, e fa appello ai seguaci perché continuino sulla via del Jihad, e si tengano al riparto da crisi interne”. Sempre secondo questa fonte, “la morte presunta di Baghdadi ha provocato un ‘colpo di Stato’ interno, con le rivalità per occupare le più alte cariche nella struttura del gruppo terrorista che hanno portato anche a scontri armati, e la proclamazione del coprifuoco in tutto il distretto”.

Un altro tassello, quindi, si andrebbe ad aggiungere all’avanzata della coalizione anti-Isis nelle roccaforti dello jihadismo. Solo lunedì, infatti, le autorità irachene hanno annunciato formalmente la liberazione della città di Mosul, dopo otto mesi di combattimenti e tre anni di dominio dello Stato Islamico. Il primo ministro iracheno Haidar al Abadi, arrivato nella città martire, ha tenuto un breve discorso, trasmesso dalla televisione irachena, nel comando delle forze antiterrorismo in città. La coalizione a guida americana, impegnata in Iraq attraverso un supporto aereo, si è congratulata con le forze armate irachene per aver ripreso il completo controllo della città.

Mosul, ultimo atto:il 9 luglio 2017 cade la seconda capitale del Califfato, un milione di profughi, oltre centomila civili uccisi, città rasa al suolo

Mosul, ultimo atto
I combattimenti casa per casa, con i miliziani dell’Isis appostati dall’altra parte della parete. Il maggiore iracheno che fa squillare a vuoto il telefono, per non far sapere alla moglie che lui è in prima linea. La sofferenza, indicibile, dei civili. E la speranza nel buco di un muro, perché al di là c’è la salvezza. Eccola, Mosul, oggi. Ecco le storie, i volti, la guerra. Foto di EMANUELE SATOLLI 

Lo strazio delle donne soccorse dai soldati di Bagdad, la fuga disperata degli anziani dall’oppressione dello Stato islamico, lo sgomento dei bambini davanti alle bombe. E sullo sfondo i colori. Pochi, ma forti: il grigio degli scheletri della case, il verde oliva delle mimetiche dei militari, il buio dei vicoli in quella che una volta era la seconda città irachena e che, caduta nelle mani del Califfato, si ritrova ora ridotta a labirinto di macerie. Tutto questo (e altro) nel racconto di un coraggioso fotografo italiano. http://www.panorama.it/news/esteri/iraq-riconquista-mosul-isis/#gallery-2=slide-58

La tragedia di Mosul si sta compiendo: la distruzione della moschea di Al Nuri è il punto di non ritorno nella sciagurata storia dello Stato islamico. Gli ultimi dispacci d’agenzia dicono che l’epilogo sarà quello previsto, con combattimenti selvaggi, con massacro di civili, con fanatici votati al martirio. Queste ore saranno le più difficili per i centomila civili ancora intrappolati nelle zone controllate dall’Isis. Ma la fine del radicamento territoriale dell’organizzazione è cominciata. La prossima tappa sarà Raqqa, all’interno dei confini siriani, ma dopo la caduta del minareto pendente sotto il quale Al Baghdadi aveva proclamato il Califfato, il cammino della sua organizzazione è segnato. Sarà un cammino se possibile più sanguinoso, con il ritorno alla vocazione terroristica e l’abbandono – almeno per ora – delle velleità “statuali” a cui pochi avevano creduto fino in fondo.

 

 

Una scorta d’acqua e le armi sempre pronte a sparare. Così vivono per giorni i soldati iracheni nelle postazioni avanzate dentro la città. L’Isis lancia in continuazione kamikaze contro queste avanguardie: dall’inizio della battaglia ci sono stati almeno seicento attacchi suicidi

Lo dicono le scelte compiute dall’Isis nei tre anni scarsi di controllo della capitale di Ninive. Secondo le testimonianze che abbiamo raccolto, i lavori pubblici erano solo opere di difesa: sbarramenti, tunnel, ponti interrotti, con l’unica eccezione dell’impegno a rinnovare i locali del suq e l’arrivo di brutti lampioncini leziosi sul viale di ingresso alla città. Non volevano un futuro a Mosul, nessuno di loro: i foreign fighters che in queste ore stanno sparando gli ultimi colpi, con in mente solo il miraggio del paradiso islamico, o i fondamentalisti locali, capaci di rivolgere le armi contro i compatrioti piuttosto che lasciarli andar via. Altro che progettazione dello stato, altro che educazione dei cittadini, altro che rimpianto della purezza di un Medioevo inventato: servivano prigionieri, ostaggi, scudi umani. I sopravvissuti, quelli che da Mosul sono fuggiti in tempo, torneranno a pianificare attentati, pronti a usare ogni strumento per spargere il terrore anche in Occidente. Ma il calvario della città irachena resterà nella Storia come monito, accanto ad altri nomi evocativi di tragedie: Dresda, Coventry, Vukovar, Sarajevo, e così via.
A sostenere la memoria saranno preziose le immagini come quelle di Emanuele Satolli che vedete in queste pagine. La sublimazione del dolore, raccontato con asciuttezza e partecipazione, anche a costo di rischi personali gravissimi. Non c’è solo Mosul in queste foto, c’è la sofferenza degli esseri umani di ogni tempo, destinata a restare nei nostri ricordi perché possiamo sperare che non ritorni mai.

Nella mia ultima trasferta a Mosul sono stato “embedded” con i soldati iracheni. E ho visto combattere casa per casa. I militari avanzano lentamente, in squadre da 12-15 persone, entrano nei cortili, affrontano un isolato alla volta. Ma le case sono collegate l’una all’altra. E i miliziani dell’Isis hanno aperto dei buchi nelle pareti per poter passare da una abitazione all’altra senza essere visti. E, naturalmente, non si può sapere che cosa c’è oltre il muro. Ho visto militari sparare contro una porta, prima di passare, senza sapere chi ci fosse al di là. Ci siamo trovati a pochi metri dai jihadisti, separati solo da una parete. Un’altra volta dal buco di un muro è sbucata una famiglia intera che cercava di allontanarsi dagli uomini dell’Isis. Ci hanno raccontato che il giorno prima un gruppo di civili aveva provato a fuggire e i miliziani avevano aperto il fuoco, uccidendo quattro persone.

Mosul, ultimo atto

La bandiera nera dello Stato islamico, recuperata in uno degli avamposti appena conquistati, diventa il panno con cui proteggersi dalla polvere di un’esplosione. L’Isis ha seminato centinaia di ordigni nelle case: ogni edificio nasconde una trappola

Negli ultimi giorni a Mosul, per fare fotografie dovevo avvicinarmi molto all’azione, e anche i soldati si muovevano a distanze più ravvicinate. Si correvano rischi soprattutto per vedere il minareto pendente, io l’ho ripreso qualche volta da lontano, ma adesso hanno fatto saltare in aria l’intera moschea di Al Nuri. Il minareto è distrutto. C’era un caldo feroce, una luce fortissima che rendeva complicate le riprese, ma soprattutto sono cambiate le condizioni dello scontro. Credo che anche questo sia fra le ragioni della morte del reporter francese Stephan Villeneuve e del suo fixer curdo Bakhtiyar Haddad, nei giorni scorsi. Sono finiti su una mina, anche altri due giornalisti sono rimasti feriti. Credo che sia successo perché ci si muove in spazi molto ristretti. Pensare che pochi giorni prima eravamo andati avanti assieme, proprio con questi francesi, nel quartiere di Zanjili, che ancora non è del tutto liberato.

Mosul, ultimo atto

Un soldato iracheno corre in cerca di riparo dal tiro dei cecchini sulla sponda dell’Eufrate. Il fiume segna il confine con la città vecchia dove si sono asserragliati i miliziani dello Stato islamico.

Ora, dopo l’incidente, gli iracheni hanno ridotto l’accesso ai giornalisti. In queste condizioni, sul terreno la sicurezza non può più essere garantita: i soldati di Bagdad devono fare affidamento sulla rapidità delle manovre. Ma gli spazi ristretti impediscono l’arrivo dei mezzi blindati. A Mosul ero con i soldati della 73esima brigata dell’esercito iracheno, e ho notato che avevano un addestramento carente, ma soprattutto scarse dotazioni: combattevano con le scarpe da ginnastica, senza elmetti o giubbotti antiproiettile. Era certo un contingente meno specializzato delle forze d’élite, come la Golden Division o la Rapid Reaction Force. Combattere in queste condizioni è molto duro: i militari dormono poche ore, dove possono, senza acqua né corrente elettrica, al contrario dei corpi speciali che sono più attrezzati. E mi pare che davvero ci siano grandi differenze in termini di motivazione: gli ufficiali devono spronare con forza i soldati per mandarli avanti. Questi ultimi si svegliano al mattino, sapendo di dover andare al fronte: la loro è una sfida quotidiana, quando vai in prima linea non sai mai se la sera tornerai sano e salvo, se potrai mai rivedere la tua casa. Molti dicono che dopo Mosul lasceranno le forze armate, è una vita troppo sacrificata. I soldati sono comunque molto attenti nei confronti dei civili. Abbiamo trovato una famiglia con una donna che aveva perso una gamba per il colpo di un mortaio: i militari hanno preso l’impegno di tornare a prenderla e l’indomani erano lì, puntuali.

 

Di queste giornate conserverò ricordi molto forti, soprattutto delle persone con cui ho condiviso l’esperienza. Penso a un soldato semplice della 73esima brigata, Abas, che combatteva dopo poche ore di sonno, obbedendo agli ordini, con sacrificio. L’avevo visto caricarsi in spalla assieme ai commilitoni un’anziana che non riusciva più a muoversi. L’ho fotografato venti minuti prima che gli uomini della IX divisione corazzata ci vedessero avanzare fra le case con i soldati e ci prendessero per integralisti. Hanno aperto il fuoco con una mitragliatrice, noi ci siamo rifugiati dietro un muro. Poi un carro armato ha sparato una cannonata e Abas è stato raggiunto alla testa, è morto sul colpo. Il primo a soccorrerlo è stato il maggiore Tareq, ma non c’è stato nulla da fare. Tareq è un comandante, l’unico che parlasse inglese: comunicavo solo con lui, mi seguiva passo per passo, organizzando ogni cosa, sempre disponibile ad aiutarmi.

Non si tirava indietro quando c’era da avanzare nelle zone ad alto rischio: entrava nelle case ancora non bonificate, si esponeva in prima persona, non come altri ufficiali che restavano nelle retrovie. È figlio di un anziano generale di Saddam, ha voluto continuare la tradizione di famiglia. Non aveva raccontato alla moglie che si trovasse in prima linea, così doveva lasciar squillare il telefono a vuoto e non rispondeva quando si sentivano esplosioni, per non farla preoccupare. Anche il capitano Saif è rimasto ferito da un proiettile di artiglieria, non in modo molto grave. Lui non parlava inglese, quindi non potevamo comunicare molto, ma mi seguiva come un’ombra per garantire la mia sicurezza. Ricordo che un giorno ha ricevuto un pacchetto di biscotti alle mandorle, fatti in casa dalla sua fidanzata, e lui ha insistito per dividerli con noi. Abbiamo mangiato assieme, anche se era il Ramadan: i soldati sono esentati dal digiuno islamico. Un’altra volta un proiettile di mortaio dell’Isis è piombato proprio accanto a lui, a poco più di un metro dalle sue gambe, è rotolato lì vicino ma non è esploso.

È stato quasi un miracolo. Tareq racconta che le bombe di mortaio dell’Isis sono fatte in laboratori artigianali, in maniera rudimentale, e capita spesso che non esplodano. Ma ci vuole fortuna, sempre. Un altro viso che mi è rimasto impresso è quello di Iraq, un bambino di dodici anni che restava tutto il giorno accanto alla madre, ferita alle gambe dalla bomba di un mortaio. Di sei fratelli ne erano rimasti solo due, ma Iraq non pensava alla sua vita: stava lì, sventolava la madre con un pezzo di cartone per farle fresco, il calore era insopportabile ma lui restava lì. I civili, in questa guerra, sono quelli che soffrono di più: sono esausti, senza cibo da giorni, spesso senza nemmeno acqua. Ho visto visi stravolti, bambini emaciati, con le labbra riarse. Ma a Mosul ancora non è finita

http://www.repubblica.it/super8/2017/06/26/news/mosul_ultimo_atto-169146990/?ref=RHRS-BH-I0-C6-P18-S1.6-T1

 

Siria, 4 zone cuscinetto e cessate il fuoco: Russia, Turchia e Iran trasformano le loro aree di influenza in entità politiche (4 maggio 2017)

"La Troika Russia–Iran–Turchia è lo strumento più efficace per risolvere la crisi siriana", disse il 20 dicembre il ministro degli Esteri russo Serghiei Lavrov, nel corso di un vertice a Mosca. Ora arrivano i primi risultati dell'accordo. Tensione nel nord del Paese tra Ankara e Washington: "Se veicoli Usa continuano a sostenere l'avanzata dell'Ypg verso la città di Raqqa, potrebbero essere colpiti accidentalmente"

Quattro zone cuscinetto e il cessate il fuoco dal 6 maggio. Sono questi i termini principali di un memorandum d’intesa siglato giovedì 4 maggio ad Astana, in Kazakistan, fra i tre paesi garanti della tregua in Siria: Iran, Russia e Turchia. Le aree interessate, dove verranno costituite queste “zone sicure”, comprenderanno l’intera provincia di Idlib, alcune parti delle province di Latakia, Aleppo, Hama e Homs, la zona di Ghouta a est di Damasco e parti delle province di Dara’a e Quneitra, vicino al confine con la Giordania. Nel memorandum, che ha una durata di sei mesi e potrà essere prolungato di altri sei, qualora ci sarà l’assenso unanime dei Tre paesi garanti, si spiega che verranno creati dei “check-point e punti di osservazione” accanto ai confini delle “zone a bassa tensione” o “zone di de-escalation”. I check-point garantiranno il movimento dei civili disarmati, l’accesso degli aiuti umanitari e faciliteranno le attività economiche.

L’inviato speciale dell’Onu in Siria, Staffan de Mistura, ha definito il memorandum di Astana come “importante, promettente e positivo”. “Si tratta – ha aggiunto secondo Russia Today, canale televisivo legato al Cremlino – di un passo avanti nella giusta direzione, la de-escalation del conflitto”. Sulla stessa lunghezza d’onda dell’inviato speciale delle Nazioni Unite, ma con qualche riserva, anche gli Usa. Il dipartimento di Stato ha dichiarato di sperare “che questo accordo possa contribuire alla fine delle sofferenze del popolo siriano e a gettare le basi per una soluzione politica del conflitto”, ma restano le preoccupazioni riguardo al “coinvolgimento dell’Iran come cosiddetto ‘garante’”.

Proprio il ruolo politico di Teheran in Siria è diventato di primo piano quando il ministro degli Esteri russo Serghiei Lavrov (oggi in visita a Helsinki), nel corso di un vertice a Mosca, il 20 dicembre del 2016, dichiarò che “la Troika Russia–Iran–Turchia è lo strumento più efficace per risolvere la crisi siriana”. Da quel momento, anche se su fronti contrapposti, di fatto i tre Paesi hanno intensificato il coordinamento delle loro attività, dando vita a vere e proprie aree di influenza che, con l’accordo raggiunto ieri, si materializzeranno in entità politiche.

La Turchia, tramite l’operazione denominata “Scudo dell’Eufrate”, cominciata il 24 agosto 2016 e conclusasi il 30 marzo 2017, appoggiata di gruppi di miliziani siriani locali, ha inviato alcuni reparti dell’esercito nel nord della Siria che hanno preso il controllo di una vasta area fra le città di al Bab, Jarablus e Azaz. La Russia esercita una certa influenza nella zona di Latakia, Homs e Hama dove ha diverse basi militari. Le forze iraniane sono invece molto presenti a Damasco e nei dintorni di Aleppo. Gli Usa, tramite la Giordania, hanno forti legami con i gruppi dell’insurrezione siriana della regione di Dara’a nel sud del paese. Mentre supportano, militarmente, i curdi dell’Ypg – braccio siriano del Pkk di Ocalan – e hanno inviato blindati e consiglieri militari in sostegno dell’avanzata di questi verso Raqqa, capitale siriana dell’Isis.

Di questo accordo gli Stati Uniti, secondo il quotidiano panarabo al Hayat, erano informati. “La delegazione russa a Astana, presieduta dall’inviato per il medioriente del Cremlino, Alexander Lavrentyev, ha incontrato l’assistente del segretario di Stato Usa per il vicino oriente, Stuart Jones, in un meeting che ha ristabilito le comunicazioni fra le due parti dopo una conversazione telefonica fra Vladimir Putin e Donald Trump, nella notte fa martedì e mercoledì, in cui i due si sono accordati su tutti i vari livelli dell’intesa”. Altri incontri si sarebbero svolti, prosegue il quotidiano con sede a Londra, fra “la delegazione americana e quella giordana, guidata da Nawaf Wasfi, che partecipa come osservatore per conto di Amman” che ha stabilito una zona di influenza nel sud della Siria, nella regione di Dara’a.

Nonostante il formale assenso di tutti, l’implementazione dell’accordo rimane legato agli interessi a breve termine degli Stati che forniscono supporto ai vari gruppi nella guerra siriana. Infatti, se da una parte Ankara e Washington si sono dette soddisfatte, fra i due stati sono emerse nelle ultime ore tensioni nel nord della Siria, nella zona controllata dai curdi dell’Ypg, braccio armato siriano del Pkk, partito curdo di Ocalan. Il quotidiano arabo al Araby el Jadid riporta che un consigliere del presidente turco Erdogan, Ilnur Cevik, intervistato da una radio turca ha detto che “se il guerriglieri del Pkk – intendendo quelli dell’Ypg – continuano a portare avanti le loro azioni in Turchia, che come sapete si infiltrano dalla Siria, diversi veicoli Usa – alcuni blindati sono entrati in Siria per sostenere l’avanzata dell’Ypg verso la città di Raqqa, capitale dell’Isis in Siria – potrebbero essere colpiti accidentalmente”.

Un ‘no’ netto è invece arrivato dalla delegazione delle opposizioni siriane che ha definito l’accordo “inaccettabile”, riporta l’agenzia russa Interfax, perchè il cessate-il-fuoco non comprende “tutto il territorio della Siria”. I ribelli inoltre rigettano ogni coinvolgimento dell’Iran e “delle milizie ad esso legate” nonché il suo ruolo di “garante della tregua”. Osama Abu Zaid, membro della delegazione dell’opposizione, dopo la sessione plenaria ad Astana, ha dichiarato inoltre che “il territorio della Siria non può essere diviso”.

Ma la decisione delle opposizioni di rifiutare il memorandum firmato da Mosca, Teheran e Ankara, secondo il quotidiano panarabo al Hayat, sarebbe maturata dopo la recente escalation “armata portata avanti dalle forze di Damasco e dall’Iran” e non dai termini dell’accordo sulla creazioni di aree d’influenza. Il quotidiano arabo è infatti venuto in possesso di un documento, circolato fra le delegazioni degli stati presenti ad Astana, formulato dal gruppo dell’opposizione siriana che accetta la creazione di “aree sicure come misura temporanea per ridurre la sofferenza dei rifugiati e che porti a una transizione politica”. Il documento, riporta il giornale arabo, si snoda in dieci punti, fra questi “la cessazione degli attacchi da parte del governo di Damasco verso le aree dell’opposizione; il rilascio di tutti i prigionieri, donne, bambini, anziani e malati; il ritiro di tutte le forze iraniane e di altre nazionalità dal paese; la fuori uscita di Assad e l’apertura di una fase transitoria”.

Siria, Usa accusano Assad: esecuzioni di massa, corpi cremati per cancellare "prove" di sterminio

Impiccagioni di prigionieri al ritmo di una cinquantina al giorno nel carcere militare di Saydnaya, non lontano da Damasco. Lo afferma il Dipartimento di Stato mostrando foto satellitari declassificate che rivelerebbero le modifiche apportate a un edificio della struttura per adibirlo a forno crematorio. Amnesty aveva lanciato la stessa accusa tre mesi fa: a Saydnaya 13mila morti

- Nuove accuse di disumana crudeltà vengono mosse dal Dipartimento di Stato Usa contro il regime siriano di Bashar al-Assad. Il governo siriano, ha affermato in conferenza stampa Stuart Jones, assistente del segretario di Stato per il medio e vicino Oriente, sta procedendo a esecuzioni di massa di migliaia prigionieri nel carcere militare di Saydnaya, a 30 chilometri da Damasco. Le impiccagioni, accusa l'alto funzionario statunitense, avvengono a un ritmo di una cinquantina al giorno. Per cancellare le prove dello sterminio, all'interno dell'istituto di pena un edificio è stato modificato per essere adibito a crematorio, come mostrerebbero foto statellitari declassificate diffuse dal Dipartimento di Stato.
 Le foto sono state scattate da satelliti commerciali e coprono un periodo che va dal 2013 ad oggi, passando dall'agosto di quattro anni fa al gennaio del 2015, quindi all'aprile del 2016 e 2017. Non provano in modo assoluto, ha precisato Jones, che l'edificio inquadrato sia un crematorio, ma evidenziano una costruzione "coerente" con quel genere di utilizzo. L'immagine del gennaio 2015, in particolare, mostra il tetto del presunto crematorio ripulito dalla neve, scioltasi presumibilmente per il calore sviluppato da una combustione.

"Dato che le numerose atrocità perpetrate dal regime siriano sono state abbondantemente documentate, riteniamo che la costruzione di un crematorio sia il tentativo di nascondere le esecuzioni di massa nella prigione di Saydnaya. E fonti credibili hanno riferito che molti dei corpi sono stati sotterrati in fosse comuni" ha spiegato Stuart Jones. Che ha quindi accusato Assad di "sprofondare in un nuovo livello di depravazione. Col sostegno di Russia e Iran".

Jones si è detto pessimista sui risultati dell'accordo che ha istituito "zone di de-escalation" in Siria nel tentativo di ridurre la violenza e salvare vite umane. Accordo mediato dalla Russia con il sostegno dell'Iran e della Turchia durante i colloqui nella capitale kazaka di Astana la scorsa settimana. "Alla luce dei fallimenti dei precedenti accordi per il cessate il fuoco, abbiamo ragione di dirci scettici", ha detto Jones. "Il regime di Assad deve fermare tutti gli attacchi ai civili e alle opposizioni e la Russia deve assumersi la responsabilità di garantire il rispetto" dei diritti umani "da parte del regime".

Va ricordato come lo scorso febbraio Amnesty International avesse elaborato la stessa accusa di "sterminio" contro il regime di Damasco, calcolando in 13mila le persone impiccate tra 2011 e 2015 in Siria proprio nella prigione degli "orrori" di Saydnaya. La cifra è contenuta in un rapporto di Amnesty sulla Siria, redatto sulla base delle interviste a 84 testimoni oculari, tra cui guardie carcerarie, ex detenuti, magistrati e avvocati, oltre che a esperti nazionali e internazionali. Già tre mesi fa il rapporto Amnesty affermava come "ogni settimana, spesso due volte a settimana, fino a 50 persone sono state tirate fuori dalle celle e impiccate. In cinque anni almeno 13mila persone, tra cui civili che si opponevano al governo".

Oltre alle vittime di Saydnaya, Amnesty quantificava anche in 17mila i detenuti morti nelle carceri siriane nel corso del conflitto. Ma a Saydnaya, aggiungeva l'organizzazione nel suo documento, "sono inflitte ai detenuti condizioni inumane, torture, sistematiche privazioni di acqua, cibo, cure mediche e medicine" mentre sono costretti a ubbidire a "regole sadiche". I negoziati di Ginevra, affermava Amnesty, "non possono non tenere conto" di questi "crimini contro l'umanità" e consentire a "osservatori indipendenti di aver accesso ai luoghi di detenzione".

 

http://video.repubblica.it/dossier/rivolta-siria/siria-offensiva-dell-isis-furiosi-combattimenti-a-dayr-az-zor/265197/265575?ref=HREC1-11

Killer di Berlino, dalla strage alla morte a Sesto San Giovanni. Lo strano viaggio di Amri e le possibili coperture in Italia

L'Antiterrorismo di Milano vuole capire perché l'attentatore abbia scelto come meta Sesto San Giovanni. Sotto la lente degli investigatori le ore che separano il suo arrivo alla Stazione centrale del capoluogo lombardo, al conflitto a fuoco con la polizia in piazza Primo Maggio. Non si eslude che il 24enne tunisino abbia incontrato qualcuno. La ricostruzione a partire dal furto del Tir partito da Cinisello Balsamo

Perché, mentre la polizia di tutta Europa gli sta dando la caccia da giorni, Anis Amri decide di raggiungere l’Italia? È questa la domanda a cui adesso gli investigatori vogliono dare una risposta. Al momento non c’è nessuna certezza. Solo ipotesi. Quella più credibile, su cui sta lavorando il pool antiterrorismo della Procura di Milano, è che l’attentatore di Berlino sia arrivato a Sesto San Giovanni, alle porte di Milano, perché qui avrebbe potuto contare su coperture all’interno della comunità islamica. Un appoggio temporaneo, forse per procurarsi dei documenti falsi e garantirsi così una fuga sicura. Probabilmente verso il Sud Italia. “Sono calabrese”, dice Amri ai poliziotti che lo fermano. Una balla a cui ovviamente gli agenti non credono, ma che adesso diventa interessante dal punto di vista investigativo.

Al momento, però, sul tavolo ci sono solo supposizioni. Perché per trovare conferme bisogna sciogliere alcuni nodi. Ad esempio c’è da scoprire se Amri abbia incontrato qualcuno nelle ore che vanno dal suo arrivo alla Stazione Centrale di Milano, intorno all’una di notte; fino alla sua morte, avvenuta alle 3 e 15 in piazza Primo Maggio, di fronte stazione di Sesto San Giovanni, dove viene fermato da una volante per un semplice controllo e viene ucciso dopo aver sparato a uno dei due poliziotti. Resta poi da capire se quel “qualcuno” appartenga a un cellula terroristica “dormiente” radicata nel Milanese o semplicemente sia una sua vecchia conoscenza: un ex compagno di cella nel carcere di Catania o Palermo, o qualcuno incontrato in qualche centro di accoglienza siciliano. “Dobbiamo capire perché un soggetto del genere fosse a Sesto San Giovanni – ha detto il Questore di Milano Antonio De Iesu – Ma questo è materia di indagine. Collochiamo Amri all’una alla stazione Centrale di Milano, questo è riscontrato da immagini. Che mezzo abbia preso per andare a Sesto e perché non lo sappiamo. Ma non c’è nessun collegamento con la moschea di Sesto”. Per il Questore era un personaggio “pericolosissimo che, da libero, avrebbe potuto compiere altri attentati“. “Una scheggia

 

 

 

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 impazzita”.

Iraq, viaggio tra le rovine di Ramadi,la capitale del gigantesco ovest irakeno: liberata dall'Is, distrutta dalle bombe(1-5-16)

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Iraq, viaggio tra le rovine di Ramadi: liberata dall'Is, distrutta dalle bombe
(ap)

 

 

 

dalla ritirata di palmira al rosso di bilancio: anche l'isis deve fare due conti. in un anno di bombardamenti perso un miliardo di dollari.

Sono finiti i tempi d’oro per i bilanci economici dell’Isis. I raid aerei contro il presunto Stato islamico hanno portato alla distruzione di almeno 800 milioni di dollari in denaro contante, conservati all’interno di obiettivi sensibili centrati dai caccia della coalizione. Tutto ciò è stato confermato dal maggiore generale di divisione Peter Gersten vice comandante Operazioni e Intelligence della Combined Joint Task Force-Operazione Inherent Resolve, secondo cui i velivoli americani hanno colpito a più riprese magazzini in cui erano rinchiusi parte dei fondi del gruppo jihadista. I vantaggi di aderire all’organizzazione terroristica, che includono il supporto monetario per un combattente, per la moglie, l’amante e altri membri della famiglia, sono stati un fattore enorme nel processo di reclutamento di Isis. Ma i tagli agli stipendi fino al 50 per cento scoraggiano i potenziali membri. Si è passati da1500/2000 nuovi arruolati al mese nell’Isis a circa 200. Secondo poi uno studio di IHS Jane’s emerge che nel marzo 2016 le entrate mensili dello Stato islamico sono scese a 56 milioni di dollari. A metà 2015, l’insieme dei ricavi su base mensile era in media di 80 milioni di dollari.

Il rapporto aggiunge inoltre che laproduzione di petrolionelle zone sotto il controllo jihadista è anch’essa diminuita, passando da 33mila a 22mila barili al giorno. Almeno la metà dei soldi che confluiscono nelle casse di Daeshprovengono dalle tasse e dalla confisca di imprese e beni. Per sopperire alle perdite i leader del movimento jihadista hanno aumentato le imposte nei servizi di base: fra questi vi sono le tasse agli autisti di camion, imposte per chi vuole installare o riparare antenne paraboliche e “dazi sull’uscita” per chi vuole lasciare una città o un villaggio nelle mani dell’Isis. Non va meglio sul lato mediatico e propagandistico.

Secondo uno studio dell’organismo egiziano Dar Al-Ifta anche le fotografie e i video postati in rete dalle case di produzione ufficiale dell’organizzazione terroristica sono quasi dimezzati. Un calo dovuto alla uccisione di un gran numero di quadri informatici del Califfatosia in Iraq che in Siria. Secondo i dati elaborati dalla “Casa della Fatwa” egiziana il numero delle immagini postate in rete dall’Isis all’apice della sua attività mediatica tra giugno e settembre 2015, è stato di 3.217 dalla Siria e 3.762 dall’Iraq, per un totale di quasi 8mila. Una cifra quasi dimezzata scesa ad un totale complessivo di5.200 negli ultimi 3 mesi del 2015.  Nonostante la crisi evidente che attanaglia il presunto Stato Islamico bisogna però sottolineare che l’Isis è ancora in grado di accedere ai cambiavalute in Iraq,Turchia e Libano che operano al di fuori del sistema finanziario formale. Finché continua non ci sarà un collasso economico fatale dall’interno ma peggiorerà sicuramente il tenore di vita.

L’Isis si è comunque dimostrato adattabile e finora resistente ma se vorrà continuare ad avere mire espansionistiche sicuramente dovrà fare i conti con i suoi bilanci. La strategia migliore dellacoalizione anti-Isis resta quella di “togliere l’acqua al pesce” come direbbe Mao, l’unica in grado di essere attuata visto che è difficile mettere d’accordo le varie potenze su una strategia militare comune. Ognuno in Medio Oriente sta combattendo la sua guerra e la politica estera e di difesa specialmente degli europei con in primis laFrancia è strettamente ambigua e connessa con gli interessi economici di Paesi arabi che finanziano l’Isis.

 

 

 

 

 


Le immagini scattate dal satellite

           La denuncia di Human Rights Watch
       Curdi: "Kirkuk ormai fa parte del Kurdistan"
Foto Migliaia in fuga dalle zone occupate

 

L’avanzata dell’Is tra Siria e Iraq
Così il Califfato ha cancellato il confine nel giro di un anno (giugno 2014-giugno 2015)


 


 

 


Centinaia di ragazze yazide tenute prigioniere. Intanto si allunga l'elenco delle denunce contro i miliziani sunniti dello Stato islamico (Is, ex Isis). L'ultima, fatta dalla parlamentare yazida Vian Dakhil, riguarda oltre 600 ragazze della minoranza religiosa degli yazidi che sono tenute in ostaggio nel carcere di Badush, a Ninive. Le ragazze sono state rapite insieme ad altri componenti della minoranza yazida a Sinjar, località vicina a Mosul.

Continua intanto il dramma di decine di migliaia di profughi yazidi, fuggiti nei giorni scorsi da Sinjar, conquistata dagli islamisti. Secondo Dakhil, "50 bambini al giorno" muoiono sulle montagne intorno a Sinjar, dove migliaia di sfollati sono bloccati senza viveri ed acqua. Per alleviare le loro sofferenze aerei statunitensi hanno lanciato pacchi di aiuti umanitari. Altre migliaia, invece, affrontano in condizioni difficilissime il viaggio verso la frontiera siriana, distante decine di chilometri, per mettersi in salvo. Il segretario generale dell'Onu, Ban Ki-moon, ha chiesto al mondo "di fare di più" di fronte al dramma degli yazidi.

 

 


Ma proprio la Dakhil, protagonista qualche giorno fa di un drammatico appello nel Parlamento di Bagdad, è rimasta ferita oggi dopo che l'elicottero su cui viaggiava si è schiantato mentre stava fornendo aiuti umanitari agli sfollati sul monte Sinjar. Al momento non si hanno altre notizie sulle sue condizioni di salute. Nell'incidente sarebbe stato coinvolto anche un giornalista del New York Times e il fotografo freelance che viaggiava con lei, i quali però avrebbero solo ferite lievi.
 

 

 

 

 

IL DISASTRO DEI SERVIZI SEGRETI USA:ISIS COMPLETAMENTE IGNORATA!!

Usa, così l’intelligence ha sottovalutato Isis Obama: “Più veloce dei nostri servizi”

Gli Stati Uniti, le sue spie, i suoi militari, i suoi politici, non sarebbero stati capaci di valutare la minaccia effettiva. L’accusa è stata rilanciata dal conservatore The Wall Street Journal, ma anche altri media di solito più benevoli nei confronti dell’amministrazione democratica cominciano a esprimere i primi dubbi. E c'è chi ricorda che nel covo di Bin Laden fu trovato un documento in cui si definivano "troppo radicali" le azioni dei miliziani

Un gigantesco fallimento dei servizi di intelligence americani. È questo il dubbio, secondo alcuni la certezza, che si diffonde in queste ore nelle stanze del potere a Washington. Gli Stati Uniti, le sue spie, i suoi militari, i suoi politici, non sarebbero stati capaci di valutare la minaccia effettiva portata dall’Isis, lo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria. L’accusa è stata rilanciata, nelle scorse ore, dal conservatore The Wall Street Journal, ma anche altri media di solito più benevoli nei confronti dell’amministrazione democratica cominciano a esprimere i primi dubbi e distinguo. 

Obama: “Avanzata Isis più veloce di quanto i nostri servizi prevedevano”"
“Abbiamo sottostimato forza, coesione e leadership dell’Isis”, ha detto il generale Michael Flynn prima di abbandonare la guida della Defense Intelligence Agency (DIA). “L’avanzata dell’Isis è stata più veloce di quanto i nostri servizi e i politici Usa prevedevano”; ha ammesso Barack Obama qualche ora dopo. La ‘svista’ – centinaia di militanti che si impadroniscono di alcune delle più importanti città irachene, e molte aree in terra siriana, sino a essere pronti a formare un califfato islamico – appare tanto più clamorosa se si considera che almeno dal 2001 il terrorismo islamico è al centro delle preoccupazioni della politica Usa, e che in Iraq gli Stati Uniti ci sono rimasti per otto lunghi anni. Qui è stata costruita la più grande ambasciata Usa al mondo, con oltre duemila funzionari; qui, a Baghdad e dintorni, ci sono almeno 25 mila contractors americani che lavorano in tutti i settori, da quello militare al sanitario all’estrazione del petrolio. Oltre confine, in Siria, è in corso da tre anni una guerra civile che tiene impegnati i servizi e i politici di mezzo mondo. 

Prima della presa di Mosul i servizi dubitavano che l’Isis ne avrebbe avuto la forza
Tutti questi fattori avrebbero dovuto/potuto spingere all’adozione delle necessarie contromisure da parte della prima potenza al mondo. Invece nulla. Nei giorni immediatamente precedenti la presa da parte dell’Isis di Mosul, la seconda città irachena, i funzionari dell’intelligence americana si trovavano ancora a discutere se il gruppo islamista ne avrebbe avuto la forza. Dopo la caduta della città, l’ammiraglio John Kirby, portavoce del Pentagono, spiegava che “a questo punto fissiamo la nostra attenzione su Mosul, ma ciò non cambia i nostri calcoli”. Ancora nei giorni successivi alla presa di Mosul, il 10 giugno, con le truppe islamiste che procedevano verso Sud mostrando una straordinaria efficacia e una capacità di penetrazione praticamente infallibile, le autorità d’intelligence americana discutevano se l’Isis “sarebbe stato capace di mantenere la presa di Mosul”, (lo ha dichiarato al Wall Street Journal un funzionario, rimasto anonimo, della Defence Intelligence Agency). 

In documento di Al Qaeda le azioni di Isis definite “troppo radicali”
Eppure le autorità americane avrebbero avuto nel passato diverse occasioni per tracciare la “minaccia Isis”. Un documento di 21 pagine trovato nel rifugio pakistano dove Osama bin Laden fu ucciso, redatto con ogni probabilità da un suo collaboratore e di cui ha parlato nelle scorse ore l’inglese Daily Mail, dettaglia sulle atrocità dell’Isis – uso di armi chimiche, bombardamento delle moschee, massacri di cristiani – e conclude che le sue azioni erano “troppo radicali” e tali da gettare discredito sulla stessa al Qaeda all’interno del mondo musulmano. Alle autorità Usa era poi già chiaro, a fine 2013, che l’Isis stava cercando di montare una campagna per la conquista di vaste aree in Iraq. La cosa era chiara perché Cia e Dia erano al corrente di incontri tra militanti dell’Isis e i vertici dell’Armata di Naqshbandia, guidata da un ex-collaboratore di Saddam Hussein, Izzat Ibrahim al-Douri, in questo momento presumibilmente in Siria. Proprio la connessione siriana illumina in modo ancor più netto il fallimento dell’intelligence Usa. Mentre l’Isid stringeva alleanze in Siria, e rafforzava il suo controllo di vaste aree del territorio siriano attorno a Deir al Zour, i funzionari dell’intelligence Usa andavano al Congresso e spiegavano a deputati e senatori che la minaccia principale nel paese di Assad veniva dalla riorganizzazione di al Qaeda. 

Dalla Libia all’Afghanistan gli svarioni dell’intelligence Usa
“La raccolta dei dati è un compito difficile”, si è giustificato Jeff Anchukaitis, portavoce del direttore della National Intelligence. “Gli analisti devono fare le loro previsioni sulla base delle percezioni di comando, controllo, capacità di leadership, esperienza e disciplina di combattimento”. Per molti, proprio questa capacità di previsione è qui tragicamente fallita, e aggiunto il “fallimento Isis” ad altri clamorosi svarioni dell”intelligence Usa: in Egitto, Mali, Libia, Kenya, Ucraina, Afghanistan. Tra le possibili cause di questi risultati così scadenti c’è probabilmente il fatto che le agenzie di intelligence Usa, a partire dallo scoppio della cosiddetta “Global War on Terrorism”, sono state coperte di finanziamenti e lasciate praticamente libere di agire, al di fuori di ogni controllo (il caso della Nsa e dei poteri di intercettazione denunciati da Edward Snowden ne è solo un esempio). Un’altra causa, più politica e profonda, l’ha proposta Michael Brenner, analista del Center for Transatlantic Relations. L’eccezionalismo americano, la fede nell’indispensabile capacità di leadership americana, condivisa da George W. Bush e Barack Obama, hanno coperto “l’inesperienza, l’incapacità di valutare gli aspetti interni dei Paesi esteri, l’incompetenza di molti che hanno usato la minaccia terroristica soltanto come strumento di ambizioni personali”.

 

 

 

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L'IRAQ NON ESISTE PIU' !!! (04-07-2014)

Iraq, Generale Usa: "L'esercito può difendere solo Bagdad". Curdi spingono verso l'indipendenza.
L'ISIS DIVENTA IS:Califfato, si combatte in Siria e in Iraq una sfera di influenza che comprende tutta l'Africa Centro-Nord,tutto il Medio Oriente fino all'Indo,tutta l'Asia Centrale,tutto il Caucaso fino a Volgograd,tutta la penisola balcanica fino a Vienna,tutta la penisola iberica....

 

 

Iraq, esercito si ritira: fallita la riconquista di Tikrit. Stato Islamico 'espropria' case cristiani

 

 

Regno Unito, collezionista compra carrarmato su eBay e trova un tesoro

Regno Unito, collezionista compra carrarmato su eBay e trova un tesoro
Il Type 69 in dotazione all'esercito iracheno 

 

Il nome della società del britannico Nick Mead è un gioco di parole: Tanks Alot. Offre lezioni di guida su blindati e noleggio per eventi e film. Il suo ultimo acquisto un Type 69 iracheno. Dopo la consegna la scoperta: 2,4 milioni di dollari in lingotti d'oro in una tanica per il carburante. Probabilmente trafugati dal Kuwait invaso da Saddam che scatenò la prima Guerra del Golfo

Sabato 25 marzo la guerra dello Yemen entrerà nel suo terzo anno dal 2014. Da quel giorno del 2015 nel Paese è in corso un conflitto sporco tra le forze sciite filo-iraniane huthi e una coalizione militare guidata dall’Arabia Saudita.

Secondo l’ultimo rapporto annuale del segretario generale Onu sui bambini nei conflitti armati, pubblicato nell’aprile 2016, dal marzo 2015 il 60 per cento delle morti e dei ferimenti di bambini sono da attribuire alla coalizione militare a guida saudita, un altro 20 per cento agli huthi mentre del restante 20 per cento non sono state individuate esattamente le responsabilità.

Amnesty International ha ripetutamente documentato violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario commesse dalla coalizione, anche nei confronti dei bambini, tra cui attacchi aerei contro le scuole e l’uso di bombe a grappolo (qui l’ultima denuncia) che hanno ucciso tre bambini e ne hanno feriti altri nove.

Le agenzie delle Nazioni Unite stimano che dal marzo 2015 al febbraio 2017 quasi 1500 bambini siano stati arruolati da tutte le parti in conflitto nello Yemen: gli huthi, al-Qaeda nella penisola araba (Aqap), parecchie divisioni dell’esercito regolare yemenita e alcune milizie filo-governative.

L’Arabia Saudita, inizialmente inclusa nell’elenco, ne è stata successivamente rimossa dall’ex segretario generale Ban Ki-moon a seguito di pressioni dei diplomatici di Riad presso le Nazioni Unite. Quanto agli huthi, Human Rights Watch li aveva già accusati di arruolare, addestrare e impiegare bambini soldato.

Amnesty International, nel corso delle sei missioni condotte tra gennaio 2015 e novembre 2016 nei territori controllati dagli huthi, ha incontrato bambini soldato che presidiavano posti di blocco: alcuni di loro avevano un libro in una mano e con l’altra tenevano un kalashnikov. L’ultimo rapporto risale a neanche un mese fa e riguarda quattro nuovi casi.

I quattro bambini sono stati reclutati a metà febbraio da Ansarullah – il nome con cui gli huthi sono conosciuti a livello locale – nella capitale yemenita Sana’a. Le famiglie lo hanno appreso da testimoni, che hanno visti salire i bambini su un autobus fermo fuori da un centro controllato dagli huthi, in cui si svolgono preghiere e letture al termine delle quali adulti e minorenni vengono incoraggiati a raggiungere la linea del fronte per difendere lo Yemen dall’Arabia Saudita.

I familiari hanno sottolineato che nei loro quartieri c’è stato un aumento del reclutamento dei bambini soldato. La guerra ha acuito la crisi economica e molte famiglie non riescono più a sostenere le spese di trasporto per mandare i figli nelle poche scuole ancora aperte. Diversi insegnanti sono in sciopero a causa del mancato pagamento dello stipendio.

Due dei familiari intervistati da Amnesty International hanno dichiarato di aver ricevuto promesse di incentivi economici, da 20.000 a 30.000 rial yemeniti (approssimativamente, da 75 a 115 euro) al mese nel caso in cui un bambino diventi martire sul fronte di guerra. Gli huthi s’impegnano anche di stampare e affiggere manifesti funebri per celebrarne il contributo dato allo sforzo bellico.

Lo Yemen è stato parte della Convenzione sui diritti dell’infanzia e del suo Protocollo opzionale sul coinvolgimento dei bambini nei conflitti armati, che proibiscono il reclutamento e l’impiego dei bambini nelle ostilità.

Il reclutamento o l’impiego di minorenni al di sotto dei 15 anni ad opera delle parti coinvolte in un conflitto è, ai sensi dello Statuto di Roma della Corte penale internazionale e del diritto consuetudinario, un crimine di guerra. L’ennesimo di questa guerra dimenticata.


 

 

 

 

ta in un raid. La bomba era stata realizzata durante la guerra dell’Iraq iniziata nel 2003. Il primo test fu fatto l’11 marzo dello stesso anno, poi un secondo 8 mesi dopo. A parte le due esercitazioni, non si avevano notizie di altre esplosioni della Gbu-43 Moab. La bomba era stata prodotta in altri 15 esemplari presso il McAlester Army Ammunition Plant. Il dipartimento della difesa americano ha diffuso il video del secondo test, datato 21 novembre 2003.

Kabul, il mullah Omar è morto due anni fa,nel 2013

Lo hanno confermato i servizi segreti afgani, anche se gli integralisti insistono nel negare la morte del loro capo supremo, che sarebbe avvenuta nell'aprile 2013. Mistero sulle cause del decesso (29-07-15)

 

 

FRONTE DEL MEDITERRANEO

 

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Migranti, presidente Msf: “Stupri e torture nei centri di detenzione in Libia. I leader Ue complici dello sfruttamento”

"Quella che ho visto è l'incarnazione della crudeltà umana al suo estremo, basata sul sequestro, la violenza carnale, la schiavitù", sono le parole pronunciate dalla presidente internazionale di Médecins sans Frontieres, Joanne Liu, che ha incontrato i giornalisti a Bruxelles dopo la pubblicazione della lettera aperta inviata ai leader europei. Un racconto confermato da Cecilia Malmstroem, commissaria europea al Commercio, mentre negli stessi minuti Gentiloni rivendica: "I risultati sull'immigrazione si vedono. Meno sbarchi"

Regno Unito, collezionista compra carrarmato su eBay e trova un tesoro

Crudeltà sistematica, sequestri, stupri su donne incinte e torture. È quello che si verifica nei campi in Libia con la complicità dei leader europei. È con questa accusa che si aperta la conferenza stampa della presidente internazionale di Médecins sans Frontieres, Joanne Liu.  “Quella che ho visto in Libia la descriverei come l’incarnazione della crudeltà umana al suo estremo. La forma più estrema di sfruttamento degli esseri umani basata sul sequestro, la violenza carnale, la tortura e la schiavitù. I leader europei sono complici mentre si congratulano del successo perché in Europa arriva meno gente dall’Africa”, sono le parole pronunciate da Liu, che ha incontrato i giornalisti a Bruxelles dopo la pubblicazione della lettera aperta inviata ai leader europei.

Reduce da una visita in Libia, durante la quale ha avuto accesso al centro di detenzione “ufficiale” di Tripoli, la presidente di Msf ha riferito gli orrori che si compiono in quei campi. “Ho visitato un certo numero di centri ufficiali di detenzione la settimana scorsa e sappiamo che questi centri di detenzione ufficiali sono solo la punta dell’iceberg: le persone vengono considerate semplicemente materia prima da sfruttare. Vengono stipate in stanze scure, luride, senza ventilazione, vivono uno sull’altro”, scrive nella sua missiva ai capi di Stato e di governo dei paesi dell’Unione. In conferenza stampa ha quindi esplicitato quanto visto nel centro di Tripoli, dove vengono portate le persone raccolte dalla guardia costiera libica – finanziata e addestrata dall’Ue – nelle acque territoriali.

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“Le donne incinte sono oggetto di violenza sistematica. Vengono particolarmente prese di mira, prese e violentate”, ha raccontato Liu, citando anche il caso di una persona portata in ospedale per grave malnutrizione: “Ci è voluto un mese per farlo guarire, ma poi è stato riportato nel campo a soffrire di nuovo la fame”.  “So – ha aggiunto Liu – che non ci sono bacchette magiche, ma almeno bisogna smettere di rimandare le persone in quella terra da incubo che è la Libia oggi”.

È per questo motivo che la missiva inviata da Liu ai leader europei comincia con una domanda: “Chi è davvero complice dei trafficanti: chi cerca di salvare vite umane oppure chi consente che le persone vengano trattate come merci da cui trarre profitto?”. “La Libia – prosegue la lettera di Msf – è solo l’esempio più recente ed estremo di politiche migratorie europee che da diversi anni hanno come principale obiettivo quello di allontanare le persone dalla nostra vista. Tutto questo toglie qualunque alternativa alle persone che cercano modi sicuri e legali di raggiungere l’Europa e le spinge sempre più in quelle reti di trafficanti che i leader europei dichiarano insistentemente di voler smantellare. Permettere che esseri umani siano destinati a subire stupri, torture e schiavitù è davvero il prezzo che, per fermare i flussi, i governi europei sono disposti a pagare?”.

Una valutazione condivisa da Cecilia Malmstroem, commissaria europea al Commercio: “È difficile commentare un rapporto appena pubblicato – dice – ma ho visitato io stessa la Libia e ho visto le prigioni: la situazione era abominevole qualche anno fa e non ho informazioni che indichino che la situazione sia migliorata. L’Ue dà molti soldi alle organizzazioni internazionali, per lavorare con Unhcr e Iom per tentare di migliorare le condizioni in Libia, perché in effetti sono atroci”. Sulla lettera di Msf è intervenuta anche Catherine Ray, portavoce dall’alto rappresentante per la politica estera europea Federica Mogherini. “La Commissione è consapevole che le condizioni nei campi di detenzione in Libia sono scandalose ed inumane”, ha detto la portavoce, che ha tuttavia evitato di rispondere alle domande dirette sulle prove di coinvolgimento della guardia di frontiera libica e sui finanziamenti che il governo italiano dà alle milizie che portano i migranti nei campi di detenzione in Libia.

E proprio negli stessi minuti in cui Msf punta il dito contro i leader Ue complici delle torture in Libia pur di frenare i flussi migratori, il premier italiano Paolo Gentiloni rivendica la riduzione del numero di sbarchi. “I risultati sull’immigrazione si vedono, nel senso della riduzione degli sbarchi e dei flussi migratori, che è un risultato della nostra politica e del sostegno dell’Ue. Sono risultati mai definitivi, sempre da consolidare e il più possibile da europeizzare”, ha detto il premier nella conferenza stampa congiunta con il primo ministro sloveno Miro Cerar a Lubiana

 

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Migranti, ad aprile 2016 più sbarchi in Italia
che in Grecia: molti arrivati dall’Egitto
Brennero, “Austria: “Per ora no muro”
. Egitto, "400 migranti dispersi in un naufragio"

 

Gommone in avarìa nel Canale di Sicilia: 6 morti, 108 in salvo foto 

migranti-pp-990x192 (IL PICCOLO ALIAN, SIRIANO,6 ANNI, PER NON DIMENTICARE MAI COSA PURTROPPO E' CAPACE DI FARE L'UOMO SULL'UOMO A 70 ANNI DALLA CARNEFICINA DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE.....NON ABBIAMO IMPARATO NIENTE...)

Migranti, “700 bambini morti nel 2015
Raddoppiato numero totale vittime”
Appello Unicef: “Fermare l’ecatombe”

Traffico migranti, 7 arresti in tutta Italia

 

 

 


ECONOMIA ITALIOTA

 

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Caltagirone, fallita l’offerta sull’editrice del Messaggero il costruttore esce dal cemento italiano e vende ai tedeschi

La cessione delle attività nel cemento italiano è legata a doppio filo con i debiti del gruppo che sta affrontando un'ampia ristrutturazione. Da tempo, del resto, il costruttore aveva colto il cambio d'aria. A giugno dello scorso anno, subito dopo l’elezione di Virginia Raggi a sindaco di Roma, aveva infatti annunciato la sua intenzione di ridurre il peso degli investimenti italiani

Dopo Pesenti, anche Caltagirone dice addio al cemento italiano. La holding Cementir cede per 315 milioni tutte attività nazionali del calcestruzzo. Le vende alla Italcementi, società che la famiglia Pesenti ha alienato due anni fa alla tedesca HeidelbergCement. Con questa operazione passeranno di mano 5 impianti di cemento a ciclo completo e 2 centri di macinazione di cemento (per una capacità produttiva installata di 5,5 milioni di tonnellate), insieme al network dei terminal e degli impianti di calcestruzzo attivi sul territorio nazionale. Questi asset allargheranno notevolmente la struttura industriale Italcementi, già oggi proprietaria di 6 cementerie a ciclo completo, un impianto per prodotti speciali, 8 centri di macinazione del cemento, 113 impianti di calcestruzzo e 13 cave per inerti. E faranno del gruppo tedesco il leader indiscusso del settore in Italia.L’operazione segna un passaggio storico anche per il gruppo creato costruttore romano Francesco Gaetano Caltagirone, editore tra il resto del Messaggero e del Mattino di Napoli. E la ratio la spiega il presidente e amministratore delegato di Cementir Holding, Francesco Caltagirone, nel comunicato che ha annunciato l’operazione: grazie alla cessione “l‘indebitamento finanziario netto del gruppo a fine 2018 sarà prossimo a 0,5 volte il margine operativo lordo – chiarisce Caltagirone -. Questo ci darà la possibilità di cogliere altre opportunità che si dovessero presentare in futuro, così come accaduto negli ultimi dodici mesi”.

La cessione delle attività nel cemento italiano è quindi legata a doppio filo con i debiti del gruppo che sta affrontando un’ampia ristrutturazione. Sulla base dell’ultima semestrale al 30 giugno, Cementir ha infatti un indebitamento finanziario netto da 613,2 milioni di euro, in aumento di 50,8 milioni di Euro rispetto al 31 dicembre 2016. I debiti con le banche ammontano a 717 milioni, ma il problema è che non si fanno più gli affari di una volta (+0,6% i ricavi del secondo trimestre 2017). Una serie di considerazioni economiche che, associate all’instabilità politica italiana, hanno spinto il costruttore romano a farsi due conti in tasca. Soprattutto dopo il fallimento del collocamento in Borsa di Domus spa, un veicolo confezionato ad hoc per far cassa con gli immobili della periferia romana e successivamente fuso con la controllata Vianini Industria fra le proteste dei soci di minoranza.Da tempo, del resto, Caltagirone ha intuito che il vento è cambiato. A giugno dello scorso anno, subito dopo l’elezione di Virginia Raggi a sindaco di Roma, il costruttore editore aveva annunciato la sua intenzione di ridurre il peso degli investimenti italiani: “In futuro meno Italia e meno Roma in particolare, più estero”, aveva spiegato dopo aver incassato 80 milioni per la cessione della sua quota di Grandi Stazioni, ex controllata delle Ferrovie dello Stato. Un mese dopo è passato dalle parole ai fatti trasferendo la quota detenuta in Acea ai francesi di Suez e diventando azionista a sua volta del gruppo francese. In tempi più recenti il costruttore romano ha tentato il colpo grosso: l’offerta d’acquisto per il 32% della Caltagirone editore che non è più nelle mani della famiglia. Ma l’operazione è fallita perché il prezzo (1 euro per azione) è stato ritenuto dal mercato troppo basso per una società che ha in pancia 134 milioni di liquidità, oltre alla quota in Generali (83 milioni) e che, secondo alcune stime, può valere fino a 3,85 euro per azione. Così per far cassa, l’editore romano ha ripiegato sulla compagnia triestina: stando alle ultime comunicazioni di internal dealing di venerdì 15 settembre, Francesco Gaetano Caltagirone ha venduto 1 milione di titoli del gruppo assicurativo intascando 13,5 milioni. Meglio che niente. Soprattutto se la cifra è sommata al più consistente incasso della vendita del cemento italiano che, sulla falsariga di quanto accaduto con Pesenti, aprirà inevitabilmente la strada ad una dolorosa ristrutturazione.

Mediobanca, si apre il cantiere per sciogliere il patto: Pirelli verso l'uscita

La società degli pneumatici si prepara a mettere sul mercato il suo 1,79% di Piazzetta Cuccia: denari buoni per ripagare il debito in vista del ritorno in Borsa. Si muove così il disegno che vede - nell'arco di un biennio - Unicredit uscire dall'ex salotto della finanza, con effetti a cascata fino alle Generali

Muove i primi passi il progetto di smantellamento dello storico patto di sindacato di Mediobanca, il circolo riservato all'interno del salotto buono della finanza italiana. Ad aprire le danze dovrebbe essere la Pirelli che si prepara a tornare a Piazza Affari, sotto la nuova insegna cinese. Per il momento si tratta dunque di una partecipazione "limitata" all'1,79% di Piazzetta Cuccia, che non minaccia il nocciolo duro degli azionisti (con Unicredit, Bolloré e Mediolanum in testa) di scendere sotto il 25%, livello che garantisce il rinnovo automatico dell'intesa tra i soci storici per il prossimo biennio.

Come ricostruito nelle scorse settimane da Repubblica, infatti, il piano di Unicredit (forte della partecipazione dell'8,46% in Mediobanca) riguarda l'alleggerimento della presenza in Piazzetta Cuccia, una volta che i valori di Borsa saranno allineati a quelli di libro, con un orizzonte di esecuzione che può arrivare a un paio di anni. Ci sarà dunque ancora tempo perché - entro la fine di settembre - arrivino prima il rinnovo automatico del patto e poi quello dei vertici di Mediobanca, nell'assemblea che compilerà l'ultima lista di maggioranza per il consiglio di amministrazione. Dal 2020, a decidere i consiglieri non saranno più gli azionisti ma lo stesso cda uscente.

AFFARI&FINANZA. Galassia del Nord, la ristrutturazione parte con il nuovo cda Mediobanca

Nel lungo periodo, l'alleggerimento della partecipazione in Mediobanca da parte dell'istituto guidato da Mustier si muoverà in parallelo alla discesa della stessa Mediobanca dal 10% in Generali (che è l'obiettivo di partecipazione al 2019, dal 13% di oggi), con una doppia rivoluzione nei due gangli del capitalismo italiano. E' dunque una filiera da Milano a Trieste in movimento, con una lenta rivoluzione che prenderà i prossimi mesi.

Oggi, spiega la Stampa in edicola, emerge che a muovere i primi passi di questo ampio disegno sarà proprio la Pirelli, che per altro potrebbe collocare il suo pacchetto sul mercato rastrellando denari buoni per ripagare l'indebitamento di oltre 4 miliardi. Marco Tronchetti Provera, ad di Pirelli e vicepresidente in Piazzetta Cuccia, non rientrerà di conseguenza nella lista per la prossima governance della banca.

Renzi o Monti? Chi ha fatto davvero aumentare la povertà

C’è polemica fra Monti e Renzi su chi abbia fatto aumentare la povertà assoluta in Italia fino a quasi cinque milioni di persone. Il Fatto quotidiano dà spazio a Monti e critica Renzi: “Al governo c’era lui, ma la colpa è di chi c’era prima. Un’analisi sciorinata con una certa dose di faciloneria a uso dei social network, visto che quelli in questione sono fenomeni causati da una molteplicità di fattori che agiscono sul lungo periodo, la cui corretta interpretazione dovrebbe essere frutto un’osservazione altrettanto estesa nel tempo e che richiederebbero un’analisi più approfondita da parte del leader di quello che resta uno dei maggiori partiti del Paese”.

Se si tratta di fenomeni di lungo periodo, avrebbe ragione Renzi ad attribuire al passato la responsabilità dei trend odierni. Ma partiamo da fatti e dati affinché il lettore, innanzitutto, possa farsi una sua opinione.

Un individuo è “assolutamente povero” se al mese spende cifre inferiori a quelle incluse tra i 550 euro (se vive in un paesino del sud) e i 820 euro (se vive a Milano), e non può permettersi un paniere minimo di beni. Per contestualizzare: nel 1861 il reddito medio pro capite era pari a circa 190 (attuali) euro al mese. I poveri del 2017 sono soprattutto disoccupati, operai, famiglie numerose (quindi molti bambini poveri), gente con titoli di studio bassi (licenza media o meno), che vive in periferia, stranieri. Non c’è dubbio: la crisi l’hanno subita soprattutto i ceti deboli.

Come si vede nel grafico sopra, la povertà ha cominciato la sua salita all’inizio del 2008, subito dopo la prima recessione del 2007. Anche nel 2012 ha reagito subito al crollo del Pil (“Stiamo sottraendo domanda aggregata” dichiarava giulivo Monti). Possiamo dire, quindi, che – almeno in parte – la povertà reagisce entro un anno all’andamento del Pil (occupazione), e alle “liberalizzazioni” del mercato del lavoro.

Per tali motivi, possiamo affermare che a Monti dobbiamo la più grande impennata della povertà della Storia d’Italia in tempo di pace. Fu corresponsabile della crisi finanziaria, in solido con Trichet & Bce/ Berlusconi & Tremonti, rifiutando per mesi l’impostazione (corretta) degli ultimi giorni del governo Berlusconi. Il quale ai primi di Novembre del 2011 propose confusamente all’Europa un “Whatever it takes” offrendo in cambio una dignitosa variante delle future operazioni monetarie, le Outright Monetary transaction (Omt). Monti inoltre aggravò la crisi occupazionale con una non necessaria eccessiva austerità, che schiantò l’economia italiana – in maniera (per lui) imprevista – e gonfiò il rapporto debito/Pil.

Quanto a Renzi, osserviamo nel grafico che – dopo il suo avvento nel 2014 – nel 2015/16 c’è stata una ripresa della povertà. Colpa di Monti? C’è davvero una componente “inerziale” nella povertà, che reagisce in ritardo agli sviluppi dell’economia? È possibile: se uno perde il lavoro (con Monti), è probabile che abbia dei risparmi, grazie ai quali non cade subito in povertà. D’altra parte, se l’economia riprende (con Renzi), quelli che stanno per entrare in povertà (per colpa di Monti) dovrebbero riuscire a evitarlo, oppure il loro ingresso in povertà dovrebbe essere compensato dall’uscita di altri.

Il grafico sotto può essere interpretato, con un po’ di sforzo, come un debole indizio dell’esistenza dell’inerzia: l’intensità della povertà è in continuo aumento. (Misura quanto in percentuale la spesa media delle famiglie definite povere è al di sotto della soglia di povertà).

In conclusione, il bicchiere di Monti è vuoto. Si può discutere se quello di Renzi sia mezzo vuoto o mezzo pieno. Peccato che lui affermi sia pieno: non ha ridotto la povertà (anzi). Renzi l’audace nel 2014 sembrava l’uomo giusto per rottamare le pessime politiche economiche che hanno impoverito l’Italia; ma è stato imbrigliato da Napolitano, che gli ha imposto una linea economica “ortodossa” e gli ha messo a fianco un guardiano (Padoan). Ora è tardi per riciclarsi come leader alternativo: too little, too late! A meno di non avere molto più coraggio, competenza, intelligenza e sottigliezza di quanto non stia dimostrando.

Monti e Renzi hanno più ragione quando parlano l’uno dell’altro, che di se stessi. Tutti gli altri hanno l’onere di spiegare perché farebbero meglio.

 

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 .La resa di Pier Silvio: il calcio pay ha portato solo perdite a Mediaset

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La banca centrale cinese prende un 2% anche di Unicredit e Monte dei Paschi

 

Investimento da quasi un miliardo, a due settimane dalla stessa puntata su Intesa Sanpaolo. Le blue chip italiane si confermano le preferite di Pechino in Europa, dopo le aziende della City.

Unipol, sciopero nel giorno dell'assemblea,28 aprile 2016

http://www.bolognatoday.it/cronaca/unipol-stalingrado-sciopero-contratto-polizia.html

Unipol non vuole più rating
di S&P. Come il re che per
non vedersi abolì gli specchi
:il gruppo ha l'80% degli investimenti in italia ed e' inevitabile un suo rating al ribasso ancorato a quello nazionale (bbb-), altresi -5,8% di utile netto rispetto al 2014,-8,8% di raccolta diretta rispetto al 2014...

 

Banca popolare di Vicenza, la Borsa dice no. Salvata dal fondo Atlante, ma le banche tremano (2-5-16)

Paracadute o veicolo di contagio? Lo stop arrivato alla quotazione in Borsa della Banca di Vicenza chiama in causa il Fondo Atlante, la ciambella di salvataggio per le banche in difficoltà, tormentate da aumenti di capitale che vanno quasi a vuoto sul mercato e affossate dal peso dei crediti deteriorati. Se le cose si mettono male per queste banche, come sta succedendo proprio a Vicenza, il Fondo deve intervenire e assolvere a uno dei suoi compiti, cioè sostenere la ricapitalizzazione. Così per l’ex Bpvi, che da sola è andata incontro al flop della sottoscrizione del nuovo capitale, Atlante sarà la mano salvifica perché garantirà l’intera copertura, andando a sottoscrivere tutte le azioni per un esborso pari a 1,5 miliardi di euro. Atlante salverà Vicenza, ma rischia di mettere in difficoltà due istituti solidi, UniCredit e Intesa Sanpaolo, che dovranno sostenere lo sforzo maggiore. Cosa succederà infatti se, come avverrà per la Banca di Vicenza dopo lo stop a piazza Affari, il Fondo dovrà tirare in ballo in modo consistente le banche che contribuiscono al suo funzionamento?

 

 

Corriere della Sera, Urbano Cairo vince facendo l’editore puro (che non vuol dire immacolato) sulle macerie lasciate dagli Agnelli.

 

 

Nasce il polo Repubblica-Stampa. Fca esce da Rcs

 

Accordo Gruppo Espresso-Itedi. L'unione di Repubblica, Stampa e Secolo XIX porterà alla creazione del primo gruppo italiano dell'informazione stampata e digitale. Monica Mondardini sarà alla guida operativa.

Repubblica-Stampa e Corriere: terremoto in edicola.

Dopo l’uscita di Fca dai quotidiani, nasce un nuovo gruppo editoriale proprietario de La Repubblica e La Stampa. Quello dei media è però un mercato particolare. E l’analisi degli effetti su concorrenza e pluralismo dovrebbe essere svolta a livello regionale e provinciale. Le prospettive di Rcs.

Mondadori si prende Rizzoli Libri per 127,5 milioni di euro. Per volontà degli Agnelli RCS svende la sua divisione libri a Berlusconi, poi gli Agnelli decidono di dismettere tutto il parco giornali locali italiota, 5 marzo 2016, cedendolo al gruppo Espresso-De Benedetti (La Stampa-Il Secolo XIX), uscendo altresi da RCS dopo 35 anni e da socio di maggioranza dal 2014.

 

 

 

 

IL CROLLO ECONOMICO DI UNA NAZIONE TRA IL 2014 ED IL 2015

 

 

 

Economia e Politica Mondiali- Mondo

 

 

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Le false partenze della sinistra/3 – L’elefante nella stanza

Dalle Alpi alle Termopili, dal Manzanarre al Reno, le Sinistre vanno al governo e adottano politiche di destra. Cresce perciò l’ingiustizia sociale, e la protesta anti-sistema. Di chi la colpa? Non della globalizzazione! C’è un elefante nella stanza… [Questi avvenimenti sono stati narrati nei post “Le false partenze della sinistra 1 e 2”].

Cosa impedisce alla sinistra europea di fare il suo mestiere quando va al governo? Non la globalizzazione: è solo economia di mercato (internazionale). Né l’Amerika: è con noi (come i mercati globali) da almeno due secoli, durante i quali la sinistra è cresciuta e ha cambiato il mondo. L’Urss non c’è più? D’accordo, ma non c’era neppure nel 1820-1920. Né il successivo progresso sociale è stato determinato solo dal comunismo: non in Germania, ad esempio, dove han fatto tutto sinistra cattolica e socialisti; non negli Usa, dove ha fatto tutto la sinistra liberale. No! L’elefante nella stanza è l’euro di Maastricht: moneta fondata su istituzioni e regole non solo disfunzionali, ma anche ostili ai ceti deboli e ai lavoratori. Un problema enorme che i leader fingono di non vedere.

Non so dov’erano e cosa leggevano in questi anni i vecchi e nuovi politici che – solo per indignarsi contro il Renzismo (o il Populismo) – pensano di potersi offrire a noi come guide verso il sol dell’avvenire. So però che, al di là delle buone intenzioni, vendono fumo. Non è possibile “rilanciare la sinistra” senza fare i conti con i meccanismi economici che provocano la deriva liberista. Uno di questi – l’oggetto di questo articolo – è la competitività.

In un post precedente ho sostenuto che la competizione commerciale fra nazioni è in genere un falso problema, che non obbliga affatto a una “corsa al ribasso” su salari, diritti, welfare, sicurezza sul lavoro ecc. Ciò grazie ai tassi di cambio, che riequilibrano costantemente le differenze competitive internazionali, “svalutando” o “rivalutando” indistintamente tutti i fattori produttivi di una nazione. Ma l’Eurozona è per definizione priva di tassi di cambio: e questo cambia tutto. La Francia è un caso emblematico.

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La tabella presenta in (a) e (b) una misura (inversa) dell’andamento della competitività: il CLUP = (Salario – Produttività). Come si vede in (c) e (d), in Francia negli ultimi 20 anni la crescita della produttività è stata forse persino superiore a quella della Germania. E il livello medio della produttività (grafico di Picketty) è oggi identico nei due paesi (55 euro l’ora; 42 in Italia).

Nonostante ciò, ai fini della competitività internazionale, la Germania nel 1999-2008 ha più che compensato la minore crescita della produttività agendo sul costo del lavoro e mettendo così fuori mercato la Francia. Questa politica è evidenziata in (e): la crescita salariale in Germania (+1,6% l’anno) è nettamente inferiore non solo a quella francese (3,6%), ma anche alla crescita della produttività tedesca, pari a 2,4% in (c): di essa si appropriano i profitti e le rendite, che in parte la “cedono” per alimentare la competitività (e i fatturati), spingendo l’inflazione nettamente sotto i livelli concordati in Europa. E così la Germania guadagna, col. (a), anno dopo anno 0,6% di competitività (di costo e prezzo) sulla Francia [-0,7 -(-0,1) = -0,6] provocando infine una crisi oltre Reno (10% di disoccupati, debito/Pil in crescita, ecc.). La Francia paga il rifiuto di “svalutare il lavoro” del primo decennio di vigenza dell’euro. Non per nulla le politiche mercantiliste vengono dette “beggar thy neighbour”, frega il tuo vicino.

I lavoratori tedeschi, pur difendendosi molto meglio dei colleghi di altri paesi – almeno hanno evitato la crisi occupazionale – hanno pagato il prezzo delle politiche mercantiliste: la quota di PIL che va a remunerare il Lavoro è scesa di tre punti. E l’ingiustizia sociale, anche in Germania, cresce (grafico).

Con cambi flessibili o regolabili tutto ciò non è e non sarebbe mai successo, o sarebbe presto risolto: un paese che esporta assai più di quanto importa, genera sui mercati valutari un eccesso di domanda per la propria valuta, che apprezza il cambio e annulla il vantaggio competitivo. In tutto il mondo quindi, i Clup tendono a convergere: la globalizzazione non impone una race to the bottom (gara al ribasso) sui salari e le tutele sociali.

Nell’Eurozona invece, in assenza dei cambi, entrano in funzione altri meccanismi automatici di mercato che – molto lentamente – anch’essi tendono a riequilibrare la competitività fra paesi membri. Essi agiscono sul livello generale dei prezzi: nei paesi in surplus tende a salire, e nei paesi in deficit (relativamente) a scendere. Questa cosiddetta “svalutazione interna” è il meccanismo di aggiustamento competitivo previsto dai padri dell’euro. Qual è la sua natura?

(Continua qui).

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La Corea del Nord sfugge alle sanzioni grazie al Bitcoin

Si intensificano le incursioni hacker verso il Sud, per accumulare criptovalute difficili da rintracciare. Usati messaggi di posta elettronica per i furti digitali

 

ROMA - Non solo missili nucleari, la Corea del Nord punta anche su un'altra arma. Nulla a che vedere con lanci di razzi o esplosioni, in questo caso si tratta di cyber-finanza. Pyongyang, infatti, punta ad accumulare bitcoin e altre criptovalute per aggirare le restrizioni commerciali, comprese le nuove sanzioni inflitte dal Consiglio di Sicurezza dell'Onu. Secondo FireEye, società specializzata nella sicurezza informatica, gli hacker del regime stanno intensificando gli attacchi ai mercati di criptovalute sudcoreani.

A rendere appetibili le monete elettroniche, il cui valore è in aumento, sono in particolare due elementi: la mancanza di controllo da parte degli Stati e la difficoltà nel rintracciare chi ne fa uso. Uno dei metodi che il regime usa per rubare bitcoin consiste nell'invio di mail contenenti dei malware al personale dei mercati di scambio.

Nel 2017 - ha confermato FireEye - ci sono stati alcuni tentativi di furto di criptovalute in Corea del Sud, di cui uno andato a segno. Vennero sottratti 3.800 bitcoin che, al cambio odierno, varrebbero circa 15 milioni di dollari. In questo caso, tuttavia, non è stato dimostrato il coinvolgimento del regime guidato da Kim Jong-un.

Un'altra strategia per ottenere delle riserve di moneta elettronica è il "ransom payment", ovvero il pagamento di un riscatto per la rimozione di un malware. FireEye, a tal proposito, aveva trovato dei legami tra la Corea del Nord e WannaCry, il cyber-attacco che a maggio ha colpito sistemi informatici in tutto il mondo.

I bitcoin, inoltre, possono essere convertiti dagli hacker in dollari o altre valute. Come? Uno dei metodi principali consiste nello scambio con criptovalute più difficili da tracciare, come il Monero, poi commerciate con moneta a corso legale. Infine, come segnalato da Bloombergil mese scorso, l'FBI sta esaminando il coinvolgimento di Pyongyang nel cyber-attacco da 81 milioni di dollari alla New York Fed.

 

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Scontri sono in corso ad Amburgo tra manifestanti anti-G20 e forze dell’ordine che stanno usando anche gli idranti per disperdere le persone. Con lo slogan…
ILFATTOQUOTIDIANO.IT
 
 
 
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Il Quantitative easing sta per finire. E’ servito a tanto, a poco o a nulla?

Alla fine del 2017 si prevede inizierà la riduzione del processo di Quantitative easing (Qe). I suoi risultati sono stati in parte coerenti con le aspettative e in parte deludenti. Vediamo in cosa è consistito il Qe e gli effetti prodotti.

Innanzitutto, l’operazione consiste nell’acquisto da parte della Banca centrale europea di 60 miliardi al mese di Titoli di Stato (poi esteso a altre categorie) con classi e importi prestabiliti. Il Qe è in sostanza uno strumento di politica monetaria espansiva, messo in atto per stimolare la crescita economica, quella della produzione, dell’occupazione e dell’inflazione. E come supporto agli Stati che hanno difficoltà a sostenere e a rinnovare il proprio debito pubblico. E’ considerato uno strumento non convenzionale di politica monetaria.

Quanto ai dettagli tecnici del piano, la Bce non ha potuto comperare più del 25% di ogni singola emissione e non più del 33% del debito di un singolo Paese. L’effettivo ammontare è stato fissato sulla base delle quote che ogni banca centrale detiene nel capitale della Bce. Vale a dire che il 17,9% saranno Bund tedeschi, il 14,1% Oat francesi, il 12,3% Btp italiani, l’8,8% Bonos spagnoli e così via. Ad acquistarli, in concreto, sono state le banche centrali nazionali, mentre la Bce ha coordinato gli acquisti “per salvaguardare l’unicità della politica economica e monetaria”. Titoli con durata residua variabile da 2 a 30 anni, prima delle modifiche che hanno ridotto a un anno la durata residua accettata.

Le conseguenze operative di tale operazione sono sostanzialmente quattro:

1. La Bce è andata sul mercato comprando titoli di cui erano pieni i bilanci delle banche commerciali pagandoli tramite creazione di moneta che ha immesso nel sistema. La prima conseguenza è stata che il prezzo dei titoli è salito (perché c’è stata più domanda) e il loro rendimento, cioè il tasso di interesse che ogni Stato paga per finanziare il proprio debito, è sceso. Non sono da dimenticare le ultime emissioni di Titoli di Stato in Europa a rendimento addirittura negativo, con buona pace dei governi.

2. A seguito di quanto sopra, i bassi tassi sui titoli pubblici hanno fatto calare anche il rendimento delle altre obbligazioni (quelle di banche e aziende). Alla fine, quel che è accaduto, è che sono scesi tutti tassi, compresi quelli a cui sono indicizzati i mutui. All’acquisto di titoli, la Bce ha aggiunto altre attività, tra le quali una politica di tassi di interesse negativi (Negative interest rate policy o Nirp), finalizzata essenzialmente a stimolare le banche a una maggiore concessione di credito. Non potendo guadagnare tramite il deposito delle somme presso la Banca centrale, esse avrebbero dovuto aumentare i fidi, così favorendo anche la ripresa dell’inflazione. Effetti verificatisi in maniera inferiore alle attese.

3. Il terzo canale di efficacia del Qe è quello che passa attraverso la valuta. Che si deprezza, perché a seguito degli acquisti della Bce, ce n’è molta di più in circolazione. L’euro sta dunque perdendo terreno rispetto al dollaro, anche a seguito dell’interruzione della stessa operazione di Qe da tempo posta in essere dalla Fed, favorendo le esportazioni. Al tempo stesso, l’aumento dell’offerta di moneta crea inflazione. Questo è uno degli obiettivi fondamentali di Draghi, visto che la Bce ha come “target” un’inflazione vicina al 2%. Dobbiamo ammettere che questo effetto non si è dispiegato ancora pienamente a seguito anche del forte calo di prezzo del petrolio, che incide grandemente nelle dinamiche inflazionistiche europee.

4. L’effetto congiunto della riduzione dei tassi sui mutui e dell’aumento della liquidità sui mercati avrebbe dovuto essere un sensibile aumento del valore delle attività finanziarie e reali, comprese le case. Iproprietari immobiliari e coloro che hanno investito i risparmi in azioni o obbligazioni societarie in questo caso si sarebbero dovuti ritrovare patrimoni più importanti, con un invito a spendere di più aumentando le spinte inflattive. Non è stato vero in tutta Europa e soprattutto in Italia, dove l’80% delle famiglie italiane proprietarie di case ha dovuto fare i conti con le spinte deflattive causate dall’elevata tassazione immobiliare. Oltre alla carenza di finanziamenti bancari, che hanno impedito di fatto la creazione di una tensione da domanda sui prezzi. Qualche vantaggio per gli investitori in azioni, per i corsi delle quali invece la grande liquidità ha fatto aumentare notevolmente gli indici di Borsa.

Infine, come effetto collaterale, con i bilanci alleggeriti da un eccesso di titoli di Stato, gli istituti bancari avrebbero avuto un incentivo a usare il denaro incamerato per dare più prestiti. Ricordiamo ancora le Aste Targeted longer-term refinancing operations (Tltro) riservate alle banche per rifornirle di fondi a bassissimo costo, finalizzati espressamente alla concessione di nuovi prestiti. Poco realizzato anche questo effetto, perché le banche hanno preferito tenersi in pancia i denari e investirli nel rimborso di proprie passività o rinforzare gli indici di solidità patrimoniale, in barba alle speranza dei regolatori.

 

India, 28 morti e mille arresti per le proteste contro condanna al “Rock Guru”. Treni in fiamme, coprifuoco in 2 città

Scontri e violenze in tre Stati contro la sentenza nei confronti del guru Gurmeet Ram Rahim Singh, alla guida di un'organizzazione che conta centinaia di migliaia di seguaci. Un tribunale lo ha riconosciuto colpevole di violenza sessuale su due donne. Incidenti e incendi in molte località

Almeno 28 morti, oltre 250 feriti, circa mille persone arrestate, due stazioni in fiamme, coprifuoco imposto in due città. E’ ciò che accade in India dopo la condanna del guru Gurmeet Ram Rahim Singh, 50 anni, guida della potente organizzazione socio-spirituale Dera Sacha Sauda, che nel Paese conta centinaia di migliaia di Sadhvis, cioè i suoi seguaci. Il guru è stato ritenuto colpevole di violenza sessuale nei confronti di due donne dopo un’inchiesta e un processo durato 15 anni. Tra alcuni giorni i giudici di Panchkula, in Haryana, renderanno l’entità della pena. Intanto Singh è stato preso in consegna dall’esercito che lo ha portato in prigione.

Ma intanto si è scatenata la protesta dei sostenitori del guru, conosciuto come “Rock Guru” per le sue composizioni musicali e i suoi atteggiamenti da rockstar. Le violenze sono state registrate in tre Stati indiani. Il coprifuoco è stato imposto nelle città di Panchkula e Sirsa, e misure speciali sono state introdotte anche a Noida, alla periferia di New Delhi. Oltre alle accuse di stupro, nel corso degli anni è stato anche coinvolto nelle indagini sulla morte di un giornalista e accusato di aver incoraggiato almeno 400 seguaci ad accettare la castrazione per “poter meglio avvicinarsi a Dio”. 

Le proteste di oggi erano attese tanto che giornali, radio e tv avevano inviato decine di giornalisti a coprire la vicenda, fin dalla lettura della sentenza. Già ieri molte decine di migliaia di sostenitori erano arrivati a Panchkula. I governi dell’Haryana e del Punjab hanno adottato misure speciali per tutelare l’ordine pubblico, con il dispiegamento di almeno 15mila paramilitari e di reparti dell’esercito. Un centinaio di treni sono stati cancellati mentre fino a domani è sospeso nei due Stati il servizio di Internet. Anche le scuole e gli uffici pubblici hanno chiuso i battenti. Il guru aveva diffuso un video messaggio in cui ha rivolto ai suoi sostenitori un appello alla non violenza, invitandoli a tornare a casa. Ma non è bastato.

Londra, il grattacielo in fiamme è lo specchio di un Paese diviso

Ci sono volute le immagini raccapriccianti di un inferno di cemento, lamiere, plastica e vetro per aprire nel Regno Unito il dibattito sui privilegi delle classi più abbienti. E già, perché a Londra, dopo la tragedia della Grenfell Tower non si è parlato delle diseguaglianze di reddito – tema ormai trito e ritrito – ma dell’ingiustizia perpetrata da un sistema dove i poveri sono diventati invisibili e, tutt’al più, diventano numeri quando si trasformano nei corpi carbonizzati delle vittime di un incendio. Per chi voglia capire cosa sta succedendo nel Regno Unito, perché si è votato Brexit e perché il filo-marxista Corbyn ha portato a casa il 40 per cento dei voti, suggerisco di usare come parole guida ingiustizia e Grenfell Tower. Quest’ultima faceva parte della vecchia Londra, una città popolata dagli sfollati alla fine della seconda guerra mondiale, una città che sembrava una fetta di formaggio gruviere, tanti erano le voragini scavate dalle bombe dei blitz.

Al loro posto, dal 1945 fino agli anni Settanta, vennero eretti complessi di case popolari, palazzi e grattacieli che come ha commentato una residente della Grenfell Tower oggi assomigliano più a piccionaie che a edifici residenziali. Una o massimo due camere da letto incastrate una sopra all’altra con al centro due ascensori puzzolenti e una singola scala. Protezione contro gli incendi inesistente. Ma tutto ciò avveniva nel dopoguerra.

Nelle case popolari andarono a vivere i poveri, i senza tetto e chiunque non avesse la possibilità di vivere in una casa propria. Ma la vita non era così difficile. I governi laburisti e conservatori costruirono intorno a questi centri scuole, ospedali, uffici postali e così via, pietre miliari della vita societaria. E a tutti questi servizi accedevano anche coloro che avevano una casa loro. La parola d’ordine era dunque integrazione.


 

Fu la signora Thatcher a offrire ai residenti delle case popolari la possibilità di acquistare a prezzi stracciati l’appartamento in cui vivevano. Potevano diventare landlord e farci quel che volevano. Successe negli anni Ottanta e da allora molti di questi palazzi e grattacieli sono stati privatizzati e ristrutturati, gli appartamenti venduti o affittati. Ed è esattamente quello che è successo alla Grenfell Tower. Ciò spiega perché tra i dispersi c’erano stranieri, come il profugo siriano o la coppia di giovani italiani, andati a Londra a cercare fortuna.

Nonostante la privatizzazione degli appartamenti, le parti comuni sono rimaste pubbliche e le ristrutturazioni sono state a carico delle circoscrizioni. Quasi tutte non hanno trasformate torri come la Grenfell in edifici sicuri, a norma con le moderne regole anti-incendio. Sono costruzioni vecchie, che spesso non possono essere migliorate, bisognerebbe buttarle giù e ricostruirne di nuove, ma lo Stato non ha i soldi per farlo. Allora cosa si fa? Ci si concentra sull’aspetto esteriore, pretendendo che si siano fatte grandi cose.

Molti hanno detto che si è voluto abbellire la Grenfell Tower perché si affacciava sui giardini delle case dei multimiliardari di Holland Park e Kensington, ma la verità è ancora più cruda. Nell’era dell’austerità ingannare gli inquilini e l’elettorato è diventata un’arte. E come i padroni di case coprono le crepe con una mano di vernice così lo Stato britannico ha coperto con pannelli di alluminio i pericoli della Grenfell Tower.

Ma torniamo all’ingiustizia, tema che in questa Londra di metà giugno, stranamente calda e luminosa, rischia di diventare una buccia di banana per la signora May. A est della città, intorno alla City e anche a sud, dall’altra parte del fiume, negli ultimi dieci anni sono sorti grattacieli spettacolari dove si sono ubicate le imprese più ricche del mondo. Alcuni, specialmente quelli lungo il fiume, a Dockland, ospitano appartamenti con viste mozzafiato sulla città, simili a quelle dei piani più alti di Grenfell Tower. Lì però i sistemi di sicurezza sono tutti a norma, ci sono gli allarmi anti-incendio che aprono automaticamente rubinetti incastrati nei soffitti da dove scorrono fiumi e fiumi di acqua; ci sono scale anti incendio accessibilissime e tanti ascensori.

Queste costruzioni appartengono al settore privato mentre le case popolari rientrano in quello pubblico. Due pesi e due misure, insomma, chi ha costruito i nuovi edifici ha dovuto farlo seguendo regole che non sono state rispettate nella ristrutturazione di quelli vecchi.

Come i grattacieli anche la popolazione di Londra si bipartisce intorno alla dicotomia pubblico/privato dove vige il principio di due pesi e due misure. I ricchi non usano l’Nhs, il sistema sanitario pubblico, non fanno la fila per mesi per fare la chemio, non mandano i figli alla scuola pubblica, a stento usano la metro… I ricchi abitano la Londra del settore privato dove tutto funziona, tutto è sicuro e tutto è costosissimo.

Per chi, come i residenti della Grenfell Tower, sopravvive all’interno del settore pubblico Londra è invece un inferno: sovrappopolata, con lavori sottopagati, sporca e con sempre meno servizi pubblici. Con la scusa dell’austerità i governi conservatori, e ahimè, prima di loro anche quelli laburisti, hanno tagliato i fondi al settore pubblico e fatto orecchie da mercante alle proteste dei residenti delle case popolari. Grenfell Tower è solo la punta dell’iceberg, ce ne sono centinaia di migliaia di edifici simili in tutto il Regno Unito pronti a prendere fuoco per un corto circuito.

La rabbia dei sopravvissuti è diretta verso tutti questi governi che si sono avvicendati dagli anni Ottanta in poi, una classe politica che ha tagliato le tasse ai ricchi, ha aperto le frontiere agli stranieri e quando l’economia ha iniziato a perdere quota ha introdotto politiche di austerità sulla pelle dei meno abbienti e dei poveri. Comportamenti ingiusti che hanno prodotto la tragedia di Grenfell.

La voce dei sopravvissuti è la voce di una nazione che vuole cambiare, che è stufa delle promesse da marinaio dei governi e che vede di buon occhio le proposte ‘socialiste’ di Corbyn, perchè da sempre abita nel settore pubblico, l’unico che conosce, ma anche non ne può più di un’Europa guidata da politici che di loro non ne vogliono sapere.

 

Gas, la Russia si espande ad Est (grazie anche ai ghiacci che si sciolgono)

 

Stiamo assistendo ad un’enorme espansione di forniture di gas russo verso l’Asia che minerà – se ce ne fosse bisogno! – il raggiungimento di emissioni di CO2 previste dall’accordo di Parigi. anche se è vero che al momento il metano non spicca ai primi posti del paniere energetico cinese – 62% carbone, 19% petrolio, 13% fonti non fossili e 6% gas – è anche vero che entro il 2030 dovrà salire al 15% e l’import, già entro il 2020, dovrebbe raddoppiare. L’intenzione è di coprire l’aumento di domanda con la produzione interna. Insomma, la Cina è interessata all’oro blu russo con prudenza, tant’è vero che Gazprom e l’omologa cinese Ncp hanno firmato sì un’intesa di massima per una seconda linea dalla Siberia – lo spezzone occidentale da 30 miliardi di metri cubi l’anno – ma senza arrivare ad un accordo commerciale. Per inquadrare il nocciolo della contesa basteranno due dati tratti da ...

Cina, un colpo a Trump: cade la diga di Panama, Pechino conquista il Canale

Cina, un colpo a Trump: cade la diga di Panama, Pechino conquista il Canale
Isabel de Saint Malo, vicepresidente e ministra degli Esteri panamense, con il collega Wang Yi si scambiano gli accordi diplomatici (afp)

 

Panama ha deciso di rompere le relazioni diplomatiche con Taiwan per stringere un legame con la Cina, che allarga sempre più la sua sfera di influenza sull'America del Sud. Un avamposto fondamentale per allargare la Via della seta, mentre la Casa Bianca minaccia di ridiscutere il Nafta

PECHINO - "Oh mamaçyta Panama dov'è": e chi l'avrebbe mai detto che Ivano Fossati avesse anche doti di preveggenza geopolitica? "Signori ancora del tè / Il nostro porto di attracco darà segno di sé". E adesso hai voglia a ordinarne del tè, ora che in quel porto attraccano appunto i cinesi, quelli della terraferma. Ciao ciao Taiwan: il Canale volta le spalle all'isola che reclama la propria indipendenza e si getta tra le mani di mamma Cina. Ecco che cosa significa lo storico voltafaccia di Panama a Taiwan: la via della seta di Xi Jinping si spinge ancora più a ovest, alle porte dell'America di Donald Trump, la Cina seconda potenza mondiale occupa il Canale che poco più di un secolo fa, 15 agosto 1914, era stato aperto proprio con la benedizione (e la costruzione) degli Usa. Allora ci passavano mille imbarcazioni all'anno: alla fine del decennio scorso erano oltre 15mila. Ma il passaggio più importante e recente, nei 77 chilometri percorribili in sei ore, porta una data che con il senno di poi cambierà tutto: 26 giugno 2016, un mostro dei trasporti targato Cosco Shipping, cioè il colosso delle spedizioni made in China, è la prima imbarcazione a tagliare il Canale appena rinnovato. Un segnale chiaro e forte, sottolineato dalla presenza di una delegazione di una trentina di politicanti e supermanager di banche e big industriali. Un segnale che aveva infatti inquietato mica poco Tsai Ing-wen, la leader di Taiwan che non si piega a Pechino e che proprio pochi giorni prima aveva scelto lo stato del Canale per la sua prima visita da presidente.

Adesso sono rimaste praticamente una ventina le nazioni che riconoscono Taiwan come Cina: in Europa c'è soltanto il Vaticano, in Africa il Burkina Faso e lo Swaziland, in America del Sud c'è il Paraguay. Soltanto in America Centrale resta appunto il gruppone delle isole che non ha seguito il resto del mondo: come perfino l'allora nemico numero uno, gli Stati Uniti d'America, fecero con Richard Nixon, dopo che già l'Onu nel 1971 aveva mollato Taipei per scegliere Pechino. Ma un conto era Sao Tome, che pure ha tradito Taiwan per la Cina popolare qualche settimana fa. E un conto sono il Belize, il Nicaragua, l'Honduras, Haiti piegata prima dal terremoto e poi dal colera: ma volete mettere l'importanza di "annettersi" Panama. Il Canale è la porta per quel Sudamerica che Xi il Grande ha già deciso sarà il prossimo terreno di conquista della nuova via della Seta che non conosce confini. Basta qualche numero: se il commercio tra Usa e America del Sud dal 2000 a oggi è raddoppiato, quello con la Cina è cresciuto addirittura per 22 volte. La mano larga di Pechino si riconosce anche nella concessione dei prestiti: 231 milioni nel 2005, 30 miliardi dieci anni dopo. Più chiaro di così. Il Brookings Institute ha realizzato perfino una sorta di libro rosso per illustrare i rischi, per l'economia americana, dell'avanzata appunto della Cina Rossa fin lassù.

E d'altronde: Donald Trump minaccia di ridiscutere il Nafta, gli accordi commerciali interamericani? Ecco Pechino pronta a cavalcare la leadership dei paesi del Pacifico: l'Oceano che parte dal Mar della Cina e si estende appunto fino a Cile e Argentina. La caduta di Panama, dunque, non è solo l'ultimo colpo ai sogni di indipendenza di Taiwan: è l'ultima sfida della Cina all'egemonia americana in terra, oh yes, d'America. "Oh mamaçyta Panama dov'è": è dove finisce l'America, e ricomincia la Cina.

G7, dietro lo scontro Merkel-Trump c’è la ribellione della Germania all’ordine mondiale post-1945

Donald Trump, primo (ed assai impopolare) presidente dell’Usastan (20-01-2017)


Il nostro territorio, le nostre basi, i nostri soldati (che saranno inviati in Est Europa) e la salute dei nostri connazionali non possono essere ostaggio di giochi di potere e degli umori del presidente americano di turno.

Atene in piazza contro la nuova austerità, quel macabro gioco dell’oca nel risiko greco

Manchester, kamikaze al concerto dei teenager
“Uccisi in 22. Anche bambini tra le vittime”

Svolta dopo 7 anni nella vicenda Assange:
la Svezia ritira le accuse di stupro

Può uscire dall'ambasciata dell'Ecuador dopo oltre 4 anni.
Ma Scotland Yard: "Lo arresteremo, ci sono altre accuse minori"

 

Chelsea Manning: 'Eccomi'. La prima foto da donna libera dell'ex soldato di Wikileaks

 

Chelsea Manning: 'Eccomi'. La prima foto da donna libera dell'ex soldato di Wikileaks

 

Globalizzazione e sradicamento, l’economia ci toglie tutto, di Diego Fusaro

Elezioni Francia, vincono Macron e gli euroinomani, di Diego Fusaro

2016:lo stallo spagnolo,l'Austria ai Verdi,Brexit (26-6),colpo di stato in Turchia. In Colombia le FARC rimangono in guerra, in Francia si tenta di bloccare il Job Act

 

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Finlandia, crisi senza fine: ecco perché rischia di diventare la Grecia del Nord

Finlandia, crisi senza fine: ecco perché rischia di diventare la Grecia del Nord
(afp)

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Cina, la provincia fallita che ha gonfiato per anni i dati economici rafforza i dubbi su attendibilità dei numeri sulla crescita

Il Liaoning ha tenuto in vita decine di imprese zombie che ricevevano sussidi con l'intercessione di politici locali. I quali in cambio chiedevano loro di emettere false fatture in modo da gonfiate i dati sulle entrate fiscali. I nodi sono venuti al pettine a fine 2016, quando il Congresso provinciale è stato azzerato per frodi elettorali. Ma non è finita: le aziende, per finanziare il debito, emettono obbligazioni il cui tasso di interesse è tenuto artificialmente basso.

 

 

 

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M.orte entrambe, non si sa in quali circostanze. Le notizie che filtrano dalla stampa giapponese hanno un’unica certezza: le due donne sospettate dell’uccisione per…
ILFATTOQUOTIDIANO.IT
 
 
 
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POLITICA ITALIOTA

 

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Il fascismo dell’odierno antifascismo. Lettera a Fiano

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Da l’Unità a La Padania, fino a Europa e Liberazione. Storie politiche profondamente diverse, ma con un minimo comune denominatore: si tratta di…
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Banca Etruria, la Boschi non osa
querelare de Bortoli: Ghizzoni direbbe
come sono andate le cose nel 2015

 

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Sul Fatto del 23 maggio: Boschi non querela de Bortoli. Il libro è in testa alle classifiche

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SUCCESSO M5S DELUSIONE PD Pd perde 180mila voti nelle grosse città

Addio Pannella, il leader radicale morto a 86 anni
Così ha cambiato l’Italia restando in minoranza(19-05-16)

 
 
Riforme, via libera al Senato dei nominati Dissidenti Pd e Fi non votano, M5S fuori
 
 
Primo via libera alla riforma del Senato. Con 183 voti a favore Palazzo Madama dice il primo sì al provvedimento, dopo settimane di polemiche e scontri. Non partecipano Lega Nord e Sinistra ecologia e libertà. Il Movimento 5 stelle e Augusto Minzolini, tra i critici di Forza Italia, lasciano l’Aula, mentre a sinistra è Vannino Chiti ad annunciare il non voto dei dissidenti Pd. Romani (Fi) rivendica: "Senza Forza Italia, Renzi non avrebbe avuto maggioranza" (video). Calderoli: "Ddl è incostituzionale" (video)

 

 

 

 

STORIA DI LIBIALIA

 

LA PROGRESSIVA CADUTA DI LIBIALIA

DALLE DUE SPONDE DEL  Mediterraneo alla RIDOTTA DI    MEDIASET IN ROSSO ESTREMO; STA FINENDO UN'EPOCA (leggi in Internotizie Mobile)

Il 20 ottobre 2011 cosi' l'ex Cavaliere stigmatizzava l'uccisione del suo amico Gheddafi: Sic Transit Gloria Mundi. Valeva per gli altri naturalmente non per lui. Poi arrivo' lo SPREAD a 575, l'orlo del default Italiano, le dimissioni da Premier, la condanna definitiva nel 2013 a 4 anni di carcere, la decadenza da senatore, l'affidamento ai servizi sociali,il passaggio all'opposizione, il fallimento del Patto del Nazzareno che doveva resuscitarlo con la salita al Quirinale di Mattarella, il crollo dei sondaggi di Forza Italia, il crollo della squadra di calcio, la perdita di iniziativa dopo vent'anni, l'inizio dell'assedio al suo impero: SKY, NETFLIX ed ora il feroce BOLLORE' dall'interno....

 Dalla cessione del Milan, per 540 milioni di euro, alla cessione di tutti gli sfizi dell'ex imperatore: la figlia Marina impone una poderosa spending review per rastrellare liquidità neccessqaria a respingere Bollorè. Il padre può continuare a fare politica....gli rimangono "solo" i beni personalissimi non rientranti nella holding

Non solo il Milan: la holding dei Berlusconi cede yacht, campi da golf e cinema. Ma intanto la scommessa di Pier Silvio su Premium affonda il bilancio di Mediaset

Basta sprechi e sfizi. La vecchia Fininvest targata Silvio Berlusconi – fatta di ville da mille e una notte, yacht ai Caraibi e milioni buttati nel calcio – è finita. L’ex-Cav può continuare ad occuparsi di politica e agnelli pasquali. Ad Arcore è iniziata l’era di Marina. Parola d’ordine: niente soldi gettati al vento. Linea strategica: tagliare i rami secchi – ultimo il Milan - e concentrare il Biscione sui business storici e più redditizi. Con un unico dubbio: da che parte mettere Mediaset, dopo il rosso da 300 milioni aperto nei conti dalla guerra con Vivendi.

La rivoluzione “morbida” della primogenita è partita da un paio d’anni con il turbo: la scure dell’austerity è caduta sulla flotta di famiglia e sulla Berlusconi Airlines. A dieta sono finiti golf e residenze di papà. E la dote del new deal - quasi 700 milioni di liquidità – è davanti a un bivio: diventare l’arsenale per difendere Pier Silvio dall’assalto di Vincent Bolloré («un cannibale della finanza», dice sobria la sorella maggiore) o il tesoretto per garantire dividendi – il vero collante di famiglia - ai piani alti dell’impero. Dove Barbara, Eleonora e Luigi seguono con un filo d’apprensione il braccio di ferro di Cologno con i francesi.

La spending review di Marina non ha risparmiato nessuno degli optional accumulati negli anni d’oro da Silvio. L’addio ai rossoneri - costati 150 milioni solo nel 2015 - è solo l’ultimo capitolo. Il Morning Glory, trialberi a vela da 48 mt. battente bandiera delle Bermuda, è stato liquidato con una perdita di 3,8 milioni. Un jet è stato venduto, un altro è stato pensionato dopo un incidente tecnico incassando i soldi dell’assicurazione (1,35 milioni). Il nuovo Gulfstream 450, l’ammiraglia volante di Arcore, è stato comprato dividendo i costi con i Gavio. All’asta sono finiti il golf di Tolcinasco e un paio di cinema a reddito zero. E persino nell’immobiliare - primo amore di famiglia – è tornato a prevalere il realismo: Villa Gernetto, la residenza comprata dall’ex-Cav. per farne un’università con insegnanti come Bill Clinton e Tony Blair, è stata declassata a bene in vendita dove si fanno solo «investimenti per il consolidamento statico». Buono al massimo - in attesa di un compratore e degli illustri ospiti internazionali - per un meeting dei “seniores” ultra65enni di Forza Italia.

Eliminate le palle al piede mangia-soldi, Fininvest ha dato una lucidata all’argenteria di famiglia: arrotondando la quota in Mondadori, spendendo 150 milioni per salire al 39% di Mediaset e arginare Bolloré e puntando nel mattone sull’Immobiliare Leonardo. Non la solita villa a 5 stelle, ma 180mila mq. di cemento a Basiglio che grazie a un aiutino della Regione Lombardia potrebbero essere edificati tra breve.

Il vero problema di Marina è adesso un altro: il rischio che nella lista delle palle al piede possa entrare Mediaset, il regno del fratello Pier Silvio. Lui, solo 12 mesi fa, sembrava essere riuscito a fare il miracolo: cedere a Vivendi – e pure a caro prezzo - Premium. Un’avventura nata «per evitare che Sky creasse un monopolio in Italia» – come dice l’ad del gruppo - ma diventata strada facendo un incubo. Il pareggio operativo, previsto nel 2011, non è mai arrivato. Le perdite accumulate non sono lontane dal miliardo. E i 700 milioni spesi per aggiudicarsi la Champions, invece che salvare la barca, l’hanno affondata. L’assegno staccato dai francesi aveva risolto il problema. Ora il loro voltafaccia l’ha aggravato, riaprendo la dialettica familiare ad Arcore su come utilizzare la liquidità del Biscione.

E Silvio? Lui è sfuggito all’austerity. Un po’ dei suoi sfizi, Villa Certosa in primis, sono fuori da Fininvest. Nessun blitz, per dire, è previsto in Costa Smeralda. Anzi. L’ex premier ha appena fatto richiesta al Comune di Olbia per costruire - vicino al vulcano artificiale - una «struttura amovibile in legno per attività ludica». Di cosa si tratti, lo scopriremo la prossima estate.

L'Impero sognato nel 2008 dal Califfo Nostrano, che doveva abbracciare le due sponde del Mediterraneo con la benedizione di Putin, ormai ai titoli di coda. La squadra di calcio ed il partito non "tirano" più, le televisioni non riescono più a fare da cinghia di trasmissione tra "idee del centro" e parco buoi. I figli sono in guerra per spartirsi i beni ed il Re del Bunga Bunga ha capito che i 150 milioni di euro versati al San Raffaele per l'elisir d'immortalità non sono valsi ad un cazzo. Piano piano tutti escono di scena: Fede, Geronzi, Dell'Utri ( in carcere per concorso esterno in associazione mafiosa), Ligresti, Bondi, Verdini, le Olgettine, tutte le sue troione: Fi, la senatrice Rossi 
lascia il posto di tesoriere
.... Ma il Merdan ad un certo punto si ritrovo' al secondo posto in campionato con una squadra fatta di pagherò e pizzini, ecco che dalla tomba di Arcore riemerge IL MUMMIA.
E con loro il suo presidente, nel calcio e persino in politica, dove è ritornato in auge (mediatica) in vista del referendum. Peccato che sia tutta o quasi una speranza destinata a svanire.

C’è qualcuno che gufa sulla trattativa per la vendita del Milan ai cinesi. No, non sono i tifosi della Juventus, a cui magari sarà venuto qualche brutto pensiero a vedere i rossoneri al secondo posto in classifica, e magari temono che i rivali possano rinforzarsi pericolosamente sul mercato con i capitali dell’est e lottare davvero per lo scudetto. E non sono neppure i cugini dell’Inter, già finiti da tempo nelle mani dei cinesi ma depressi per l’andamento dell’ennesima stagione fallimentare. A tifare contro il closinge la cessione definitiva della società è proprio l’uomo che dovrebbe venderla e incassare complessivamente 740 milioni di euro: Silvio Berlusconi.

Dalla vigilia di Milan-Inter in poi è stata un’escalation di dichiarazioni: da “non so se sarà il mio ultimo derby”, a “se salta il closing potrei tenermi il Milan con molto piacere. Punteremmo su una squadra tutta italiana e molto molto giovane”. Fino ad ammettere candidamente alla confidente Barbara D’Urso: “Quasi quasi me lo auguro”. Rieccoci qua: il Milan è secondo e lui si è ringalluzzito. Tutto parte infatti da quella posizione in classifica, impensabile ad inizio campionato. Il lavoro di Montella, però, l’esplosione di un paio di ragazzini, soprattutto la mediocrità di una Serie A che fa una fatica terribile a trovare un’avversaria credibile per la Juventus (la Roma balbetta, il Napoli non è più lui da quando ha perso Milik, l’Inter è dispersa), hanno resuscitato il Diavolo che sembrava morto e sepolto. Aggiungiamo che i cinesi stanno avendo qualche problema di troppo a chiudere l’affare e non è difficile capire cosa stia passando nella mente del vecchio proprietario.

Il Milan è di nuovo insperato protagonista. Per ora. E con lui il suo presidente, nel calcio e persino in politica. In queste settimane Berlusconi sta vivendo una specie di seconda (facciamo pure terza, o quarta) giovinezza, un’ultima ondata di sovraesposizione mediatica, tra i successi dei rossoneri e la campagna verso il voto del 4 dicembre. E questo ha ravvivato la sua nostalgia per i bei tempi. Il Milanvince? Allora quasi quasi se lo tiene. Arriva il referendum? Magari si ricandida alle prossime elezioni. Come un vecchio che non vuole arrendersi al tempo che passa e mollare l’osso: il suo (costosissimo) giocattolo e il suo lavoro, le due passioni di una vita. I figli lo invitano a vendere, a farsi da parte, godersila meritata pensione. Lui acconsente, la ragione gli dice che è la cosa giusta da fare (infatti il closing, previsto per il 13 dicembre, dovrebbe essere solo rinviato a fine gennaio: la cessione resta la prima opzione, la più sensata). Salvo fare le bizze e puntare i piedi alla prima occasione utile, per la voglia di essere ancora l’uomo che vince “nel pallone e nella vita”.

Peccato che sia tutta o quasi un’illusione. Anche due anni fa di questi tempi (quando c’era Inzaghi in panchina) i rossoneri arrivarono alla sosta in piena corsa per l’Europa, salvo poi crollare nel girone di ritorno. Prima o poi Suso smetterà di essere il Messi della Serie A, Montella dovrà fare i conti con i limitidi una rosa corta, con pochi cambi e diversi buchi in ruoli chiave. E allora riemergeranno tutti i problemi di gestione di una società che non si può mantenere senza investire cifre che la famiglia Berlusconi non può o non vuole più permettersi. Già al prossimo mercato di gennaio, quando allenatore e tifosi reclameranno rinforzi, i nodi potrebbero venire al pettine. Esattamente come, passata la sbornia referendaria che ha regalato a tutti un briciolo di visibilità, saranno gli altri pesci grossi a giocarsi l’eredità del risultato (qualsiasi esso sia). Ma non ricordatelo a Berlusconi: il suo Milan è di nuovo grande, magari tornerà anche Forza Italia. E la musica dance degli Anni Novanta.

Berlusconi? “Corruttore, bugiardo, sadico”
Da Fini a Bondi, il duro ritratto degli ex

Senatori comprati, la morte della politica.

La svolta nel partito col tramonto
del 'cerchio magico' di Berlusconi

•CONDANNA PER FRODE FISCALE: “IDEATORE DEL SISTEMA ILLECITO”

•ASSOLUZIONE PER IL CASO RUBY. GRAZIE A UNA LEGGE CAMBIATA

•DELL’UTRI “DECISIVO PER ACCORDO MAFIA-BERLUSCONI”

VIDEO – FINE DI UN’ERA: LE DIMISSIONI NEL NOVEMBRE 2011

•L’ANTICIPAZIONE: LA “CONFESSIONE”NEL LIBRO “BISOGNA SAPER PERDERE”

 

L'ASSALTO ALLA DILIGENZA BERLUSCONI. L'IMPERO DI LIBIALIA AI TITOLI DI CODA:

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La vera storia :da Libialia all'assedio in casa sua dell'ex amicone Bollorè.La corsa col cappello in mano alla giacchetta di Renzi per una leggina ad hoc che lo salvi dall'essere spolpato,la sua specialità gli si ritorce contro senza più lo scudo del calcio e del partito azienda. Rimangono i rami secchi, ma con quelli ci fai zero......

La scalata di Vivendi a Mediaset si sta rivelando la partita della vita per il Cavaliere. Non è in gioco solo il controllo del colosso televisivo, ma anche il futuro degli eredi. Che come manager operativi presentano finora un bilancio negativo

palcoscenico di questo “Natale in casa Berlusconi” il presepio è un campo di battaglia. I Re Magi venuti da paesi lontani, il bretone Vincent Bolloré di Vivendi, il mediatore tunisino Tarak ben Ammar e l’australiano Rupert Murdoch di Sky, portano doni di dubbio gusto alla grotta di Arcore. E Silvio si trova sotto assedio proprio quando iniziava a rivedere un raggio di luce in fondo alla galleria dell’emarginazione politica e dei problemi di salute.

Gli amici per resistere al raid dei francesi di Vivendi, che li si conti o li si pesi, si sono rarefatti. Fra questi, c’è il neopremier Paolo Gentiloni, che già da ministro delle Comunicazioni con Romano Prodi (2006-2008) firmò una riforma del settore tv non troppo dura con le reti Fininvest. C’è l’Agcom, tradizionale vaso di coccio deciso a sostenere la strategicità dell’asset Barbara D’Urso nel quadro dell’imprenditoria nazionale. Ci sarà la Consob a chiudere la stalla dopo che i buoi sono scappati. E contro Bolloré è stato chiamato in soccorso il Maligno in persona, la Procura di Milano. Forse non basterà.

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Berlusconi: ‘Non m’importa un cazzo del Senato, accordo con Renzi è su Italicum e giustizia’

 

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Pa, Madia: “Blocco turnover ingiusto ma la crisi pesa”. Pin per i servizi dal 2015

Il ministro spiega le linee guida del disegno di legge delega sulla riforma della Pubblica amministrazione: "Stop alle carriere automatiche: si andrà avanti solo per merito". Sul piano dei contenuti, un solo ufficio territoriale del governo per uscire "dall'idea della frammentazione"

Pa, Madia: “Blocco turnover ingiusto ma la crisi pesa”. Pin per i servizi dal 2015

 

 

 

Allarme demografico in Italia: nascite restano al minimo dall'Unit� d'Italia. Picco dei decessi dal dopoguerra

I dati dell'Istat. La popolazione residente in Italia si riduce di 139 mila unit�. Al 1 gennaio 2016 i residenti erano 60 milioni 656 mila. Centomila italiani (+12,4%) hanno lasciato Paese

 

 

 

 

 

 

 

POLITICA ED ECONOMIA EUROPEA

 

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 IMPUNITA' GIUDIZIARIA

 

 

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Quattro ore di camera di Consiglio per i giudici della X sezione. Condanne per un totale di 287 anni
ROMA.REPUBBLICA.IT
 
 
 
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Camorra nostra’, oltre Gomorra: quando Cutolo pisciò addosso a Totò Riina
“Bevi. Famm capi si me pozz fida e te”. Questa frase è diventata un classico del genere crime, pronunciata dal boss Pietro Savastano al giovane rampollo Ciro Di Marzio in una puntata della serie Gomorra. ‘Bevi, devo capire se posso fidarmi di te’ un giuramento mafioso 2.0, un patto di fedeltà e affiliazione. Il piscio come segno di legame indelebile. Savastano urina in un bicchiere e offre a Di Marzio la sua escrezione. Protetto da una vetrata il vecchio boss guarda il mondo della notte dall’alto e, intanto, riempie il calice. Si gira e lo offre a Ciro l’immortale perché lo beva fino all’ultimo goccio. E’ l’esame finale del malacarne, l’ingresso nella famiglia, l’inizio dell’ascesa.
Non c’è la formula di rito classica, c’è questa moderna opera di affiliazione a metà tra fantasia e realtà. Ecco, appunto, la realtà. Chi la racconta rischia di finire relegato alle pagine ultime dei giornali o in recensioni senza rilievo. Perché il ‘piscio’ in questo mio post è un mezzo per transitare dalla fiction alla saga vera dei clan che hanno insanguinato territori stringendo patti con imprenditoria e politica. Alleanze antiche che ancora oggi mostrano le loro nefaste conseguenze. C’è un libro Camorra nostra, edito da Sperling e Kupfer, scritto da Giorgio Mottola, giornalista della trasmissione Report, che ribalta conoscenze diffuse su alcuni omicidi, sulla genesi e sugli affari della camorra assegnando un ruolo decisivo alla mafia siciliana. Un libro che parte da una confessione dell’ex boss dei Corleonesi Franco Di Carlo e la correda con documenti giudiziari, fonti testimoniali e ricerca estenuante di riscontri. Incroci e verifiche, un’inchiesta vecchio stile, roba antica e senza futuro in questa nostra professione che vive la stagione della precarietà e dei tuttologi, vestiti di niente.
Mottola aggiorna pagine di una camorra, che nasce negli anni Sessanta, quella degli Zaza, dei Nuvoletta, dei Bardellino ma anche quella dei Mallardo raccontando Napoli come ufficio del crimine distaccato rispetto alla casa madre siciliana, ma mai sottomesso. I napoletani erano affiliati, associati, ma erano “una cosa sola: uguali diritti ed eguali doveri”. E Di Carlo spiega: “Non chiamatela camorra. E’ cosa nostra”. Visione che meriterebbe approfondimento e dibattito così come diversi episodi inediti riportati nel testo. Di influenze e rapporti era già stato scritto, ma il libro prova a spiegare come i siciliani abbiano contribuito a rifondare la nuova camorra, indirizzandola verso differenti ambiti di interesse economico e plasmandone la mentalità mafiosa”.
La camorra avrebbe subito, insomma, le dinamiche di alleanze, scontri e omicidi che si consumavano in Sicilia dove la mafia di Stefano Bontate veniva spazzata via da quella stragista e violenta di Totò Riina, il dominus dei corleonesi. I venti di guerra sull’isola soffiano anche in terra campana con regolamenti di conti e mattanze.
In questa opera di ricostruzione c’è un episodio, tra i tanti, meritevole di attenzione.
Ho iiziato tratteggiando una scena di piscio offerto in segno di fedeltà e chiudo con una scena di piscio che è, invece, sfida e irriverenza. C’era un criminale, spietato e crudele, che ha creato il welfare della camorra, che non ha mai pensato di affiliarsi alla mafia e quando ha incrociato ‘i siciliani’ li ha sfidati a duello come nelle vecchie contese a colpi di ‘molletta’. Si chiama Raffaele Cutolo, oggi rinchiuso nel carcere di massima sicurezza di Parma. Cutolo, fondatore della nuova camorra organizzata, una criminalità che si spacciava per riscatto di popolo e non sponda violenta della borghesia al comando, osò sfidare addirittura il capo dei capi. Un episodio che, in esclusiva riporta nel suo libro Mottola, non ha avuto la fortuna della scena di Gomorra, ma che è verosimile e avrebbe dovuto, in realtà come il libro, godere di spazio e luoghi di dibattito. Se avete un altro minuto leggete questo aneddoto che vale mille scene di Gomorra.
Fine anni Settanta, vertice tra camorra e mafia. Tra i presenti c’è Raffaele Cutolo, al suo cospetto Totò Riina. Cutolo di se diceva: “Io non sono un pazzo scemo, sono un pazzo intelligente”. Camorrista ideologo oltre che spietato e crudele. Riina, invece, è solo sangue e strage, tradimenti e tragedia. La sua cifra per arrivare al potere assoluto.
Cutolo di affiliarsi non ha nessuna intenzione e Riina gli punta una pistola alla testa. Cala il gelo in sala. Cutolo non si muove, non fa una piega. Fissa negli occhi Riina e gli dice: “O spari o ti piscio sulla pistola”. Il capo dei capi si ritrae, ma se pensate sia finita così non avete capito chi è stato Cutolo. Un boss, al quale si rivolgevano i servizi segreti e pezzi dello Stato, non ammaina presto la bandiera dell’orgoglio. E qui arriva l’impensabile. Riporto le parole di Mottola. “Cutolo, però, aveva solo iniziato la sua sceneggiata. Si alzò e, piantandosi di fronte a Riina, aprì la patta e gli pisciò la scarpa”. Proprio così. Fossimo stati in Gomorra a Cutolo avrebbero fatto dire: “Tien e scarp sporche, mo’ te lav” (hai le scarpe sporche, ora le pulisco). Ma questa è la realtà, verosimile certo, visto che l’episodio è stato raccontato da Cutolo in un interrogatorio, ancora oggi secretato. Un libro, Camorra nostra, da leggere non solo per il piscio di sfida, ma perché è un’inchiesta, genere in via di estinzione.

Angelo Epaminonda, morto a 71 anni il “Tebano”: l’ultimo re della mala milanese

Fu uno dei primi "pentiti", ma anche uno dei primi gangster metropolitani insieme a Francis Turatello e a Renato Vallanzasca. Tra gli anni Settanta e Ottanta, insieme ai suoi "indiani", controllava il gioco d'azzardo e il traffico di droga e poteva contare sui buoni contatti con la mafia che conta. Il suo decesso risale ad aprile, ma la notizia è emersa solo adesso

Uno degli ultimi re della mala milanese se n’è andato. Lo ha fatto nell’ombra, dove ormai viveva da tempo. Lontano dalla vecchia vita e dai vecchi giri. Dagli omicidi, dalla droga, dalle sue bische. Fuori dalla galera. Da uomo libero in una località protetta del Centro Italia. Con un’identità tutta nuova. Come capita ai collaboratori di giustizia. E Angelo Epaminonda, il “Tebano”, a Milano era stato uno dei primi a “pentirsi”, a “cantarsela”, a “tradire”. Ma il “Tebano” era stato soprattutto uno dei primi gangster metropolitani insieme a Francis Turatello, Faccia d’Angelo”, e al “Bel René”, Renato Vallanzasca. Protagonisti di una stagione storica e di passaggio per la criminalità meneghina. Trait d’union tra banditi di una ligera ormai al tramonto e boss legati a una mafia sempre più in ascesa. Epaminonda è morto a 71 anni ad aprile. Ma la notizia della sua scomparsa è emersa solo adesso, grazie a una nota del Servizio centrale di protezione dei collaboratori di giustizia. A fine novembre, infatti, Epaminonda doveva presentarsi in aula a Milano per testimoniare al processo per l’omicidio del procuratore di Torino Bruno Caccia, ma ormai se n’era già andato.

Il miglior modo di conoscere la sua storia è quello di raccontare la storia criminale di Milano, suo regno incontrastato a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta. La capitale morale del Paese ha sempre corso veloce, bruciando i tempi, anticipando costumi e stili di vita rispetto alle altre città. Il suo lato nero non è stato da meno, riuscendo a mantenere lo stesso passo. E’ sempre stato così. Dopo la guerra, mentre altrove le ferite non sono ancora rimarginate, il boom economico sotto la Madonnina è già scoppiato. E allora, dove volete che si trovasse la “grana” se non qui? Quelli delle “tute blu” lo sanno bene. Il 27 febbraio 1958, questa banda di criminali comuni, ex partigiani e “terroni”, mette a segno la rapina di via Osoppo. “La rapina del secolo” la battezzano subito i giornali. Un piano perfetto per un colpo milionario: 580 milioni di lire senza sparare un colpo. Il “capolavoro” della ligera: la vecchia malavita milanese che tra le sue fila conta ladruncoli, rapinatori, “papponi”, biscazzieri, allibratori e truffatori di ogni razza. Mezze tacche, se paragonati ai gangster americani o ai padrini di Cosa nostra. Una malavita “leggera”, appunto. Quella cantata in canzoni come Porta Romana bella e Ma mi. Dove esistono rapinatori come Luciano Lutring, il solista del mitra, che lascia i soldi per il taxi alle impiegate della banca appena svaligiata. Personaggi destinati a estinguersi. Perché i tempi cambiano. E a Milano cambiano ancora più velocemente. Anche se la spinta del boom è finita da un pezzo, qui ci sono sempre più soldi, sempre più lavoro e sempre più voglia di divertirsi. La città criminale è costretta ad adeguarsi ai tempi che corrono e si ingegna per soddisfare le richieste del mercato. Accanto alla buona borghesia cresce una nuova generazione di criminali: più spregiudicati, più ambiziosi, più violenti. Imprenditori e banditi con buoni quarti di nobiltà criminale entrano in contatto. Nelle bische e nei night inizia ad estendersi quella zona grigia che salda interessi, amicizie e connivenze. Tutti vogliono vivere alla grande. Tra tavoli verdi e coca. Belle macchine e donne.

Tra loro c’è anche Angiolino il Tebano, che deve il soprannome all’omonimia con quell’Epaminondache guidò Tebe contro gli spartani. Figlio di immigrati catanesi arrivati dopo la guerra a Cesano Maderno, in Brianza, ad Angiolino piace la bella vita. Vuole scrollarsi di dosso la povertà che si porta dietro da quando è nato. Ma il suo non è un riscatto politico come quello rivendicato dalla banda di Pietro Cavallero, rapinatori comunisti in trasferta da Torino che colpiscono le casseforti del Capitale: le banche. E che a Milano lasciano sui marciapiedi tre morti ammazzati durante un inseguimento con la polizia. E’ il 25 settembre 1967, la rivolta inizia a deflagrare in tutta Italia. Milano è un laboratorio di lotta e di terrore. Qui le contraddizioni della nuova Italia post industriale sono più evidenti che altrove. Qui nasce il Collettivo Metropolitano, embrione delle Br. Qui nasce la strategia della tensione inaugurata con la madre di tutte le stragi, quella di Piazza Fontana. Ad Angelino però interessa solo mettere le mani su una fetta di ricchezza che gli spetta. Ma al lavoro preferisce le bische. Entra presto nel giro che conta. Si fa le ossa all’ombra di un pezzo da novanta come Francis Turatello, il signore del gioco d’azzardo e della droga, forte dei contatti con il clan dei marsigliesi e con i boss di Cosa nostra e camorra. Diventa il suo braccio destro, anche se poi verrà sospettato di essere il mandante del suo spietato omicidio nel carcere di Badu ‘e Carros per mano del killer di Raffaele Cutolo, Pasquale Barra. Un’esecuzione spietata di cui nessuno ha mai capito il movente. Con Faccia d’Angelo uscito di scena nel 1981, è Angiolino a prendere in mano il business del gioco d’azzardo, della cocaina e dell’eroina che inonda i salotti e le strade di Milano. Non solo. Perché Turatello gli lascia in eredità le buone entrature con la mafia che conta. E così, mentre i ragazzi di malavita della Magliana iniziano la loro personale conquista di Roma, nella capitale del Nord, il Tebano e i suoi “indiani” diventano i padroni di una piazza sempre più grande da spartirsi con quelli della Comasina capeggiati dal Bel René.

Strada e salotti. Angiolino non dimentica da dove viene, e sa come comportarsi negli ambienti che contano. Un mucchio di soldi inizia a girare nelle mani della sua banda. E quando ci sono tanti soldi di mezzo è più facile che qualcuno litighi. E’ il periodo in cui a Milano si conta una media di 150 omicidi all’anno. Angelino si macchia di una delle mattanze di quella stagione. Nell’inverno 1979, in via Moncucco, vengono uccise otto persone. E’ la strage del ristorante “La strega“. Conti da regolare per il controllo del gioco e della droga. Nell’84 però il suo impero crolla. Viene arrestato e inizia a parlare. Confessa 17 omicidi. Aiuta gli inquirenti a ricostruirne altri 44. Fa nomi di sodali e di colletti bianchi. Di politici e di giudici. Diventa uno dei primi “pentiti” su al Nord. Le sue parole portano al primo maxiprocesso a Milano. Lui intanto viene condannato a 29 anni, anche se la maggior parte li sconta agli arresti domiciliari in località segrete. Nel 2007 torna ad essere un uomo libero. Anche se non potrà mai riacquistare la sua vera identità perché in tanti ancora lo odiano. Nel giro è ancora considerato un “infame”. Lui lo sa, lo scrive nella sua autobiografia: “Io, il Tebano“. Sa anche che non bastano i decenni a lavare una macchia come quella. Lui ha parlato, Turatello è morto con la bocca cucita. Gli affari si regolano secondo un codice e Angiolino quel codice l’ha infranto. Riesce comunque a costruirsi una nuova vita e a sfuggire ai vecchi fantasmi. Non alla morte però, che se lo è venuto a prendere nel silenzio in cui si era rifugiato.


 

 

 

FonSai, rinviati a giudizio Ligresti e l’ex presidente della vigilanza, Giannini

 

 

 

 

DISASTRO CLIMATICO E MORFOLOGICO ITALIOTA e MONDIALE

 

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 La salvezza del mondo: il Tardigrado

Al massimo raggiungo il mezzo centimetro di lunghezza, complessivamente costituiscono un gruppo di circa un migliaio di specie (finora accertate), per chi conosce meglio il mondo animale appartengono al “phylum dei protostomi celomati”: sono loro che un giorno, se mai la Terra dovesse essere colpita da un cataclisma. potrebbero portare avanti la vita finché il pianeta torni ad avere condizioni adatte ad altre specie più complesse. Sono i tardigradi.

 

Non sono esseri viventi appena scoperti, tutt’altro, ma ora uno studio della Oxford University, pubblicato su Scientific Reports ci dice quali sono le loro strabilianti caratteristiche e capacità di sopravvivenza.

Eccole:

  1. possono sopravvivere a -272 °C per qualche minuto (si ricordi che la lo zero assoluto, ossia la temperatura al di sotto della quale non si può ulteriormente scendere è -273 °C),
  2. oppure a -20 °C per decenni e all’opposto
  3. possono vivere anche a +150 °C.
  4. Il loro corpo permette loro di sopravvivere sia a pressioni uguale a zero, come quelle che vi sono nello spazio,
  5. sia a pressione di 1.200 atmosfere come si incontrerebbero sul fondo della Fossa delle Marianne a 11.000 metri di profondità sotto il livello del mare.
  6. E se manca cibo, non importa. Possono sopravvivere anche 30 anni senza toccare acqua e alcun nutrimento.
  7. E se ne fanno un baffo a livelli di radiazioni migliaia di volte superiori a quelle che distruggono tutte le altre forme di vita.

I ricercatori dicono che non si riesce a trovare quale evento catastrofico potrebbe interessare il nostro pianeta che possa distruggerli completamente. Non un asteroide (al momento non ce ne sono di noti in rotta di collisione con la Terra), nemmeno l’esplosione di una supernova nelle vicinanze del nostro pianeta (dovrebbe trovarsi a 0,14 anni luce per creare loro problemi, ma la stella più vicina si trova a 4 anni luce) e neppure i micidiali raggi gamma, tipici di esplosioni che avvengono nell’Universo di inusitata potenza, potrebbero far scomparire completamente i tardigradi.

Al di là di aver trovato i veri Highlander del nostro pianeta le caratteristiche dei tardigradi  portano ad alcune riflessioni davvero interessanti.

La prima fa ipotizzare che la vita sul nostro pianeta potrebbe rimanere quasi sicuramente fino a che il Sole si spegnerà, fra 3 o 4 miliardi di anni, indipendentemente da ciò che potrà accadere al pianeta stesso (a meno di un impatto con un corpo celeste che lo disintegri completamente).

Questo ci dice anche che se la vita sboccia su un pianeta risulta sorprendentemente resistente e dura a scomparire. Sottolinea Rafael Alves Batista, della Oxford University e fra gli autori dello studio: “È quasi certo che la vita sulla Terra può continuare a prolificare anche ben dopo di noi. I tardigradi sono molto vicini a quello che potremmo definire immortalità”.

In secondo luogo la loro esistenza fa supporre che la vita nell’Universo potrebbe esistere anche in condizioni inimmaginabili per noi uomini e forse stiamo limitando enormemente il campo entro cui andiamo a cercare la vita extraterrestre su altri pianeti, in quanto imponiamo regole che salvaguardano quasi unicamente la vita dell’uomo o al più dei mammiferi o dei rettili.La vita invece, potrebbe avere un range di condizioni estremamente più ampia. E questo è un motivo in più per cercarla altrove, su Marte, in altri luoghi del sistema solare e certamente tra i pianeti di altre stelle.

 

Clima, il Mar Caspio sta evaporando. ''A questo ritmo la parte Nord sparirà in 75 anni''

Non è la prima volta che il più grande lago del mondo perde acqua, ma ora lo sta facendo a un ritmo doppio rispetto al minimo degli anni '70, la scoperta si deve alle osservazioni satellitari. Secondo gli scienziati se non aumenterà l'apporto dei fiumi o delle piogge, tutta la sua parte meno profonda potrebbe andare perduta. ANCHE il Mar Caspio sta perdendo acqua, evapora a causa delle temperature sempre più alte: il suo livello è sceso di un metro e mezzo in circa 20 anni e continua ad abbassarsi. Il lago più grande del mondo soffre dunque l'eccessiva evaporazione e l'apporto da piogge e fiumi che è sempre più scarso. A questo ritmo tutta la sua parte settentrionale potrebbe sparire nel giro di tre quarti di secolo.
Clima, il Mar Caspio sta evaporando. ''A questo ritmo la parte Nord sparirà in 75 anni''
A preoccupare gli studiosi non è tanto il livello attuale delle acque, non è stato infatti ancora raggiunto il record negativo fatto registrare alla fine degli anni '70, quanto piuttosto il trend in picchiata, un calo di quasi sette centimetri all'anno, il doppio rispetto a 40 anni fa. La tendenza non sembra diminuire, anzi, dal 1995 al 2015 la curva è diventata sempre più ripida. Metà della colpa, secondo un team internazionale di ricercatori guidati dall'Università del Texas, autori dello studio pubblicato su Geophysical Research Letters, è da attribuire alle temperature, che sono cresciute in media di un grado centigrado tra i due periodi di riferimento (1979-1995 e 1995-2015). E che continueranno ad alzarsi, secondo gli scienziati, guidate dai cambiamenti climatici in atto. A influire però sono anche la riduzione delle precipitazioni e il contributo dei fiumi, il più grande dei quali è il Volga.

REPORTAGE Nel deserto dell'Aral, dove il lago è un ricordo

La scoperta che il mar Caspio si sta riducendo è avvenuta quasi per caso, calibrando gli strumenti dei satelliti Grace (Gravity recovery and climate experiment) della Nasa, sonde che misurano accuratamente il campo gravitazionale della Terra e che riescono a individuare e misurare la quantità di acqua presente, anche nel sottosuolo. Come una bilancia che riesce però a pesare mentre è in orbita, a quasi 500 chilometri di distanza.

LEGGI Marche, scomparso Pilato: il 'lago con gli occhiali'

Lo specchio d'acqua, di gran lunga il più grande del pianeta con una superficie pari a circa 371.000 chilometri quadrati (più della Germania), ha sperimentato molte fluttuazioni nella sua profondità media negli ultimi decenni. La più importante delle quali, appunto, si è conclusa alla fine degli anni 70.

Il Caspio è anche uno dei laghi più profondi, l'abisso arriva a oltre un chilometro nella sua parte meridionale, è salato e può essere considerato come un piccolo mare. Il rischio riguarda però soprattutto la parte settentrionale, quella meno profonda: "L'evaporazione - scrivono gli scienziati - avrà l'impatto più grande nella porzione nord del Mar Caspio, perché molta dell'acqua in quell'area è inferiore ai cinque metri di profondità". A questo ritmo, sette centimetri all'anno, tutta quella zona si prosciugherà in circa 75 anni, come è già successo con il lago d'Aral, con un danno economico e ambientale incalcolabile.

 

Incendi, anche la Groenlandia brucia. Greenpeace : "Fiamme a 150 km dal Circolo polare artico"

ANCHE LA GROENLANDIA brucia. Da giorni ormai nella parte occidentale, ci sono fiamme tra i ghiacci, nella zona in cui prima c'era il permafrost. "Per la prima volta in assoluto, incendi a 150 km dal circolo polare artico", ha twittato Giuseppe Onufrio, direttore delle campagne di Greenpeace Italia, dal suo profilo social @gonufrio. Altri incendi si sono verificati nella zona, ma questo è l'incidente più grande mai visto dal satellite.

"L'ondata di calore di quest'ennesima, anomala, estate sta distruggendo il patrimonio ambientale italiano a ritmi preoccupanti - si legge sul sito di Greenpeace Italia - secondo dati raccolti da Legambiente a fine luglio erano già andati in fumo quasi 75.000 ettari del nostro paese. Più di quanto bruciato l'anno scorso. Le cause sono note e la 'sorpresa' di troppi pare fuori luogo: azioni criminali (della criminalità organizzata o di singoli, per gesti di pura follia o di meditato calcolo) e dissesto del territorio con una manutenzione dei suoli, delle foreste e del patrimonio naturale in genere che non è all'altezza di un paese del g7. Stupisce che in questo contesto non si discuta in modo approfondito degli effetti (ci sono? non ci sono?) dell'eliminazione del corpo forestale dello stato (adesso carabinieri forestali, senza più compiti specifici di lotta agli incendi) che sembrerebbe aver creato vari intoppi al contrasto ai roghi"."C'è tuttavia un terzo elemento, Altrettanto prevedibile e previsto - si legge - che doveva essere considerato e non lo è stato: il clima è cambiato. L'estate torrida del 2003 ha lasciato in europa una lunga e tragica scia di morti 'in eccesso' (prevalentemente anziani e soggetti debilitati): almeno 80.000 Persone in dodici paesi. Che qualcosa del genere dovesse ricapitare, prima o poi, lo si sapeva. E che quest'anno, dopo un inverno anomalo, ampie fette del paese fossero in 'crisi idrica' era palese, almeno dal mese di aprile. Un chiaro campanello d'allarme per tutti. In particolare per chi ci governa e può e deve intervenire con urgenza per mettere in pratica quanto deciso con l'accordo di parigi sul clima: a cominciare dall'eliminazione dell'uso di combustibili fossili.

Che gli incendi siano associati all'aumento delle temperature è ovvio. È notizia di questi giorni che in Siberia la superficie percorsa da incendi quest'anno ha già superato 1 milione di ettari con la spiacevole conseguenza che la fuliggine degli incendi, depositata sul ghiaccio ne aumenta il surriscaldamento e quindi la velocità di fusione. La stima è che ogni anno, in tutta la russia, si perdano 2,5 milioni di ettari di foreste. "E quest'anno- si legge in conclusione- per la prima volta in assoluto, sono segnalati incendi perfino in Groenlandia (forse, causati da incauti turisti) dove sono andati in fumo 1.250 Ettari a soli 50 km dal fronte di un ghiacciaio. A 150 km dal circolo polare artico. In un pianeta che non è più lo stesso".

 

Addio Venezia: come apparirebbe il mondo se si sciogliessero tutti i ghiacci

Le coste italiane se si sciogliessero tutti i ghiacci della Terra. Alex Kuzoian/Business Insider

Se il mondo continuerà a bruciare combustibili fossili e a usare il carbone a tempo indeterminato, il cambiamento climatico potrebbe arrivare a sciogliere tutto il ghiaccio dei poli e quello sulle montagne, secondo il National Geographic.

 

Ci sono oltre 21 milioni di km cubi di ghiaccio sulla Terra. Secondo molti scienziati ci vorrebbero più di 5.000 anni per scioglierlo tutto. Ma nell’arco di vita della prossima generazione, alcune città potrebbero già cessare di esistere se il mondo non ridurrà drasticamente le emissioni di carbonio.

Questo farebbe salire il livello del mare di approssimativamente 66 metri, sommergendo città che si affacciano sul mare come Venezia, Buenos Aires e Il Cairo.

 

Hawking: "Terra invivibile
tra 100 anni su un altro pianeta".

Anno 2106, fuga dalla Terra. Non è il titolo di un film di fantascienza, bensì la profezia di Stephen Hawking, il grande astrofisico, autore del best-seller "Dal big bang ai buchi neri" e di innumerevoli studi sull'universo. Interpellato in una conferenza stampa sulla data in cui gli esseri umani potrebbero risiedere su un altro pianeta, lo scienziato britannico ha risposto che "tra vent'anni potremmo avere una base permanente sulla Luna e tra quaranta su Marte". 

Ma poi ha osservato che, per svariate ragioni, la Luna e Marte non sono adatti a ospitare qualcosa di più di minuscoli avamposti di umani: "Non troveremo niente di bello come la Terra, a meno che non andiamo a cercare in un altro sistema solare. Del resto, se vogliamo garantire la sopravvivenza della nostra specie, dovremo allargare la conquista dello spazio. La vita sul nostro pianeta è sempre più a rischio di estinguersi a causa di disastri naturali, surriscaldamento globale, guerre nucleari, virus geneticamente modificati o altri pericoli". 

Ce la faremmo a traslocare, in caso di bisogno, su un altro pianeta? Secondo Hawking sì, a una condizione: "Se riusciamo a evitare di sterminarci gli uni con gli altri nei prossimi cent'anni". 

In altre parole: nel giro di un secolo, avremo i primi avamposti (Luna e Marte) e probabilmente anche la tecnologia necessaria per erigere colonie spaziali su larga scala. Per cui, se intorno al 2106 un disastro minacciasse la sopravvivenza sulla terra, i terrestri potrebbero fuggire altrove. 

Già, ma dove esattamente? Il Guardian ha stilato una lista, chiedendo ai suoi esperti di valutare i pro e contro. La Luna, per esempio, ha il vantaggio di essere a soli tre giorni di distanza dalla Terra e di offrire una vista favolosa del nostro pianeta: ma ha un panorama piuttosto deprimente, nel lungo termine la mancanza di gravità distruggerebbe muscoli e ossa dei "coloni" terrestri e comunque non è abbastanza grande da ospitarli tutti. Marte è un po' meglio, ha il 40 per cento di gravità della Terra, un qualche tipo di atmosfera, acqua ghiacciata ai poli e probabilmente sotto terra: ma non è facile atterrarvi e occorrono sei mesi per raggiungerlo. Su Venere, per dirne una, fa troppo caldo: a 450 gradi centigradi di temperatura si scioglierebbe anche l'acciaio. Mercurio è troppo freddo ai poli e troppo caldo sul lato che guarda il Sole. E così via. 
 

 


L'unica soluzione, come dice Hawking, sarebbe trovare una replica della Terra in un altro sistema solare: un pianeta grande circa come il nostro, quindi con una simile forza di gravità e alla distanza giusta dalla stella che lo riscalda. Un pianeta del genere potrebbe certamente esistere, ma sulla Terra non abbiamo ancora telescopi abbastanza potenti per localizzarlo. E, se esiste, sorge un problema etico: se ha gravità, ossigeno e la temperatura giusta, su quel pianeta si è sicuramente sviluppata la vita. Potrebbe, insomma, essere già abitato. Significa che, per salvarci, dovremmo appropriarci del pianeta di un'altra specie o chiedere ospitalità. In entrambi i casi, non sarebbe semplice. 

Antartide, l’iceberg da record si stacca. Le immagini dal satellite: “Grande due volte il Lussemburgo”

SCIENZA

Un colosso di circa 5800 km2, dal peso di mille miliardi di tonnellate. La Natura continua, quindi, a mandarci segnali, in contrasto con alcune analisi scettiche e giravolte politiche sul surriscaldamento del Pianeta, come il recente dietrofront degli Usa di Donald Trump sull’accordo di Parigi

Pochi mesi fa era ancora una ferita tra i ghiacci dell’Antartide settentrionale, nella piattaforma denominata Larsen C. Profonda 500 metri e lunga centinaia di chilometri, quella ferita nel corso degli ultimi mesi ha continuato a sanguinare e ad estendersi, a una velocità di alcune centinaia di metri al giorno. A maggio, ad esempio, in appena una settimana è cresciuta di 17 chilometri. Una progressione inesorabile, che ha portato nelle ultime settimane a colmare le poche decine di chilometri che la separavano dal mare. “Non mi sorprenderebbe se la regione collassasse prima dell’arrivo dell’inverno in Antartide, nel giro di alcuni mesi, portando al distacco di un iceberg di più di 5000 km2”, aveva spiegato lo scorso febbraio a ilfattoquotidiano.it Carlo Barbante, direttore dell’Istituto per la dinamica dei processi ambientali del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr). Quella previsione si è adesso avverata, portando, nella prima metà di luglio del 2017, alla formazione di uno dei dieci iceberg più grandi mai generati negli ultimi 30 anni, da quando, cioè, si studia l’Antartide approfonditamente. Un colosso di circa 5800 km2, dal peso di mille miliardi di tonnellate, grande due volte il Lussemburgo. La Natura continua, quindi, a mandarci segnali, in contrasto con alcune analisi scettiche e giravolte politiche sul surriscaldamento del Pianeta, come il recente dietrofront degli Usa di Donald Trump sull’accordo di Parigi.

La progressione della spaccatura tra i ghiacci dell’Antartide è stata monitorata in questi mesi anche dallo spazio, grazie ai satelliti radar Sentinel-1 della costellazione Copernicus dell’Agenzia spaziale europea (Esa), e ai satelliti della costellazione Cosmo-SkyMe nell’ambito di un’iniziativa avviata dall’Agenzia spaziale italiana (Asi) nel 2015 per consentire alla comunità scientifica nazionale e internazionale di accedere gratuitamente ai dati del sistema satellitare. Solo pochi chilometri di ghiaccio tenevano il blocco collegato alla calotta principale del continente bianco. “Il ghiaccio di questo gigantesco iceberg potrebbe riempire 460 milioni di piscine olimpiche”, spiegano gli esperti della Swansea University, l’ateneo britannico che ha dato per primo la notizia del distacco, e che tiene sotto osservazione da più di 10 anni la piattaforma Larsen C, sin dalla formazione delle prime, piccole, crepe. “Il colossale iceberg non farà aumentare i livelli del mare, ma potrebbe rendere la calotta di ghiaccio meno stabile – sottolinea Anna Hogg, esperta di osservazioni satellitari dei ghiacciai presso l’University of Leeds, intervista da The Guardian -. È come avere un cubetto di ghiaccio in un gin tonic: non è detto che il suo scioglimento ne aumenti il volume nel bicchiere in modo considerevole”. “Per il momento – aggiunge a The Guardian Adrian Luckman, che insegna glaciologia alla Swansea University -, osserviamo un unico grande blocco. Ma è probabile che nel tempo si frammenterà”. Le conseguenze sul paesaggio antartico, secondo gli esperti, sono ancora tutte da valutare. Ci vorranno, ad esempio, anni per capire se comprometterà la stabilità e l’integrità della banchina rimasta scoperta.

Credit Copernicus Sentinel data (2017), processed by ESA, CC BY-SA 3.0 IGO

La Pianura Padana soffoca e muore

 

 

 

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Segni di risveglio ai Campi Flegrei. Il vulcano più grande d'Europa preoccupa i ricercatori

"Dobbiamo monitorarlo meglio" esortano i ricercatori dell'Ingv, dopo uno studio scientifico che rivela segni di irrequietezza nella caldera abitata da 500mila persone. Il suolo si sta sollevando, le emissioni di gas aumentano, così come le temperature del sottosuolo. E il magma ha raggiunto la profondità di 3-4 chilometri

I Campi Flegrei potrebbero raggiungere un punto critico. Il suolo si sta rigonfiando, il magma sta risalendo e le temperature interne aumentano. Si tratta ancora di valori minimi: nulla a che vedere con un’eruzione imminente. “Ma bisogna intensificare l’attività di sorveglianza” esorta l’Ingv (Istituto nazionale di Geofisica e vulcanologia) dopo la pubblicazione di un suo studio su Nature Communications.
 
La ricerca, coordinata da Giovanni Chiodini e condotta insieme alle università di Palermo, Roma Tre e Savoia in Francia, ha cercato di fissare il possibile “punto critico” oltre il quale la risalita del magma e dei suoi gas renderebbe instabile tutto il sistema. “Raggiunte le condizioni critiche – spiega Chiodini – il magma rilascia grandi quantità di vapore”. Risalendo verso la superficie, questo vapore bollente indebolisce le rocce, aprendo due possibili scenari. Il primo è l’eruzione, il secondo (quello opposto) è un aumento della viscosità del magma, e quindi la fine della sua risalita.
 
Resta dunque incerto cosa accadrà in uno dei supervulcani più pericolosi del mondo, che 39mila anni fa provocò l’eruzione più potente del pianeta negli ultimi 200mila anni, ricoprì delle sue ceneri l’Europa fino a Mosca, bloccò i raggi del Sole provocando un “inverno vulcanico” di due anni e secondo alcuni contribuì addirittura all’estinzione dei Neanderthal. Ma per le 500mila persone che vivono nel bel mezzo della caldera, i segni di irrequietezza non sono da prendere sotto gamba. Tanto che nel 2012 l’allerta è stata innalzata da verde a gialla (livello di attenzione).
 

Segni di risveglio ai Campi Flegrei. Il vulcano più grande d'Europa preoccupa i ricercatori

Il magma oggi è risalito a 3-4 chilometri dalla superficie (stessa profondità dell’ultima eruzione, detta del Monte Nuovo, nel 1538). Le analisi dei gas della solfatara di Pozzuoli dimostrano che le rocce intorno al serbatoio di magma si stanno scaldando e rilasciano sempre più vapore acqueo. “Il possibile avvicinarsi del magma alle condizioni di pressione critica – spiega ancora Chiodini – può spiegare l’attuale accelerazione delle deformazioni del suolo, il recente incremento delle scosse di terremoto e l’aumento dei gas più sensibili agli incrementi di temperatura”.

Più che dal simbolico Vesuvio, è dunque dai Campi Flegrei che gli abitanti di Napoli e dintorni dovrebbero guardarsi. La forma di caldera anziché di montagna fa sembrare innocuo questo vulcano con un diametro di 12 chilometri, metà a terra e metà nel golfo di Pozzuoli, costellato da bocche eruttive, coni e fumarole. Ma se greci e romani collocavano qui (nell’Averno) la porta dell’inferno, una ragione probabilmente c’è. 

Nella storia, la caldera si è sempre alzata e abbassata, quasi avesse un respiro. Nel mercato romano di Pozzuoli alcune colonne sono incrostate da conchiglie, a dimostrazione che un tempo si trovavano sotto l’acqua. Dopo l’eruzione del Monte Nuovo, la caldera si è assestata sprofondando leggermente. E’ tornata ad alzarsi a partire dal 1950, fino all’eclatante bradisismo degli anni ’80. Tra il 1982 e il 1985 il suolo si sollevò di quasi due metri e uno sciame sismico provocò l’evacuazione degli abitanti di Pozzuoli. Dal 2005 il suolo si è rialzato di altri 40 centimetri, seguito millimetro per millimetro dai satelliti CosmoSkyMed, dall'Istituto Irea del Cnr che ne analizza i dati e dalle stazioni di monitoraggio dell'Ingv. Una sequenza di piccoli terremoti conferma che il gigante potrebbe aver voglia di risvegliarsi. Sarebbe come – dichiarò alla Reuters qualche anno fa Giuseppe De Natale, il direttore dell’Osservatorio Vesuviano dell’Ingv (il più antico centro di ricerche sui vulcani del mondo ) – come l’arrivo di un grande meteorite. Un’eventualità tanto rara quanto catastrofica”.

2015, torna El Niño: porterà alluvioni e caldo record

La corrente oceanica anomala è tornata dopo 5 anni di pausa. Ci saranno effetti su scala globale: piogge violente e alluvioni in Cile, Perù, Bolivia; lunghe siccità in Australia e in Indonesia

 

 

 

Questo ''deserto'' è il Ticino si cammina sul letto del fiume

REP TV / SICCITA'
 

 

Questo ''deserto'' è il Ticino
si cammina sul letto del fiume
 (gennaio 2016)

 

 

LA STORIA , SCIENZA,sviluppo Urbano e Tecnologico

 

DA STAR WARS  a Superman, da Ritorno al Futuro a Star Trek, il cinema di fantascienza ci ha fatto conoscere molto bene gli ologrammi. Siamo infatti abituati a vedere ologrammi di personaggi, astronavi, e ovviamente alieni di ogni specie. Ma quel che forse non immaginiamo è che l'intero Universo potrebbe essere un gigantesco e sofisticato ologramma. E' questa la conclusione di una nuova ricerca internazionale, che combina aspetti teorici della fisica dell'universo primordiale a studi legati alla struttura fondamentale della materia. Una complessa analisi, a cui hanno partecipato in Italia ricercatori della Sezione di Lecce dell'Infn e dell'Università del Salento. Lo studio, pubblicato su Physical Review Letters, potrebbe aprire la strada per una migliore comprensione del cosmo, spiegando come sia nato e come si siano prodotti lo spazio e il tempo in cui viviamo.

Un modello per l'Universo. Secondo il modello attuale, il nostro Universo è nato dal Big Bang, una colossale "esplosione iniziale" avvenuta quasi 14 miliardi di anni fa. Dopo il Big Bang l'Universo ha iniziato a espandersi in modo continuo fino a raggiungere l'aspetto attuale. Resta da capire come mai questa espansione stia procedendo in modo accelerato, ovvero perché l'Universo si "gonfi" sempre più velocemente. Il modello attuale, supportato dai dati sperimentali, si basa su una combinazione fra materia visibile e materia oscura e sull'azione della misteriosa Energia Oscura, che sarebbe la principale responsabile dell'espansione accelerata.  Ma secondo la nuova ricerca, le osservazioni sarebbero in accordo anche con un modello alternativo, basato su un Universo olografico. "L'ipotesi che il nostro universo funzioni come un enorme e complesso ologramma è stata formulata negli anni '90 del secolo scorso da diversi scienziati, raccogliendo evidenze teoriche in vari settori della fisica delle interazioni fondamentali", ha spiegato Claudio Corianò, ricercatore dell'INFN e professore di fisica teorica dell'Università del Salento, fra gli autori dello studio. 

Visioni in 3D. Ma, fantascienza a parte, che cosa vuol dire Universo olografico? L'idea da cui si parte è quella di un ologramma ordinario, in cui un'immagine tridimensionale è codificata su una superficie bidimensionale. Per costruire la percezione della terza dimensione, si parte dall'informazione sulle due dimensioni iniziali. "Per creare un ologramma", spiega Corianò, "si prende un fascio laser luminoso e lo si separa all'origine in due fasci: uno è inviato su un oggetto distante e quindi viene riflesso, mentre l'altro è inviato per essere registrato. Servono due coordinate per indirizzare il fascio incidente sull'oggetto, in modo da esplorarlo completamente, mentre è proprio l'interferenza tra il fascio originario e quello riflesso che permette di ricostruire l'immagine e dare il senso della profondità". Un altro esempio di ologramma che molti hanno in tasca (senza saperlo) sono gli ologrammi di sicurezza, quelle figurine tridimensionali stampate sulle carte di credito. 

Universi olografici. A partire dal concetto di ologramma ordinario, i fisici teorici hanno costruito un modello in cui è l'intero Universo ad essere un ologramma. Possiamo infatti descrivere un punto dell'Universo utilizzando quattro dimensioni, tre per lo spazio più una dimensione "extra" per il tempo. Esattamente come un ologramma ordinario, in cui rappresentiamo un oggetto tridimensionale a partire da due dimensioni, in questo modello i punti dell'Universo a quattro dimensioni si costruiscono usando solo tre dimensioni. A partire da questa "struttura base" a tre dimensioni, possiamo così "proiettare" l'intero Universo nelle tre dimensioni dello spazio e nel tempo.

Dalla teoria alle osservazioni. Tra ologrammi, Universo e dimensioni varie è facile perdersi fra equazioni e concetti molto complessi. Eppure la conclusione di Corianò e colleghi è che i dati osservativi sono compatibili con questo modello di Universo. I ricercatori hanno infatti analizzato le osservazioni condotte dal satellite europeo Planck, progettato per studiare la radiazione cosmica di fondo. Analizzando la struttura di questa radiazione di fondo, che possiamo considerare l'"eco" del Big Bang, è infatti possibile riuscire a scovare gli indizi della natura olografica dell'Universo. Nel loro lavoro, gli autori confermano che il modello attuale rappresenta meglio i dati, sottolineando però che in alcune condizioni il modello olografico potrebbe essere più adeguato. Oltre a farci riflettere su concetti così complessi, gli autori sperano che questo risultato possa aprire la strada a una comprensione più profonda dell'Universo in cui viviamo, magari adottando un punto di vista meno convenzionale ma sicuramente molto affascinante.

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Come raggiungere Proxima b (e frenare): "Ci vorranno 140 anni ma potremo fermarci"

Come raggiungere Proxima b (e frenare): "Ci vorranno 140 anni ma potremo fermarci"

Uno studio pubblicato sull'Astrophysical journal letters ipotizza di usare il vento solare e vele grandi quanto dieci campi da calcio per accelerare e decelerare piccolissime sonde una volta arrivate a destinazione. Ci impiegheranno quasi un secolo e mezzo, un tempo molto più lento rispetto a quello ipotizzato da Hawking e la Breakthrough Initiative, ma con la possibilità di entrare in orbita attorno alla stella più vicina alla Terra e studiare il pianeta forse simile al nostro

.SPEDIRE fino a Proxima centauri delle sonde in tempi "umani", a un quinto della velocità della luce, è possibile, lo ha detto Stephen Hawking. Ma come si fa a frenare? Un nuovo studio spiega come, anche se servirà un po' più di pazienza. Ci ci vorrà circa un secolo e mezzo invece che i 20 anni ipotizzati dal progetto Breakthrough Starshot del miliardario russo Milner. Ma invece di schizzar via con appena il tempo di scattare qualche foto, le sonde potranno inserirsi nell'orbita della stella per cercare e studiare con calma Proxima b, il pianeta scoperto nel 2016 che le ruota attorno nella fascia di abitabilità. Il tutto grazie a vele solari ed energia gratis offerta dalle stelle.Due studiosi, René Heller del Max Planck Institute for Solar System Research in Göttingen, in Germania, e Michael Hippke, hanno pubblicato i loro calcoli sull'Astrophysical journal letters. Secondo lo studio, portare le sonde in orbita attorno alla stella più vicina alla Terra è possibile a patto di sacrificare del tempo, dunque ridurre la velocità.
 
Invece di accelerare fino a 60.000 chilometri al secondo, servirà un'andatura di crociera più modesta. "Appena" 13.000 chilometri al secondo per raggiungere Alpha Centauri in 95 anni. E poi altri 46 fino a Proxima Centauri, la nana rossa con il pianeta che si spera sia "gemello della Terra".
 
Un "vento" diverso. Il progetto di Milner, sostenuto, oltre che dall'astrofisico inglese anche da Mark Zuckerberg, prevede sparare raggi laser da terra per colpire delle speciali vele alle quali sono agganciate le sonde, per accelerarle. Secondo l'ipotesi di  Heller e Hippke il dispendioso raggio super energetico non servirà più. Basterà sfruttare il flusso di fotoni proveniente dal Sole. Una spinta debolissima in grado però, sul lungo periodo, di generare velocità incredibilmente alte.
 
Per fare tutto questo occorre però anche pensare a vele diverse. "Spinnaker" di grafene, sottilissimi e grandi all'incirca come dieci campi da calcio, in modo da catturare abbastanza fotoni per accelerare apparecchi che dovranno pesare pochissimo, circa dieci grammi. Una volta arrivate nei pressi di Alpha Centauri, lo stesso sistema utilizzato per accelerare servirà anche per frenare, usando, in maniera inversa, il "vento" di fotoni proveniente dalla stella.
 
L'ultimo passaggio. Da qui in poi sarà tutto affidato a quello che gli autori della ricerca chiamano "assist fotogravitazionali". Di nuovo, l'accelerazione prodotta dai fotoni questa volta combinata con l'"effetto fionda" generato dalla gravità della stella. Quest'ultima spinta sarà quella definitiva verso Proxima Centauri, la terza stella del gruppo, più lontana dalle altre due.
 
Dopo varie orbite ellittiche, il passo finale sarà avvicinarsi a Proxima b, quel pianeta roccioso, poco più grande della Terra, alla distanza giusta per ipotizzare che sulla sua superficie possa trovarsi acqua allo stato liquido. Per ora l'unico altro posto nell'Universo dove possiamo sperare di osservare così da vicino eventuali tracce di vita fuori dal Sistema solare.
 
I freddi calcoli di Heller e Hippke dipingono, purtroppo, una realtà molto meno ottimistica degli annunci precedenti. Ad attendere quei dati (ai 140 anni di viaggio dobbiamo aggiungere i 4,3 anni che ci impiegherebbe il segnale inviato dalle sonde per arrivare fino alla Terra) ci saranno i nostri pronipoti. Ma si tratterebbe comunque di un grande salto in avanti. Se dovessimo imbarcarci ora alla massima velocità possibile con motori a propulsione ci impiegheremmo circa 100.000 anni.

'Quel tunnel porta agli inferi''. La scoperta nell'antica Piramide della Luna

''Quel tunnel porta agli inferi''. La scoperta nell'antica Piramide della Luna
Il sito archeologico di Teotihuacan, in Messico (ansa)

 

In Messico gli archeologi hanno individuato un passaggio sotterraneo a 10 metri di profondità. Potrebbe dirci che fine "fece il popolo di Teotihuacan"

NASCOSTA là sotto c'è la porta per il mondo degli inferi. In Messico gli specialisti dell'Istituto Nazionale di Antropologia e Storia (Inah) hanno fatto una straordinaria scoperta: a 10 metri di profondità sotto la famosa Piramide della Luna, nel sito di Teotihuacan a 40 chilometri della capitale, c'è un tunnel segreto. Collega la piramide alla piazza centrale e secondo gli esperti potrebbe rappresentare la "riproduzione di un mondo sotterraneo", un'ulteriore prova che l'antica civiltà misteriosamente scomparsa con l'avvento degli Aztechi credesse nella distinzione fra mondo dei viventi e quello degli inferi. 
La scoperta è avvenuta grazie a un sistema di tomografia computerizzata che sfrutta la resistenza della corrente elettrica e rivela possibili passaggi segreti: del resto, nella vicina Piramide del Sole e nel Tempio del Serpente piumato erano già state ritrovate cavità sotterranee, motivo per cui i ricercatori hanno insistito con la Piramide della Luna. 
Per ora il tunnel è solo stato individuato e gli archeologi messicani dovranno decidere se scavare o meno alla ricerca di nuovi reperti in grado di raccontarci cosa accadde al popolo teotihuacano che esisteva tra il I e l'VIII secolo d.C e scomparve bruscamente lasciando poche tracce. La piramide, alta in totale 43 metri, risale circa al 200 d.C ed è la seconda più grande struttura di questo tipo dell'antica città dopo quella del Sole. Per l'archeologa Verónica Ortega, vice capo dei lavori nel sito archeologico di Teotihuacan "molto probabilmente il tunnel era utilizzato per riti sacri e cerimonie".

E' convinta che il contenuto del cunicolo possa rivelare molto sugli usi e i costumi della civiltà precolombiana: "La scoperta confermerebbe che gli abitanti di Teotihuacan seguirono lo stesso schema nei loro templi su larga scala e che la loro funzione sarebbe quella di emulare il mondo sotterraneo".
 
Negli anni Settanta fu scoperto un tunnel sotto la Piramide del Sole, ma era già stato saccheggiato mentre in quella del Serpente furono ritrovate strutture per contenere sementi, ceramiche e ossa animali. Negli anni intorno alla "Luna" sono state individuate tracce di sepolture ma si cercano ancora prove definitive del rapporto vivi-inferi di questa comunità che allora contava 100mila persone. Secondo alcuni studi per i Teotihuacan il mondo sotterraneo potrebbe essere stato, come credenze, più importante di quello sovrastante e fondamentale nella creazione della vita e il tunnel potrebbe anche essere associato ai flussi sacri dell'acqua.
 
Finora non sono mai stati trovati resti che potessero appartenere direttamente ai governanti di Teotihuacan per cui, spiegano dall'Inah, una tale scoperta potrebbe aiutare a "svelare un mistero che inseguiamo da anni". Sempre se decideranno di scavare verso la porta degli inferi.

 

Scoperto un cimitero di navi nel Mar Nero. "Hanno 2500 anni e sono perfettamente intatte"

Scoperto un cimitero di navi nel Mar Nero. "Hanno 2500 anni e sono perfettamente intatte"
Credits: Black Sea Project MAP 

 

Ritrovamento "ineguagliabile" in Bulgaria. Gli archeologi del Black Sea Project: "Senza ossigeno reperti ben conservati"

CERCAVANO risposte al cambiamento climatico e hanno trovato un tesoro: un cimitero di navi dall'"ineguagliabile valore". Sul fondo del Mar Nero che si affaccia sulla Bulgaria un team di ricercatori e archeologi, in tre anni di lavoro, ha individuato 60 imbarcazioni romane, bizantine, ottomane che hanno attraversato 2.500 anni di storia. Fra queste, tra le ultime scoperte, c'è una nave romana che ha duemila anni ed è "perfettamente conservata" spiegano entusiasti i membri del MAP, il Black Sea Project guidato dal centro di Archeologia Marittima dell'Università di Southampton e finanziato dall'EEF (Expedition and Education Foundation).  

Come ha spiegato il professor John Adams, alla guida del progetto, lo scopo iniziale della spedizione era fare indagini geofisiche e studi sull'impatto del riscaldamento globale quando, a forza di immergersi in profondità con tecnologie di diverso tipo (anche 3D), sono finiti per imbattersi in qualcosa di unico. Una dopo l'altra, sul fondo di un mare che in profondità è anossico, ovvero con acque prive di ossigeno, c'erano relitti di navi con alberi maestri "ottimamente conservati", stive cariche "di anfore, ceramiche e altri oggetti" e soprattutto tipi di imbarcazioni "mai viste prima. Li potevamo osservare su mosaici, ma non dal vivo. Sembrava un film" racconta Ed Parker, ceo del progetto.Timoni, alberi, corde e altri reperti saranno ora analizzati in un lavoro che richiederà "mesi, forse anni. Si tratta di uno dei più grandi progetti di archeologia marina mai messi in atto prima d'ora" e che riguarda "relitti dei più grandi imperi". Alcune delle  navi più antiche risalirebbero al V A.c, altre sono del XIX secolo e i ricercatori, per proteggere le loro scoperte, hanno deciso di mantenere segrete parte delle aree dove sono state individuati i relitti.Grazie alla poca luce e l'assenza di ossigeno "legni, metalli e altri materiali non sono danneggiati e le condizioni di alcuni relitti sono sconcertanti per quanto siano intatti". Per analizzarli sono stati utilizzati robot subacquei per arrivare fino a oltre 2000 metri di profondità, veicoli a distanza (ROV), scanner, laser e attrezzature geofisiche. "Siamo convinti ci possano raccontare molto della storia navale di diversi imperi. E' davvero un scoperta ineguagliabile" continua Adams spiegando che sono stati realizzati modelli 3D delle navi.

In attesa di nuove informazioni dagli esami dei primi relitti le immagini e i lavori della spedizione MAP saranno presto protagonisti di un documentario girato dalla Bbc.

 

DAI GALLI INSUBRI AI ROMANI. DALL'EPOCA REPUBBLICANA A QUELLA IMPERIALE

 

 

 

 

MEDIOLANUM CAPITALE DELL'IMPERO ROMANO (285 d.C. - 476 d.C.) DA MASSIMIANO A TEODOSIO IL GRANDE

Ormai la città era diventata influente ed importante e gli imperatori, al varo della Tetrarchia voluta da Diocleziano allo scopo di consolidare strutture e confini di un impero sempre più vasto,decisero di farne capitale . Il confine nord in quel momento storico era a 400 chilometri e l'esistenza di un centro vasto come Mediolanum rispondeva perfettamente alle esigenze di difesa contro le invasioni barbariche sempre più frequenti.

IL PODEROSO SVILUPPO URBANISTICO TARDO-IMPERIALE

 

 

 

 

 

 

http://www.skuola.net/storia-arte/medioevo/storia-arte-medievale.html

 

 

 

IL DISASTRO DELLE INVASIONI BARBARICHE E LA CADUTA DELL'IMPERO

 

Scoperte nuove lettere vicino al Vallo di Adriano. I messaggi dei soldati in Britannia: "Portate più birra"

Scoperte nuove lettere vicino al Vallo di Adriano. I messaggi dei soldati in Britannia: "Portate più birra"
Le tavolette di Vindolanda trovate in Gran Bretagna (Credits: Chesterholm Museum) 

 

Ritrovate altre 25 tavolette a Vindolanda in Gran Bretagna. Gli esperti: "Testi straordinari, ci racconteranno i romani"

"I miei soldati non hanno più birra, si prega di inviarne ancora". Firmato Masclus, soldato di migliaia di anni fa. Questo è uno dei tanti messaggi, in grado di raccontarci la vita degli antichi romani, contenuto in una nuova straordinaria scoperta fatta nel forte romano di Northumberland, la zona chiamata Vindolanda, in Inghilterra, al confine con la Scozia, nell'area del Vallo di Adriano. 
 
Quando nel 1992 Robin Birley, archeologo direttore dei lavori, scoprì a Vindolanda numerosi e importanti lettere dell'epoca romana (oggi custodite al British Museum insieme a quelle ritrovate dal 1973 ad ora) suo figlio Andrew aveva 17 anni e sognava di diventare come il padre. "Ho sempre sperato che lì sotto ci fosse ancora qualcosa. E questa è una scoperta straordinaria". 
 
A fine giugno infatti quel sogno è diventato realtà: dagli scavi, che ora dirige lui stesso, Birley junior ha recuperato 25 tavolette, lettere scritte su pezzi di quercia o betulla, conservati in buono stato e ora pronte per essere decifrate, che si crede siano databili intorno al I secolo d.C. Un ritrovamento "che aspettavo da una vita" dice Birley dopo aver brindato con i suoi collaboratori. 
 
Sono messaggi dal passato, per lo più legati alla vita militare del forte, in grado secondo gli studiosi di dirci "molto su come vivevano e su ciò che è successo". 
 
I pezzi di legno, sottilissimi e su cui erano incisi alcuni testi con inchiostro, erano disposti in un tratto di quattro metri e posizionati in profondità, come "se qualcuno li avesse nascosti lì per noi". 
 
Grazie alle condizioni del terreno e all'umidità di quest'area della Gran Bretagna le tavolette si sono "conservate in modo unico". L'esame iniziale, in attesa di quelli a infrarossi e l'analisi del testo che richiederanno diverso tempo e il coinvolgimento di più equipe, ha già dimostrato come alcune delle missive fossero state firmate da un soldato noto come Masclus che dava indicazioni sul rifornimento del forte del muro di Adriano e chiedeva aiuto ai suoi superiori. Rispetto alla classica betulla molti testi si trovano su quercia "e questo ci permette una migliore lettura e maggiore conservazione. Altri testi crediamo siano messaggi personali" continua Birkley.
 
L'intera famiglia dei Birkley, il figlio Andrew la madre Patricia e il padre Robin, seguono i lavori di Vindolanda da decine di anni. Nel 2003 gli esperti del British Museum definirono le tavole trovate qui (in particolare quelle del 1992) come il tesoro archeologico più importante proveniente dalla Gran Bretagna. Per certi versi ancor più preziose delle tavolette di Bloomberg, trovate a Londra, perché quelle di Vindolanda "raccontano passaggi della vita molto personali. Non c'è niente di più eccitante di leggere questi messaggi dal passato lontano".
 
Secondo gli esperti i nuovi frammenti "ci aiuteranno a capire la vita dell'Impero e forse emergeranno nuovi nomi a cui dovremmo dare un posto nella storia della Gran Bretagna romana. Per tutti noi, dagli studiosi ai volontari che scavano, il giorno in cui abbiamo alzato "al cielo" le prime tavolette ritrovate sarà un momento che ricorderemo per sempre".

 

 

Le mura aureliane, da Porta san Sebastiano a Porta Ardeatina. http://www.viaappiaantica.com/

Belisario entra a Roma

Il 9 dicembre (o il 10) del 536 Belisario entrò trionfante a Roma, nella antica capitale dell'impero romano, dove oramai i fausti di un tempo erano solo un lontano ricordo, Roma aveva solo 50.000 abitanti, Belisario non trovò resistenza da parte degli ostrogoti, per poter prendersi la città, ma subito saputa la notizia un esercito ostrogoto che si trovava nel nord Italia si mise in marcia per andar a riprendersi la città. Belisario quindi inviò un suo ufficiale che consegnò le chiavi di Roma all'Imperatore Giustiniano I, e che portò prigioniero a Costantinopoli il generale ostrogoto che aveva consegnato la città. Belisario si accorse subito che la situazione delle mura aureliane (le mura di Roma) era pessima, e quindi provvide subito a farle riparare, visto che era stato informato che gli ostrogoti si stavano avvicinando.

Nel febbraio del 537, trentamila ostrogoti si trovavano alle porte di Roma, pronti ad assediare la città, per fermare l'avanzata dei Bizantini capitanati dal generale Belisario, e prendere il possesso dell'ex capitale dell'impero.

Belisario si trovava svantaggiato, aveva solo cinquemila uomini, non sufficienti per la difesa della città, e le mura aureliane erano facilmente espugnabili dato il loro cattivo stato. Gli ostrogoti si posizionarono attorno alla città, costruendo sette accampamenti onde bloccare l'arrivo di rifornimenti e iniziarono i preparativi. Inoltre tagliarono i quattordici acquedotti della città per lasciare la popolazione senz'acqua.

Belisario, per fronteggiare la situazione, prese i seguenti provvedimenti:[1]

  1. per impedire ai Goti di penetrare nella città attraverso gli acquedotti (come aveva fatto Belisario stesso, tra l'altro, per espugnare Napoli pochi mesi prima), li fece ostruire con un solido muro.
  2. pose a custodia delle porte uomini fidati. In particolare Belisario decise di sorvegliare egli stesso la Salaria e la Pinciana, mentre affido a Costanziano la custodia della Flaminia. Una porta venne serrata con un cumulo di pietre per impedire a chicchessia di aprirla.
  3. infine decise, per provvedere ai bisogni della popolazione, di costruire dei rudimentali ma ingegnosi mulini ad acqua sfruttando le acque del Tevere. I Goti, avutene notizia da disertori, tentarono di sabotare l'invenzione gettando nelle acque del Tevere alberi e cadaveri. Belisario però riuscì a contrastare i loro tentativi di non far funzionare i mulini ad acqua con delle funi di ferro che andavano da una riva all'altra del Tevere e che impedivano agli oggetti gettati dai Goti nel fiume di proseguire oltre. In questo modo impediva inoltre ai Goti di entrare in città tramite il fiume Tevere.

All'alba del diciottesimo giorno d'assedio gli ostrogoti attaccarono, ma la loro disorganizzazione e l'inesperienza nell'uso delle macchine d'assedio permise ai bizantini di ottenere una facile vittoria, mietendo un gran numero di vittime tra le file nemiche.[4] L'assalto iniziò con i Goti che facevano avanzare le torri d'assedio verso le mura. Belisario ordinò allora agli arcieri di mirare di proposito ai buoi che trainavano le torri in modo da ucciderli e da impedire alle torri di essere trasportate fino alle mura; la strategia funzionò e i Goti si trovarono con un'arma inutilizzabile.[4]

Vitige decide quindi di cambiare strategia: ad una parte del suo esercito ordinò di tenere occupato Belisario nella difesa della Porta Salaria tramite il lancio di strali sopra i merli, mentre lui e un'altra parte dell'esercito avrebbero tentato l'attacco alla Porta Prenestina, più facile da espugnare per il debole stato delle mura.[4] Bessa e Peranio, i generali a difesa della porta e delle mura circostanti, chiesero allora aiuto a Belisario, il quale, affidata a un suo amico la difesa della Porta Salaria, andò subito a soccorrere la porta Prenestina.[5] Belisario, vedendo le mura in cattivo stato, ordinò ai suoi uomini di non respingere il nemico: lasciò pochi uomini a difesa dei merli mentre il fior dell'esercito venne collocato vicino alla Porta. I Goti, entrati da un foro nelle mura, vennero qui sconfitti e costretti alla fuga. Le loro macchine d'assedio vennero date alle fiamme.

Un'altra parte dell'esercito goto assalì nel frattempo la Porta Aurelia, difesa da Costantino. Quest'ultimo aveva con sé pochissimi uomini in quanto il Tevere, che scorreva vicino alla porta e al muro, sembrava proteggerlo abbastanza da un assalto goto e si preferì lasciare ben difesi parti di mura più importanti.[4] I Goti, valicato il Tevere, assaltarono la Porta e il Muro con ogni macchina d'assedio di sorta (soprattutto scale) e tirando frecce contro gli Imperiali. Gli Imperiali sembravano disperare: le baliste erano inutilizzabili in quanto erano a lunga gittata e quindi erano inservibili per colpire nemici molto vicini alle mura; i Goti erano in superiorità numerica; e stavano appoggiando le scale per valicare le mura.[4] I Bizantini però non si persero d'animo e, facendo a pezzi molte delle più grandi statue, le gettarono dalle mura contro i nemici.[4] La tattica ebbe successo e i nemici iniziarono a indietreggiare; allora gli Imperiali, rinvigoriti, attaccarono con maggior foga attaccando i Goti con frecce e pietre. I Goti, respinti, non attaccarono più, almeno per quel giorno, la porta Aurelia.[4]

I Goti provarono allora ad attaccare la Porta Trasteverina ma il generale bizantino Paolo riuscì a respingerli senza problemi.[5] Rinunciato all'attacco della Porta Flaminia, protetta da un suolo dirupato e dal generale bizantino Ursicino, i Goti attaccarono allora la Porta Salaria subendo gravi perdite.[5] Giunse infine la notte e la battaglia si concluse con la vittoria bizantina sui Goti. Curiosamente i Goti non attaccarono una parte delle mura non riparata da Belisario per la superstizione dei suoi uomini (essi dicevano che per via di una leggenda sarebbe stato San Pietro in persona a proteggerle dai Goti)[5]: se avessero deciso di attaccarle, forse la battaglia sarebbe finita in modo diverso per loro.

Ma la vittoria non servì a rompere l'assedio, e Belisario sapeva che il suo esercito era comunque di gran lunga inferiore a quello degli Ostrogoti, così decise di inviare un messaggero all'imperatore Giustiniano I per chiedere rinforzi:[6]

« Secondo i vostri ordini, sono entrato nei domini dei Goti, e ho ridotto alla vostra obbedienza l’Italia, la Campania, e la città di Roma. […] Fin qui abbiamo combattuto contro sciami di barbari, ma la loro moltitudine può alla fine prevalere. […] Permettetemi di parlarvi con libertà: se volete, che viviamo, mandateci viveri, se desiderate, che facciamo conquiste, mandateci armi, cavalli e uomini. […] Quanto a me la mia vita è consacrata al vostro servizio: a voi tocca a riflettere, se […] la mia morte contribuirà alla gloria e alla prosperità del vostro regno. »

Il giorno dopo la battaglia si vide costretto ad effettuare delle scelte drastiche per migliorare la difesa dell'Urbe come far uscire dalla città tutti coloro che non erano in grado di brandire un'arma (tra questi vi erano le donne e i bambini), che vennero trasferiti temporaneamente a Napoli.[7] La decisione di far uscire dalla città le persone non in grado di combattere era dovuta alla volontà di far durare il maggior tempo possibile le scorte di cibo utilizzandole solo per sfamare le persone in grado di combattere, mentre gli altri, trasferendosi a Napoli, venivano comunque sfamati.[7] Le persone trasferite a Napoli vi giunsero o per via mare o seguendo la Via Appia, senza venire attaccata dai Goti in quanto, essendo Roma una città di vastissima estensione, i Goti non erano riusciti a circondarla tutta quanta, quindi bastò uscire da una via distante dagli accampamenti goti.[7]

Proprio per questi motivi fu possibile introdurre a Roma scorte di cibo per parecchi giorni senza essere notati dai Goti. E, durante la notte, capitava di sovente che i Mauri, soldati foederati dell'Impero, facessero delle sortite contro gli accampamenti goti, uccidendone alcuni durante il sonno e spogliandoli.[7] Belisario nel frattempo notò la sproporzione tra l'estensione delle mura e il numero dei soldati che le dovevano sorvegliare e decise di risolvere il problema obbligando gli abitanti rimasti a diventare soldati e far ronda sulle mura aureliane.[7] Prese delle severe precauzioni per assicurarsi della fedeltà dei suoi uomini: cambiava due volte al mese gli ufficiali posti a custodia delle porte della città,[7] ed essi venivano sorvegliati da cani e altre guardie per prevenire un eventuale tradimento.

In quei giorni i Bizantini deposero Papa Silverio, accusato di parteggiare con i Goti, e lo spedirono in esilio in Grecia. Venne eletto al suo posto Virgilio, gradito dall'Imperatrice Teodora. Vennero espulsi, per lo stesso motivo, alcuni senatori.[7]

La conquista di Porto e i problemi arrecati ai Romani

Nel frattempo Vitige decise per rappresaglia di uccidere i senatori romani rifugiatisi a Ravenna all'inizio della guerra.[8] Inoltre, per tagliare i contatti degli assediati con l'esterno, impedendo così loro di ricevere scorte di cibo e acqua, decise di conquistare Porto, lontana circa 20 stadi, la distanza che separa Roma dal Mediterraneo.[8] Dunque, trovatala senza presidio, i Goti occuparono Porto, sterminando la popolazione locale e arrecando grossi problemi agli assediati in quanto a Porto giungevano principalmente le scorte di cibo necessarie per resistere all'assedio.[8] I Romani furono quindi costretti a recarsi ad Ostia per rifornirsi di cibarie, facendo tra l'altro molta fatica in quanto abbastanza lontana da Roma a piedi.[8]

Scontri sotto le mura

Venti giorni dopo la conquista ostrogota di Porto, arrivarono a Roma i primi rinforzi inviati da Giustiniano: i generali Valentiniano e Martino alla testa di mille e cinquecento cavalieri, per lo più Unni, ma comprendenti anche Sclaveni ed Anti, popolazioni alleate dell'Impero residenti oltre Danubio.[9] Belisario, confortato dall'arrivo di rinforzi, decise di adoperare una tattica di guerriglia, approfittando della superiorità degli arcieri bizantini per logorare le forze nemiche: ordinò ad una sua lancia, Traiano, di attaccare, alla testa di duecento pavesai, i Goti, impedendo ai suoi di combatterli da vicino con la spada o con l'asta, e permettendo loro di adoperare solo l'arco; quando le frecce sarebbero finite i soldati bizantini sarebbero riparati alle mura.[9] Traiano, ricevuto l'ordine, prese i 200 pavesai e uscì con essi dalla Porta Salaria, dirigendosi verso il campo nemico.[9] I barbari, sorpresi dall'arrivo dei 200 pavesai, si gettarono fuori degli steccati per assalire l'armata di Traiano, dispostosi sulla sommità di una collina per ordine di Belisario: i pavesai di Traiano cominciarono a colpire i nemici di frecce, uccidendone almeno mille, per poi ripararsi dentro le mura.[9] Visto che la tattica di guerriglia cominciava a dare i suoi frutti, infliggendo perdite all'armata nemica, Belisario, alcuni giorni dopo, inviò trecento pavesai alla testa di Mundila e Diogene, per attaccare allo stesso modo, adoperando l'arco, gli Ostrogoti, infliggendo così loro delle perdite persino peggiori rispetto al primo scontro; Belisario, incoraggiato, inviò altri trecento pavesai sotto il comando di Oila, i quali inflissero ulteriori perdite ai Goti; in tre scontri sotto le mura, gli arcieri di Belisario era riusciti a uccidere, secondo Procopio, ben 4.000 Goti.[9]

Vitige, allora, volendo adoperare la stessa tattica di Belisario, ordinò a cinquecento cavalieri di avvicinarsi alle mura, e di fare all'esercito di Belisario la stessa accoglienza che essi avevano ricevuto.[9] I cinquecento cavalieri goti, saliti su un'altura non distante da Roma, furono però attaccati da 1.000 arcieri scelti bizantini posti sotto il comando di Bessa, i quali, attaccando a suon di frecce i guerrieri goti, inflissero loro pesanti perdite, costringendo i pochi superstiti a fuggire negli accampamenti goti, dove furono pesantemente rimproverati per il loro fallimento da Vitige, il quale sperava che il giorno successivo, adoperando diversi combattenti e la stessa tattica, il successo avrebbe forse arriso ai Goti.[9] Due giorni dopo Vitige inviò altri cinquecento Goti, selezionati da tutti i suoi campi, contro il nemico; Belisario, accortosi del loro arrivo, inviò a combatterli Martino e Valeriano alla testa di mille e cinquecento cavalieri, i quali inflissero pesanti perdite agli Ostrogoti.[9]

Procopio spiega i motivi per cui la tattica di guerriglia di Belisario aveva successo: Belisario, infatti, si era accorto dei talloni di Achille dell'esercito ostrogoto, e stava provando a sfruttarli: infatti, mentre "quasi tutti i Romani, gli Unni ed i confederati loro sono valentissimi arcieri a cavallo", i cavalieri ostrogoti al contrario non sapevano combattere con l'arco, venendo addestrati a maneggiare le sole aste e spade; per questo motivo, negli scontri non in campo aperto, gli arcieri a cavallo bizantini, approfittando della loro abilità nell'arco, riuscivano ad infliggere pesanti perdite al nemico.[9]

 

 

LO SCONTRO IN CAMPO APERTO E LE PESANTI PERDITE SUBITE DAGLI IMPERIALI:RE VITIGE TUTTAVIA TOGLIE L'ASSEDIO PER PAURA DI ESSERE TAGLIATO FUORI DAL NORD D'ITALIA

 

 

L'ASSEDIO E LA DISTRUZIONE DI MILANO DEL 539 d.C.: I GOTI PORTANO LA GUERRA NEL NORD

La sempre più precaria situazione politica e militare causò però alla città diverse ferite e Milano conobbe, nel 539, la sua prima distruzione: l'imperatore romano d'Oriente Giustiniano I, deciso a riconquistare i territori imperiali d'occidente, attaccò il re goto Teodato inviando in Italia al comando delle sue truppe il generale Belisario, iniziando quella che diventerà la lunga Guerra gotica; durante l'assedio di Roma del 537-538, durante l'inverno del 537-538, Belisario ricevette a Roma il vescovo di Milano, Dazio, con alcuni tra i cittadini milanesi più illustri: questi chiesero al generalissimo di inviare nell'Italia nord-occidentale (provincia di Liguria) un piccolo esercito; se l'avesse fatto, loro avrebbero consegnato all'Impero non solo Milano, ma tutta la provincia romana di Liguria (grossomodo corrispondente all'Italia nord-occidentale).[4]

Belisario mantenne le promesse: mandò via mare un esercito 1.000 uomini per intraprendere la conquista della Liguria. L'esercito bizantino sbarcò a Genova e riuscì in breve tempo a occupare Milano, Bergamo, Como, Novara e a tutti gli altri centri della Liguria ad eccezione di Pavia. La reazione di Vitige, tuttavia, non si fece attendere: inviò Uraia con un consistente esercito per cingere d'assedio Milano, e sollecitò il re dei Franchi, Teodeberto I, a intervenire in suo sostegno. Teodeberto, però, avendo stretto dei trattati di alleanza con Giustiniano (che non aveva rispettato), decise prudentemente di non intervenire direttamente nel conflitto, inviando a dar manforte ai Goti non guerrieri franchi ma 10.000 guerrieri burgundi, sudditi dei Franchi.

Belisario decise di inviare soldati alla liberazione di Milano, ma la divisione in due fazioni dell'esercito bizantino in seguito all'arrivo in Italia del generale Narsete, fece sì che la parte dell'esercito dalla parte di Narsete disubbedì agli ordini di Belisario di accorrere alla liberazione di Milano se non l'avesse autorizzato prima esplicitamente Narsete. Quando arrivò l'autorizzazione di Narsete era troppo tardi: gli stenti subiti dai Milanesi assediati si aggravarono a tal punto «per la mancanza di cibo che molti non disdegnavano di mangiar cani, sorci ed altri animali abborriti prima per cibo dell’uomo»[5] e la guarnigione imperiale decise quindi di arrendersi. Milano fu distrutta:

« Milano quindi fu agguagliata al suolo, e massacrato ogni suo abitatore di sesso maschile, non risparmiandosi età comunque, e per lo meno aggiugnevane il numero a trecento mila; le femmine custodite in ischiavitù spedironsi poscia in dono ai Burgundioni, guiderdonandoli con esse del soccorso avutone in questa guerra. Oltre di che rinvenuto là entro Reparato prefetto del Pretorio lo fecero a pezzi e gittaronne le carni in cibo ai cani. Gerbentino, pur egli quivi di stanza, poté co’ suoi trasferirsi per la veneta regione e pe’confini delle vicine genti nella Dalmazia, e passato in seguito a visitare l’imperatore narrogli a suo bell’agio quell’immensa effusione di sangue. Quindi i Gotti, occupate per arrendimento tutte le altre città guernite dalle armi imperiali, dominarono l’intera Liguria. Martino ed Uliare coll’esercito si restituirono in Roma. »
(Procopio, La Guerra Gotica, II, 21.)

In realtà la cifra di Procopio di 300.000 milanesi maschi massacrati è esagerata e va perlomeno divisa per dieci (30.000).

Al termine della guerra gotica, che durò fino al 553/554, ma si protrasse in alcune zone dell'Italia settentrionale fino al 561/562, l'Italia fu conquistata dai Bizantini e Milano, secondo la Cronaca di Mario Aventicense, fu ricostruita per opera di Narsete:[6]

(LA)
« Hoc anno Narses ex praeposito et patricio post tantos prostratos tyrannos, ... Mediolanum vel reliquas civitates, quas Goti destruxerant, laudabiliter reparatas, de ipsa Italia a supra scripto Augusto remotus est.» »
(IT)
« In quest'anno [568] Narsete ex proposito e patrizio, dopo aver abbattuto tanti tiranni... e ricostruite lodevolmente Milano e le città rimaste, che i Goti avevano distrutto, fu destituito dal governo dell'Italia dal suddetto Augusto [Giustino II]. »
(Mario Aventicense, Chronica, Anno 568.)

Sembra che nel breve periodo bizantino potrebbe essere stata elevata a capitale della diocesi italiana (Italia del Nord), anche se ciò non è certo.[7] Infatti, intorno alla fine del VI secolo, Genova risulta essere la sede dei vicarii del prefetto del pretorio d'Italia, che potrebbero essersi trasferiti, insieme all'arcivescovo di Milano, a Genova dopo la conquista longobarda di Milano (3 settembre 569).

 

 

 

LA DECADENZA SOTTO IL PRIMO PERIODO LONGOBARDO E LA COSTRUZIONE DEL TICINELLO COME BARRIERA CONTRO LE INVASIONI DA PAVIA (568-590 d.C) DA ALBOINO ALL'ANARCHIA DEI DUCHI LONGOBARDI. IL RUOLO DI TEODOLINDA,REGINA DEI BAVARI

L'entrata in scena dei Longobardi arrivava all'improvviso. Popolo poco conosciuto alle cronache romane si contraddistingueva dagli altri popoli di lingua germanica per non aver subito alcun influsso romano contrariamente a Franchi,Visigoti,Ostrogoti che si erano divisi le spoglie dell'impero.

Nel periodo successivo alle Guerre marcomanniche la storia dei Longobardi è sostanzialmente sconosciuta. L'Origo riferisce di un'espansione nelle regioni di "Anthaib", "Bainaib" e "Burgundaib"[27], spazi compresi tra il medio corso dell'Elba e l'attuale Boemia settentrionale[28][29]. Si trattò di un movimento migratorio dilazionato nel corso di un lungo periodo, compreso tra il II e il IV secolo, e non costituì un processo unitario, quanto piuttosto una successione di piccole infiltrazioni in territori abitati contemporaneamente anche da altri popoli germanici[28][30][31].

Tra la fine del IV e l'inizio del V secolo, i Longobardi tornarono a darsi un re, Agilmondo[32], e dovettero confrontarsi con gli Unni, chiamati "Bulgari" da Paolo Diacono[33]. Sempre tra IV e V secolo ebbe avvio la trasformazione dell'organizzazione tribale longobarda verso un sistema guidato da un gruppo di duchi; questi comandavano proprie bande guerriere sotto un sovrano che, ben presto, si trasformò in un re vero e proprio. Il re, eletto come generalmente accadeva in tutti i popoli indoeuropei per acclamazione dal popolo in armi, aveva una funzione principalmente militare, ma godeva anche di un'aura sacrale (lo "heill", "carisma"); tuttavia, il controllo che esercitava sui duchi era generalmente debole[34].

Nel 488-493 i Longobardi, guidati da Godeoc e poi da Claffone, "ritornarono" alla storia e, attraversata la Boemia e la Moravia[35][36], si insediarono nella "Rugilandia", le terre a ridosso del medio Danubio lasciate libere dai Rugi a nord del Norico dove, grazie alla fertilità della terra, poterono rimanere per molti anni[36][37]; per la prima volta entrarono in un territorio marcato dalla civiltà romana[35]. Giunti presso il Norico, i Longobardi ebbero conflitti con i nuovi vicini, gli Eruli, e finirono per stabilirsi nel territorio detto "Feld" (forse la Piana della Morava, situata a oriente di Vienna[36][38]).

Un'alleanza con Bisanzio e i Franchi permise a re Vacone di mettere a frutto le convulsioni che scossero il regno ostrogoto dopo la morte del re Teodorico nel 526: sottomise così gli Suebi presenti nella regione[39] e occupò la Pannonia I e Valeria (l'attuale Ungheria a ovest e a sud del Danubio)[40][41]. Alla sua morte (540) il figlio Valtari era minorenne; quando, pochi anni dopo, morì, il suo reggente Audoino usurpò il trono[42] e modificò il quadro delle alleanze del predecessore, accordandosi (nel 547 o nel 548) con L'imperatore bizantino Giustiniano I[42] per occupare, in Pannonia, la provincia Savense (il territorio che si stende fra i fiumi Drava e Sava) e parte del Norico, in modo da schierarsi nuovamente contro i vecchi alleati Franchi e Gepidi e consentire a Giustiniano di disporre di rotte di comunicazione sicure con l'Italia[43][44].

Grazie anche al contributo militare di un modesto contingente bizantino e, soprattutto, dei cavalieri avari[12], i Longobardi affrontarono i Gepidi e li vinsero (551)[45], mettendo fine alla lotta per la supremazia nell'area norico-pannonica. In quella battaglia si distinse il figlio di Audoino, Alboino. Ma uno strapotere dei Longobardi in quella zona non serviva gli interessi di Giustiniano[46][47] e quest'ultimo, pur servendosi di contingenti longobardi anche molto consistenti contro Totila e perfino contro i Persiani[48], cominciò a favorire nuovamente i Gepidi[46][47]. Quando Audoino morì, il suo successore Alboino dovette stipulare un'alleanza con gli Avari, che però prevedeva in caso di vittoria sui Gepidi che tutto il territorio occupato dai Longobardi andasse agli Avari[47]. Nel 567 un doppio attacco ai Gepidi (i Longobardi da ovest, gli Avari da est) si concluse con due cruente battaglie, entrambe fatali ai Gepidi, che scomparivano così dalla storia; i pochi superstiti vennero assorbiti dagli stessi Longobardi[49][50]. Gli Avari si impossessavano di quasi tutto il loro territorio, salvo Sirmio e il litorale dalmata che tornarono ai Bizantini[50][51].

Invasione dell'Italia

Sconfitti i Gepidi, la situazione era cambiata assai poco per Alboino, che al loro posto aveva dovuto lasciar insediare i non meno pericolosi Avari; decise quindi di lanciarsi verso le pianure dell'Italia, appena devastate dalla sanguinosa Guerra gotica. Nel 568 i Longobardi invasero l'Italia attraversando l'Isonzo[52]. Insieme a loro c'erano contingenti di altri popoli[53]. Jörg Jarnut, e con lui la maggior parte degli autori, stima la consistenza numerica totale dei popoli in migrazione tra i cento e i centocinquantamila fra guerrieri, donne e non combattenti[52]; non esiste tuttavia pieno accordo tra gli storici a proposito del loro reale numero[54].

La resistenza bizantina fu debole; le ragioni della facilità con la quale i Longobardi sottomisero l'Italia sono tuttora oggetto di dibattito storico[55]. All'epoca la consistenza numerica della popolazione era al suo minimo storico, dopo le devastazioni seguite alla Guerra gotica[55]; inoltre i Bizantini, che dopo la resa di Teia, l'ultimo re degli Ostrogoti, avevano ritirato le migliori truppe e i migliori comandanti[55] dall'Italia perché impegnati contemporaneamente anche contro Avari e Persiani, si difesero solo nelle grandi città fortificate[52]. Gli Ostrogoti che erano rimasti in Italia verosimilmente non opposero strenua resistenza, vista la scelta fra cadere in mano ai Longobardi, dopotutto Germani come loro, o restare in quelle dei Bizantini.[55]

 

Nel 568 i Longobardi, condotti da Alboino, invasero l'Italia dalla Pannonia; dopo aver occupato le Venezie tranne alcune città costiere, Alboino invase la Lombardia e il 3 settembre della terza indizione (anno 569) entrò a Milano:

(LA)
« Alboin igitur Liguriam introiens, indictione ingrediente tertia, tertio nonas septembris, sub temporibus Honorati archiepiscopi Mediolanum ingressus est. Dehinc universas Liguriae civitates, praeter has quae in litore maris sunt positae, cepit. Honoratus vero archiepiscopus Mediolanum deserens, ad Genuensem urbem confugit. »
(IT)
« Alboino, invasa la Liguria, entrò a Milano nella terza indizione, il 3 settembre, ai tempi dell'arcivescovo Onorato. Successivamente conquistò tutte le città della Liguria, tranne quelle sul littoriale. Ma l'arcivescovo Onorato, abbandonando Milano, fuggì nella città di Genova. »
(Paolo Diacono, Historia Langobardorum, II, 25.)

Cartina politica dell'Italia nel 600 dopo Cristo. La linea rossa delimita la prima occupazione Longobrda estremamente frammentata

Come conseguenza della conquista, l'aristocrazia senatoria, il vescovo e gran parte del clero si rifugiano per più di settant'anni a Genova; la città si impoverisce gravemente, anche per il prevalere di Pavia, divenuta la capitale dei Longobardi.

Nel 588 Audualdo e altri sei duchi dei Franchi minacciano la città di Milano con il loro esercito mentre Autari è asserragliato a Pavia ma la dissenteria scoppiata tra le loro file li costringe a ritirarsi in Francia dopo aver conquistato numerose fortezze. All'inizio di novembre del 590, in seguito alla morte di Autari, Agilulfo, il duca di Torino, diviene il nuovo re con Teodolinda come consorte e sposta la capitale del Regno dei Longobardi da Pavia a Milano. Poco dopo nasce Gundeberga, figlia postuma di Autari. Nel maggio del 591 Agilulfo viene riconosciuto da tutti i longobardi quale nuovo re a Milano.

In questo periodo si ebbe una germanizzazione della regione intorno a Milano e di altre aree che complessivamente vennero chiamate Langobardia Maior (corrispondente allora a gran parte dell'Italia centro-settentrionale e avente come fulcro la capitale Pavia); questo termine, trasformatosi in Lombardia, passò a designare la regione intorno a Milano. Mentre gli Ostrogoti tentarono di portare avanti la cultura romana, inizialmente sotto i Longobardi la popolazione cittadina venne trattata come una popolazione di sconfitti soggetta a pesanti tributi che andavano nelle tasche dei liberi germanici. Le cose migliorarono col regno di Autari (584-590) e ancor di più sotto la regina Teodolinda, che si era convertita al cattolicesimo dall'originario arianesimo.

 

  • LA FINE DELLA PREFETTURA D'ITALIA (584 d.C.):nasce l'Esarcato con capitale Ravenna ed i Ducati di Roma,Calabria,Amalfi
  • Il 13 agosto 554, con la promulgazione a Costantinopoli da parte di Giustiniano di una Pragmatica sanctio (pro petitione Vigilii) (Prammatica sanzione sulle richieste di papa Vigilio), l'Italia rientrava, sebbene non ancora del tutto pacificata, nel dominio romano.[2] Con essa Giustiniano estese la legislazione dell'Impero all'Italia, riconoscendo le concessioni attuate dai re goti fatta eccezione per l' "immondo" Totila, e promise fondi per ricostruire le opere pubbliche distrutte o danneggiate dalla guerra, garantendo inoltre che sarebbero stati corretti gli abusi nella riscossione delle tasse e sarebbero stati forniti fondi all'istruzione.[3] Narsete avviò inoltre la ricostruzione di un'Italia in forte crisi dopo un conflitto così lungo e devastante, riparando anche le mura di varie città ed edificando numerose chiese, e fonti propagandistiche parlano di un'Italia riportata all'antica felicità sotto il governo di Narsete.[4] Secondo la storiografia moderna tali fonti sono però esageratamente ottimistiche, in quanto, nella realtà dei fatti, Roma faticò, nonostante i fondi promessi, a riprendersi dalla guerra e l'unica opera pubblica riparata nella Città Eterna di cui si ha notizia è il ponte Salario, distrutto da Totila e ricostruito nel 565.[5] Nel 556 Papa Pelagio si lamentò in una lettera delle condizioni delle campagne, «così desolate che nessuno è in grado di recuperare.»[6] Anche il declino del senato romano non fu fermato, portando alla sua dissoluzione agli inizi del VII secolo.

    La prefettura del pretorio d'Italia, suddivisa in province.

    Narsete rimase ancora in Italia con poteri straordinari e riorganizzò anche l'apparato difensivo, amministrativo e fiscale. A difesa della penisola furono stanziati quattro comandi militari, uno a Forum Iulii (vicino al confine con Norico e Pannonia), uno a Trento, uno in Insubria ed infine uno presso le Alpi Cozie e Graie.[7] L'Italia fu organizzata in Prefettura e suddivisa in due diocesi, a loro volta suddivise in province:[7]

    1. Alpes Cotiæ (Piemonte e Liguria)
    2. Liguria (Lombardia e Piemonte orientale)
    3. Venetia et Histria (Veneto, Trentino, Friuli e Istria)
    4. Æmilia (Emilia)
    5. Flaminia (ex Ager Gallicus)
    6. Picenum
    7. Alpes Apenninæ (gli Appennini settentrionali)
    8. Tuscia (Toscana e Umbria)
    9. Valeria (Sabina)
    10. Campania (Lazio litoraneo e Campania litoranea)
    11. Samnium (Abruzzo e Irpinia)
    12. Apulia (Puglia)
    13. Calabria (Cilento, Basilicata e Calabria)

    Nel 568 l'imperatore Giustino II (565-578), in seguito alle proteste dei Romani[8], rimosse dall'incarico di governatore Narsete, sostituendolo con Longino. Il fatto che Longino sia indicato nelle fonti primarie[9] come prefetto indica che governasse l'Italia in qualità di prefetto del pretorio, anche se non si può escludere che fosse anche il generale supremo delle forze italo-bizantine.[10]

     

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    Intorno al 580, stando alla Descriptio orbis romani di Giorgio Ciprio, Tiberio II divise in cinque province o eparchie l'Italia bizantina:

    • Urbicaria, comprendente i possedimenti bizantini in Liguria, Toscana, Sabina, Piceno, e Lazio litoraneo (tra cui Roma);
    • Annonaria, comprendente i possedimenti bizantini nella Venezia e Istria, in Æmilia, nell'Appennino settentrionale e nella Flaminia;
    • Æmilia, comprendente i possedimenti bizantini nella parte centrale dell'Æmilia, a cui si aggiungono l'estremità sud-occidentale della Venezia (Cremona e zone limitrofe) e l'estremità sud-orientale della Liguria (con Lodi Vecchio);
    • Campania, comprendente i possedimenti bizantini nella Campania litoranea, nel Sannio e nel Nord dell'Apulia;
    • Calabria, comprendente i possedimenti bizantini nel Cilento, in Lucania e nel resto dell'Apulia.

    Tale riforma amministrativa dell'Italia sembra motivata dall'adattare l'amministrazione dell'Italia alle necessità militari del momento, visto che gran parte della penisola era soggetta alle devastazioni dei Longobardi e ogni tentativo (compresa la spedizione di Baduario) per debellarli era fallito. Prendendo dunque atto delle conquiste effettuate dai Longobardi, fu introdotto con la riforma il sistema dei «tratti limitanei», anticipando la riforma dell'Esarcato, che fu realizzata alcuni anni dopo.[15]

    Fine della prefettura: l'istituzione dell'esarcato (584 ca)

    Exquisite-kfind.png Per approfondire, vedi Esarcato d'Italia.

    Per arginare l'invasione longobarda, l'imperatore Maurizio (582-602) prese nuovi provvedimenti nell'Italia bizantina, decidendo di sopprimere la Prefettura del pretorio d'Italia, sostituendola con l'Esarcato d'Italia, governato dall'esarca, la massima autorità civile e militare della nuova istituzione. La carica di prefetto d'Italia non venne abolita fino ad almeno a metà del VII secolo, anche se divenne subordinata all'esarca.[16] I confini dell'Esarcato d'Italia non furono mai definiti, dato l'incessante stato di guerra tra bizantini e longobardi.

    Il primo riferimento nelle fonti dell'epoca all'esarcato e all'esarca si ebbe nel 584: in una lettera, Papa Pelagio II menziona per la prima volta un esarca (forse il patrizio Decio citato nella stessa missiva). Secondo alcuni storici moderni, l'esarcato, all'epoca della lettera (584), doveva essere stato istituito da poco tempo.[16]

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    LONGOBARDIA E ROMANIA DAL TRATTATO DEL 603 d.C. tra l'imperatore Niceforo Foca ed il re dei Longobardi Agigulfo. Decade la Prefettura d'Italia e nasce l'Esarcato. I re longobardi si definiscono Gratia Dei rex totius Italiae ("Per grazia di Dio, re dell'Italia intera") e non più soltanto Rex Langobardorum ("Re dei Longobardi")

    Agilulfo e Teodolinda garantirono i confini del regno attraverso trattati di pace con Franchi e Avari; le tregue con i Bizantini, invece, furono sistematicamente violate e il decennio fino al 603 fu segnato da una marcata ripresa dell'avanzata longobarda. Al nord Agilulfo occupò, tra le varie città, anche Parma, Piacenza, Padova, Monselice, Este, Cremona e Mantova, mentre anche a sud i duchi di Spoleto e Benevento ampliavano i domini longobardi[70].

    Il rafforzamento dei poteri regi avviato da Autari prima e Agilulfo poi segnò anche il passaggio a una nuova concezione territoriale basato sulla stabile divisione del regno in ducati. Ogni ducato era guidato da un duca, non più solo capo di una fara ma funzionario regio, depositario dei poteri pubblici e affiancato da funzionari minori (sculdasci e gastaldi). Con questa nuova organizzazione il Regno longobardo avviò la sua evoluzione da occupazione militare a Stato[69]. L'inclusione dei vinti Romanici era un passaggio inevitabile e Agilulfo compì alcune scelte simboliche volte ad accreditarlo presso la popolazione latina: per esempio, si definì Gratia Dei rex totius Italiae ("Per grazia di Dio, re dell'Italia intera") e non più soltanto Rex Langobardorum ("Re dei Longobardi")[71]. In questa direzione si inscrive anche la forte pressione - svolta soprattutto da Teodolinda, che era in rapporti epistolari con lo stesso papa Gregorio Magno[72] - verso la conversione al cattolicesimo dei Longobardi, fino a quel momento ancora in gran parte pagani o ariani, e la ricomposizione dello Scisma tricapitolino[70]. Paolo Diacono esalta la sicurezza finalmente raggiunta, dopo gli sconvolgimenti dell'invasione e del Periodo dei Duchi, sotto il regno di Autari e Teodolinda:

    (LA)
    « Erat hoc mirabile in regno Langobardorum: nulla erat violentia, nullae struebantur insidiae; nemo aliquem iniuste angariabat, nemo spoliabat; non erant furta, non latrocinia; unusquisque quo libebat securus sine timore pergebat. »
    (IT)
    « C'era questo di meraviglioso nel regno dei Longobardi: non c'erano violenze, non si tramavano insidie; nessuno opprimeva gli altri ingiustamente, nessuno depredava; non c'erano furti, non c'erano rapine; ognuno andava dove voleva, sicuro e senza alcun timore. 
    »

    (Paolo Diacono, Historia Langobardorum, III, 16)

     

  • ^ a b Jarnut, p.44.
  • ^ a b Jarnut, p. 42.
  • ^ Jarnut, p. 43.
  • ^ Paolo Diacono, IV, 9.
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    DALLE LUNGHISSIME GUERRE LONGOBARDO-BIZANTINE ALLA STABILIZZAZIONE DEL REGNO

    L'iniziale incoerenza dell'occupazione longobarda,con duchi e fare che gestivano in proprio la dominazione del territorio,aveva ceduto via via alla creazione di un potere centrale stabile in grado di garantire la sicurezza sia all'interno che all'esterno. All'interno la stabilizzazione avvenne attraverso una lunghissima guerra contro i possedimenti bizantini che piano piano vennero incorporati nel regno longobardo.
     

    (il regno longobardo alla massima espansione, 770 d.c.)

     

     

     

    Indagine su Hitler: davvero morì nel bunker?

    Mancano prove della morte del dittatore. E gli ultimi dossier Fbi desecretati descrivono la sua fuga da Berlino. History Channel li ha fatti esaminare 
da un ex agente Cia e da uno dei cacciatori di Bin Laden. Scoprendo che la sua presenza fu segnalata in Argentina negli anni Cinquanta.
    Dal 26 ottobre al 14 dicembre, ogni lunedì alle 21.00 History Channel (canale 407 di Sky) presenta 'Hunting Hitler' il progetto documentaristico in otto puntate di un'ora sul mistero della morte del dittatore tedesco. Il corpo infatti non fu ritrovato nel bunker di Berlino. Il team di History Channel, che include la 'leggenda' della Cia Robert Baer, ha indagato sui file dell'Fbi sulla presenza di Hitler in Argentina negli anni Cinquanta

     

    Indagine su Hitler: davvero morì nel bunker?

     

     

     

    LINEA DEL FRONTE AL 23 MAGGIO 1945, ALL'ARRESTO DELL'ULTIMO GOVERNO NAZISTA A FLENSBURG.

     

    'Ritrovato un treno nazista carico d'oro'. La scoperta scuote la Polonia

    Due uomini, un tedesco e un polacco, nei giorni scorsi hanno comunicato alle autorità di Wroclaw, in Polonia, di aver ritrovato un treno carico di beni preziosi. Da decenni si vociferava dell'esistenza del convoglio, che i soldati della Wehrmacht avrebbero tentato di salvare dall'avanzata dell'Armata Rossa. Secondo i due ricercatori è stato rinvenuto in un tunnel ferroviario in disuso

     

    'Ritrovato un treno nazista carico d'oro'. La scoperta scuote la Polonia
    Un treno carico di armi, gioielli, oro e materiale industriale è stato ritrovato a Wałbrzych, cittadina nell'ovest del Paese ai confini con la Repubblica ceca e vicino all'antica città tedesca di Breslavia. Ad annunciarlo è il sindaco , che in una conferenza stampa ha confermato le notizie che erano già emerse nei giorni scorsi quando due persone, un polacco e un tedesco, avevano contattato le autorità locali comunicando la scoperta e chiedendo il 10 per cento dei proventi.

    Il ritrovamento confermebbe la veridicità di molte dicerie che negli ultimi decenni si erano diffusi nella regione
     . Il treno sarebbe appartenuto alla Wehrmacht (l'esercito regolare tedesco) e sarebbe stato in fuga dall'avanzata sovietica sul finire della seconda guerra mondiale. Entrato in una galleria vicino al castello di Książ, tra le montagne, non sarebbe più emerso. Secondo la stampa locale il tunnel sarebbe poi stato chiuso dimenticando il convoglio al suo interno.

    Lungo circa 150 metri, il materiale trovato al suo interno 
    avrebbe un inestimabile valore economico e storiografico . Nonostante non sia ancora stato comunicato cosa precisamente contenga sono già in molti a fantasticare quali meravigliose ricchezze i tedeschi avessero stipato al suo interno. Diversi storici si sono già messi alla ricerca della provenienza del treno, per individuare l'origine del carico.

    Durante la Seconda Guerra mondiale, infatti, i nazisti prelevarono oltre 550 milioni di dollari in oro dai governi dei Paesi occupati. Quando capirono che la capitolazione era vicina i soldati della Wehrmacht tentarono di mettere al sicuro i bottini dall'avanzata sovietica, trasportandoli nel cuore della Germania. Molto di essi andarono perduti, in conti bancari secretati o nelle valigie di alcuni ufficiali. Alcuni però sono rimasti dispersi in zone desolate degli ex territori occupati. Come quelli ritrovati sul treno abbandonato.

     

     

     

    L'ARMADIO DELLA VERGOGNA ITALIANO: DOPO L'8 SETTEMBRE 1943, UN MILIONE DI DEPORTATI, 25.000 MORTI AMMAZZATI SU SUOLO ITALIANO PER RAPPRESAGLIA , FUCILAZIONI DI MASSA DEI SOLDATI ITALIANI CHE NON SI ARRESERO AI TEDESCHI, IL TUTTO IN 695 FASCICOLI, SOLO 300 DEI QUALI APERTI CON UNA INCHIESTA.....

     

     

     

     

     

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    A passeggio sull'Adige in secca: spunta il ponte bombardato dagli inglesi nel 1945

    Camminare sul letto dell’Adige. Anche questo è possibile grazie alla secca che da giorni interessa il fiume che attraversa Bassa padovana e Polesine. Tra Lusia e Barbona, in particolare, lo spazio divenuto calpestabile è piuttosto ampio e presenta un altro scenario originale: è infatti possibile vedere quello che resta del vecchio ponte bombardato il 20 aprile 1945. Il ponte in legno correva parallelo a quello attuale ed è crollato sotto le bombe inglesi della Seconda Guerra Mondiale: doveva essere il principale bersaglio di quell’attacco, ma in realtà nelle esplosioni morirono anche 74 civili, quasi tutti residenti del Comune rodigino. I piloni in legno che sostenevano quel passaggio ora sono ben visibili, ancora saldi e sistemati in doppie file. Il video che immortala i resti di questa infrastruttura è stato girato questa mattina dal nostro cronista Nicola Cesaro.

     

     

    Dalla precipitosa ritirata della 10a e 14a armata tedesca dall'Italia (20 aprile 1945).Incredibilmente Hitler mantenne in Italia qualcosa come 19 divisioni(seppur rimaneggiate)più due di riserva, e questo nonostante sul fronte ovest si necessitasse urgentemente di un afflusso di uomini. E' vero che gli Alleati, proprio per impedire un poderoso afflusso da sud, distrussero sistematicamente tutte le linee di collegamento tra Italia e Germania, tuttavia tutti i valichi alpini rimasero in mano ai tedeschi fino al 29 aprile 1945 ed altresi c'è da aggiungere che gli Alleati, pur sbarcati in Provenza nell'agosto del 1944,non aprirono MAI un fronte che aggredisse da ovest ed alle spalle il dispositivo della Linea Gotica (anche qui le motivazioni sono assolutamente sconosciute....). Nonostante cio' Hitler negò assurdamente la ritirata che avrebbe potuto creare un corridoio d'uscita a sud della trappola di Berlino dando manforte alla 12a armata del generale Wenk. Quando i generali ed il plenipotenziario delle SS Wolff decisero di agire autonomamente ormai il fronte era saltato per aria e solo poche unità, prevalentemente del LXXVI Corpo Corazzato posto ad est della Linea Gotica e quindi più vicino al confine, riuscirono ad imboccare la via del Brennero e dei valichi friulani.

    Durante l'estate, le divisioni del feldmaresciallo Kesselring, comandante del Gruppo di armate 'C' in Italia, si sono ritirate da Roma a Firenze subendo continui attacchi aerei alleati e, nonostante le numerose perdite, sono riuscite a sfuggire all'annientamento e a riorganizzarsi.
    Il 25 agosto 1944 solo alcune avanguardie delle divisioni tedesche in ritirata hanno raggiunto le posizioni difensive della Linea Gotica: secondo la tattica di Kesserling il grosso permane sulla Linea dell'Arno e del Metauro. Il feldmaresciallo dispone sulla Gotica di diciannove divisioni, anche se tutte rimaneggiate e molto sotto organico, raggruppate in due armate. La Decima Armata del generale von Vietinghoff tiene il settore orientale del fronte ed è formata da due corpi d'armata: il LXXVI Corpo corazzato, al comando del generale Herr, composto dalla 278a(1) e dalla 71a divisione(2) di fanteria che, insieme alla 5a divisione di fanteria da montagna(3), sono nel settore costiero adriatico lungo la linea fino a San Sepolcro, mentre la 1a paracadutisti(4) e la 162a turkmena(5) di fanteria sono di riserva sulla costa; il LI Corpo da montagna, comandato dal generale Feurstein, che copre la linea fino al confine tra le due armate (appena a ovest di Pontassieve) con cinque divisioni: la 114a Jaeger(6), la 44a(7), la 305a(8), la 334a(9) e la 715a di fanteria(10); come riserva, attorno a Cesena è stazionata la 98a divisione di fanteria(11) appena giunta su questo fronte. La Quattordicesima Armata del generale Lemelsen difende invece il fronte occidentale, da Pontassieve fino alla costa tirrenica, con otto divisioni. Il settore centrale è tenuto dal I Corpo paracadutisti, al comando del generale Shlemm, con la356a(12) e la 362a divisioni di fanteria(13) e la 4a paracadutisti(14). Vi è poi, sulla destra dei difensori, il XIV Corpo corazzato, al comando del generale Frido von Senger und Etterlin, schierato da Empoli fino al mare, con la26a divisione corazzata(15)(Nel passare il Po vi furono perdite altissime; moltissimi soldati che non sapevano nuotare annegarono, carichi degli equipaggiamenti e delle armi. Nonostante questo, alcuni reparti della "Ventiseiesima" continuarono a combattere aprendosi la strada verso il Brennero con le armi. Il 30 aprile la notizia della resa delle truppe tedesche in Italia raggiunse il grosso dell'unità nei pressi di Trento e Bolzano.), la 65a fanteria(16) e la 16a SS Panzergrenadier(17)
    (Quest'ultima trasferita in Ungheria nel febbraio 1945 per cercare di aprire un corridoio nella sacca di Budapest:Nell'agosto 1944 alcuni reparti della divisione si resero responsabili di numerose atrocità ai danni della popolazione civile: l'11 agosto a Nozzano (59 morti); il 12 agosto quattro compagnie del II battaglione del 35. reggimento aSant'Anna di Stazzema (560 morti); ancora effettivi del 35. reggimento a Vinca (170 morti) il 24 agosto; nel mese di settembre effettivi di questa divisione effettuarono il rastrellamento della Certosa di Farneta trucidando nei giorni seguenti i prigionieri (strage di Farneta e strage delle Fosse del Frigido; infine a Marzabotto (Bologna) dove tra il 29 settembre e il 1º ottobre 1944 furono trucidate circa 750 persone. Per l'eccidio di Marzabotto l'unità responsabile fu il 16. Reparto corazzato di ricognizione (16. SS Panzer Aufklarung Abteilung) comandato dal maggiore (Sturmbannführer) Walter Reder. Pur se spedita ad est per contrastare l'avanzata russa, non venne annientata e riusci' a riparare in Austria arrendendosi agli inglesi a Klagenfurt nel sud della Carinzia il 5 maggio 1945) In riserva, la 29a divisione Panzergrenadier(18)(AL MOMENTO DELLO SFONDAMENTO DELLA LINEA GOTICA SI RITIRÒ COMBATTENDO DA BOLOGNA VERSO IL FIUME PO E POI VERSO IL VENETO E IL FIUME PIAVE.

    05/1945: Si arrese alle truppe britanniche sul fiume PIAVE, a FELTRE.)

     e la 20a divisione da campo Luftwaffe(19). In più, nelle immediate retrovie tirreniche, è schierata l'Armata Liguria del maresciallo Graziani, di composizione mista italo-tedesca, che da parte germanica vede schierate nell'orbita della Gotica la 34a divisione fanteria(20) e la 42a Jaeger(21), oltre a due divisioni fasciste italiane.
    Come per le divisioni di terra, costrette a trincerarsi sulla Gotica a ranghi ridotti, anche nei cieli la situazione della Luftwaffe non è delle migliori, con una flotta ridotta a poche decine di caccia e ricognitori.

    Nel giro di due giorni la situazione per i tedeschi precipitò: il 19 aprile 1945 il fronte tedesco stava crollando sotto i colpi degli americani che erano nei sobborghi di Bologna mentre le loro avanguardie corazzate erano già in marcia verso il Po. Quasi tutte le forze di Vietinghoff erano state impegnate in prima linea, ed egli aveva a disposizione ben poche riserve per contrastare le penetrazioni Alleate. Al generale tedesco fu ormai preclusa ogni possibilità di stabilizzare il fronte o di districare le sue forze; l'unica speranza di salvarle risiedeva nella ritirata. Ma Hitler aveva già respinto le proposte del generale Herr per una difesa elastica, mediante ripiegamenti tattici da ciascun fiume al successivo, in modo tale da frustrare l'offensiva dell'8ª armata e rallentarla consentendo ai tedeschi una ritirata ordinata. Già il 14 aprile, prima che gli americani iniziassero l'offensiva, Vietinghoff chiese di essere autorizzato a ritirarsi sul Po prima che fosse troppo tardi. Il suo appello fu respinto, ma il 20 aprile si assunse personalmente la responsabilità di ordinare la ritirata[66].

    Negoziati dietro le quinte per una resa erano cominciati già in febbraio tra il generale Karl Wolff, il capo delle SS in Italia, e Allen W. Dulles, capo dell'Office of Strategic Services (OSS) statunitense in Svizzera, inizialmente tramite la mediazione dell'ambasciata svizzera e poi, dopo la liberazione del capo della Resistenza italiana Ferruccio Parri il 3 marzo come segno di buona volontà da parte tedesca, con colloqui diretti a quattrocchi, con lo scopo di negoziare la resa separata delle forze tedesche nel nord Italia ed il trapasso dei poteri dalla Repubblica Sociale Italiana alle forze angloamericane appartenenti agli Alleati.[68].

    Wolff e Dulles si incontrarono l'8 marzo a Zurigo per discuterne i termini. Il 19 marzo Wolff vide ad Ascona il generale statunitense Lyman Lemnitzer e il parigrado inglese Terence Airey. Il tutto all'insaputa di Adolf Hitler e Benito Mussolini, ma con un tacito accordo di Heinrich Himmler[71]. Gli scopi erano diversi: gli anglo-americani intendevano accelerare la vittoria in Italia per poter concentrare le forze in Germania e eventualmente nei Balcani; i tedeschi speravano di poter contrattare un salvacondotto verso la Germania che evitasse vendette finita la guerra e, nell'eventualità che questa fosse continuata, per potersi unire alle loro forze militari lì presenti intente a fronteggiare l'avanzata dell'Armata Rossa. Inoltre contatti segreti tra gli italiani militanti dalle due parti erano stati mantenuti fin dall'8 settembre 1943 e per tutto il periodo seguente all'armistizio, fra la Decima MAS della Repubblica Sociale e Mariassalto del Regno d'Italia, entrambe desiderose di evitare che i due reparti potessero scontrarsi direttamente sul fronte, gestire i prigionieri dell'una e dell'altra parte all'insaputa dei comandi rispettivamente tedeschi e angloamericani, e infine a coordinare un ipotetico tentativo di sbarco di truppe regie in Istria con il supporto dei reparti locali della Decima repubblicana per evitare l'invasione della Venezia Giulia da parte dei partigiani comunisti di Tito.

    Wolff fu probabilmente spinto a tale decisione dalla speranza di poter partecipare ad un ipotetico cambio di alleanze in funzione anticomunista, allineandosi con lepotenze occidentali, e per evitare ulteriori danni materiali in Italia. Il generale Wolff era una figura molto importante, in quanto oltre a controllare la politica delle SS in Italia era responsabile delle regioni dietro il fronte, e l'unico in grado di sventare l'idea di Hitler di fare delle Alpi una specie di ridotto nel quale tentare un'ultima resistenza[72]. A rallentare e intralciare i colloqui contribuirono da parte tedesca la nomina di Vietinghoff a comandante in capo in Italia al posto di Kesselring, ed il reciproco atteggiamento di sospetto e cautela che accompagna simili negoziati. Inoltre questi negoziati, di cui i sovietici furono informati ma a cui non furono invitati a partecipare, innescarono una accesa polemica personale tra i Tre Grandi: si verificò un aspro scontro epistolare tra Stalin e Roosevelt. Il dittatore sovietico accusò gli alleati occidentali di negoziare alle spalle dell'URSS e di favorire le manovre tedesche per dividere le tre grandi potenze. Roosevelt replicò negando queste circostanze e accusando gli informatori di Stalin di "mistificazioni"[73]. Dopo questo scontri nella prima settimana di aprile la dirigenza americana di Washington frenò le iniziative di Dulles.

    Inoltre all'inizio di aprile l'attività di Wolff fu "congelata" da Himmler. Fu così che sebbene dall'8 aprile Vietinghoff stesse prendendo in considerazione l'idea di una resa, non fu possibile raggiungere un risultato concreto in tempo per rendere superflua l'offensiva di primavera degli Alleati[72]. In un incontro del 23 aprile Wolff e Vietinghoff decisero di comune accordo di ignorare gli ordini di Hitler per una prosecuzione della resistenza, e di negoziare una resa. Entro il 25 Wolff aveva ordinato alle SS di non ostacolare i partigiani nelle loro operazioni, mentre lo stesso maresciallo Graziani manifestava il desiderio che le forze fasciste italiane si arrendessero[72].

    Alle 14:00 del 29 aprile a Caserta il colonnello Schweinitz e il suo aiutante Wenner, in rappresentanza del generale Vietinghoff sottoscrissero il documento che stabilì la resa incondizionata delle forze tedesche in Italia. I tedeschi firmarono il documento che prevedeva l'entrata in vigore della resa alle ore 13:00 (ora di Greenwich, le 14:00 in Italia) del 2 maggio 1945[74]. Nonostante un intervento in extremis di Kesselring, la resa entrò in vigore alla data prevista, sei giorni prima della resa tedesca sul fronte occidentale, predisposta attraverso lo stesso canale segreto (quello tra Wolff e Dulles).

    Sebbene gli Alleati avessero in mano la situazione militare che gli avrebbe assicurato la vittoria, questo canale spianò la strada ad una più rapida fine della guerra in Italia, risparmiando così innumerevoli vite umane e devastazioni materiali[72].Il giorno precedente l'entrata degli americani a Verona, cioè il 25 aprile, ebbe luogo l'insurrezione generale delle forze partigiane, che cominciarono ad attaccare ovunque i tedeschi. Tutti i passi alpini furono bloccati entro il 28 aprile, giorno in cui Benito Mussolini e Claretta Petacci insieme ad alcuni gerarchi del regime in fuga verso il confine svizzero, furono arrestati e sommariamente processati e giustiziati secondo le decisioni del CLNAI presso il lago di Como. Le truppe tedesche si stavano ormai arrendendo in massa, e dopo il 25 aprile l'inseguimento Alleato incontrò ovunque una resistenza pressoché nulla. Il 29 i neozelandesi raggiunsero Venezia e il 2 maggio Trieste, dove il principale motivo di preoccupazione si rivelò la presenza non dei tedeschi, bensì degli jugoslavi[68].

    Il tesoro dimenticato di Benito Mussolini abbandonato in un caveau di Bankitalia

    Il collare d'argento del Duce. La tuta da meccanico indossata dalla Petacci durante la fuga. Il vasellame lasciato dai Savoia al Quirinale. Oltre a lingotti d'oro, monili e preziosi frutto di sequestri e confische. Un patrimonio sterminato e catalogato solo in parte. Di cui lo Stato non conosce nemmeno il valore.

     

     

     

     

     

     

    COSTUME-Cinema-Musica

     

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    L'episodio definito "Operazione Dynamo", che nel giugno 1940 vide accerchiati dai soldati tedeschi 400mila fanti di Sua Maestà sulla spiaggia della cittadina francese, recuperati a fatica uno per uno perfino da centinaia di barchette private, rivive in scena grazie al regista di Interstellar. Il regista inglese rispetta il suo cinema percettivo, lavorando sul concetto di tempo e spazio. Tom Hardy un gradino sopra tutti recitando solo con gesti e sguardo.

    Combattenti di terra, di mare e del cielo. L’appello non è di Mussolini ma di Christopher Nolan per il suo ultimo film, Dunkirk. La celebre ritirata dei soldati inglesi tra maggio e giugno del 1940, quasi 400mila anime da riportare “a casa”, mentre i nazisti li stringono in un cul de sac di pochi chilometri e li bombardano in testa, è diventato un film definitivo, inappuntabile, stellare. Un film di fuga più che di guerra, un thriller claustrofobico in classici cunicoli e spazi ristretti più che un’epica strappalacrime in divisa. La narrazione è apparentemente suddivisa in capitoli spersonalizzanti (il molo, il mare, il cielo) in modo da privare lo spettatore di appigli emozionali sul classico pivot identitario dell’eroe qualunque da salvare.

    Ma è solo una traccia flebile, un abbozzo di percorso visivo che lascia immediatamente spazio e tempo ad uno svilupparsi del racconto frenetico, in medias res, senza spiegazioni storiche, che vuole un necessario rimescolamento di anime che provano a scappare con ogni mezzo, e mantenendo anche una certa dignità, lontano dal nemico tedesco. In fondo, proprio una ritirata militare così emblematica, e così umanamente totalizzante, può diventare cemento armato tra classi socioeconomiche, ranghi e corpi dell’esercito. E ancora: l’aiuto cruciale per salvare i soldati inglesi da parte delle imbarcazioni private, dai traghetti con centinaia di posti alle barchette da cinque passeggeri, condensa ulteriormente questa amalgama nazionale che sfocia in un patriottismo da cinema di guerra anni Cinquanta più che da qualsiasi rivisitazione storica post anni Sessanta.

     

    Un quotidiano inglese ha sottolineato quel “lasciarli scappare anonimamente” riferito ai soldati di Nolan, semplici fanti, caporali, colonnelli e perfino comandanti, ovvero il nucleo concettuale di una scelta stilistica caratterizzante che mette insieme discorso teorico/formale con quello contenutistico. Già, perché non dare un centro gravitazionale, non dare nomi propri (il film per almeno venti minuti è praticamente muto se non fosse per i rumori in campo) ma frammentare i soggetti in scena (a proposito: dei nazisti si vedono solo i proiettili, le bombe e gli Stuka) e poi – senza spoilerare troppo – far combaciare in pochi minuti le operazioni di una settimana sul “molo”, quelle in “acqua” di poco più di un giorno, quelle in “aria” di poco più di un’ora, è una magia spettacolare ed ammaliante, un numero da prestigiatore del cinema convincente e vincente, come se la forma supportasse il contenuto e viceversa.

    Ad un certo punto, quando per i soldati oltre il rischio dell’essere uccisi dagli aerei, mentre aspettano di salire su una nave, comincia l’agonia dell’annegamento, o addirittura la possibilità di morire ustionati mentre sono in acqua intrisi di benzina, comprendiamo come Dunkirk sia una lunga e sofferta operazione di salvataggio di un’intera nazione, di una compatta idea di bene contro il male, non di un eroe di guerra, o dell’individualismo, uno per tutti, di un soldato Ryan qualsiasi salvato dal maledetto proiettile del cecchino. Nolan non tradisce mai il suo cinema cerebrale – lo schema è praticamente tutto, l’estetica fine a sé stessa è niente – e percettivo, arricchendo Dunkirk di una gamma cromatica scurita e ingrigita (Hoyte van Hoytema, con lui per un’altra avventura visiva come Interstellar) mai sbilanciata sul didascalismo del raggio di sole di fronte all’avvenuta salvezza, fuso all’iperpresente bordone sonoro (Hans Zimmer) che compatta in un unico suono sia violini che ottoni con raffiche di mitra, ticchettii di sveglie, sciabordii, sirene, esplosioni, in un interessante esperimento rumoristico che mai lascia in pace l’ascolto alla stregua della sperimentazione più demodé. Aspetti tecnico-artistici che tendono a sfiorare il sublime se vi capiterà di vedere il film in una copia 70mm.

    Infine l’apporto attoriale (non ci sono donne, e a breve questo elemento un po’ nerd, misogino e robotico, spesso presente nel cinema di Nolan, diventerà un possibile handicap) è stipato all’interno di ruoli predefiniti che non necessitano di mimetizzazioni alla Actor’s Studio: faccia implume per Fionn Whitehead (definiamolo pure il protagonista); il solito folle e vile Cillian Murphy; l’austero Branagh; il compunto signor qualunque di Mark Rylance; e il salvatore estremo ed eroico dello spicchio di ritirata inglese inquadrata da Nolan, quel Tom Hardy pilota d’aereo che vi stupirà ancora una volta, dopo Il cavaliere oscuro, Locke e Mad Max: Fury Road, assolutamente a suo agio in un mutismo reiterato da brividi tutto gesti e sguardo.

     

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    London Grammar – Oh woman oh man – VIII Serale: http://www.wittytv.it/amici/london-grammar-oh-woman-oh-man-viii-serale/

    https://www.youtube.com/watch?v=oVQqmH4ufCQ

    .Nelle sale mercoledì il film con Nicolas Cage che racconta la vera storia della flotta che durante la seconda guerra mondiale portò i componenti per la bomba atomica e sulla via del ritorno venne colpita da un sottomarino giapponese provocando una drammatica odissea

    Una nave segreta, con il compito più delicato della storia: trasportate la prima bomba atomica mai costruita. Ma le missioni nel silenzio comportano sempre un rischio: se finisci nei guai, nessuno lo verrà a sapere. Questo è il dramma dell'Uss Indianapolis, l’incrociatore americano che si occupò di trasferire l’ordigno Little Boy fino alla base di decollo verso Hiroshima. E che sulla via del ritorno venne affondato da un sottomarino giapponese, provocando una drammatica odissea in alto mare per oltre ottocento uomini. Un’epopea degli oceani, cruciale per le sorti del conflitto ma con un sacrificio umano a poche ore dalla fine della guerra. E che adesso arriva sugli schermi con il film diretto da Mario Van Peebles con Nicolas Cage tra i protagonisti, nelle sale italiane mercoledì 19 con il semplice titolo Uss Indianapolis.

    L'Indianapolis era un incrociatore potente, con un equipaggio di veterani: era sfuggito per caso dall'attacco di Pearl Harbour e aveva partecipato alle battaglie più importanti del Pacifico. Aveva nove temibili cannoni da 203 millimetri e una selva di artiglierie di calibri minori per tenere alla larga gli aerei kamikaze. E soprattutto era veloce. Per questo nell'estate 1945 gli viene affidata una missione straordinaria: trasferire i componenti di Little Boy, l'arma più potente mai realizzata finora, fino all'isola di Tinian, nell'arcipelago delle Marianne, da dove sarebbe decollato l'Enola Gay per radere al suolo Hiroshima. Vengono fissati a bordo la carica di uranio, il complesso detonatore e l'involucro dell'ordigno, tutti costruiti nei laboratori di Los Alamos, tutti custoditi in contenitori speciali e anonimi: nessuno doveva sapere. Il 16 luglio salpa da San Francisco e in poco più di 74 ore raggiunge Pearl Harbour, mantenendo una media di 54 chilometri orari. Poi da lì riprende il largo per la fase più delicata dell'operazione: così segreta da non essere indicata in nessun documento, né comunicata al resto delle forze armate. Per ridurre le possibilità di venire scoperti, non c'è scorta: affrontano da soli la zona più pericolosa del Pacifico. Il 26 luglio c'è l'approdo: Little Boy viene affidata ai tecnici che prepareranno il primo bombardamento atomico della storia. Ma la presenza dell'Indianapolis resta comunque top secret, anche nel viaggio di ritorno. E sempre senza nessuna unità di rinforzo: una preda facile.

    Nelle prime ore del 30 luglio un sottomarino giapponese vede la sagoma dell'incrociatore illuminata dalla luna e lancia due siluri con estrema precisione. È una bordata letale: in solo dodici minuti il colosso da diecimila tonnellate si inabissa. Trecento marinai restano intrappolati nello scafo d'acciaio, altri ottocento si gettano tra le onde. Per cominciare a vivere un incubo ancora peggiore. Non hanno scialuppe, alcuni non hanno fatto in tempo neppure a indossare il salvagente: non ci sono scorte di cibo né di acqua. E soprattutto, nessuno sa dell'Indianapolis, che procedeva nel silenzio radio assoluto. E nessuno quindi è a conoscenza della sua sorte. Un fantasma. Solo tre giorni e mezzo dopo l'affondamento un velivolo da ricognizione avvista un naufrago e lancia l'allarme. Al comando si rendono conto che l'Indianapolis è sparita. Ma i superstiti sono lontani da tutto, a ore e ore di navigazione dal resto della flotta. Un idrovolante Catilina è il primo a raggiungerli e dall'alto assiste a uno spettacolo angosciante: i marinai che vengono divorati dagli squali. Il comandante dell'aereo decide di disobbedire agli ordini e ammarare per soccorrerli. Inizia a prenderli a bordo. Fa la spola tutto il giorno: quando il sole tramonta, ne ha salvati 56. La prima unità navale arriva solo in piena notte, squarciando l'oscurità con i riflettori. Dopo oltre cinque giorni, i naufraghi sono allo stremo, disidratati e feriti. Alla fine su 1196 uomini dell’equipaggio, solo 317 ce la fanno: il maggior numero di caduti in un singolo affondamento registrato dalla flotta Usa.   

     

    'USS Indianapolis', quell'incrociatore che portò la bomba e sfidò gli squali

     

    UNDERWORLD – BLOOD WARS,  
    di Anna Foerster. Con Theo James, Kate Beckinsale, Bradley James. Usa, 2017. Durata: 91’. Voto 1/5 (DT)

    Tradita dai vampiri della casata orientale, inseguita dai Lycan che ne vogliono ancora il suo straordinario sangue ibrido, l’invincibile vampira reietta Selene fugge verso la casata nordica. Franchise spompato e frusto, Underworld, giunto al quinto capitolo, denota segni evidenti di una involuzione verso formule di scrittura prive di appeal, estetica da videogioco di quart’ordine, regia impercettibile che mescola imprevedibilità dell’action e sorpresa della fantasy con la verve di un impiegato del catasto. Quando poi al cospetto dell’introduzione di una novità cromatica come la comunità in bianco, in un universo tutto cupo e oscuro, fanno capolino pugnali e scudi medioevali a scontrarsi con mitragliette e kalashnikov ceceni, ecco che capisci che siamo al grado zero di inventiva. La Beckinsale si dimena ancora nei suoi abitini dark sadomaso, con una pettinatura anni novanta, un grugnetto grintoso non più molto credibile e, aspetto ancora più grave, non ravviva più la nuance erotica dell’eroina in latex che giovò immensamente al lancio della saga nel 2003.

     

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    Orge in canonica a Padova, la denuncia della parrocchiana: “Partecipavano altri sacerdoti invitati da don Contin”

    La donna che per prima ha denunciato il parroco di San Lazzaro ha messo a verbale che agli incontri a luci rosse erano presenti altri uomini, tra cui preti provenienti da altre parrocchie. I carabinieri li stanno per convocare per ascoltarli come persone informate dei fatti. Ma vogliono verificare la possibile induzione alla prostituzione di alcune delle donne con cui il religioso aveva una relazione

    Cominciata come la storia di un prete un po’ esuberante che aveva un’amante, la vicenda di don Andrea Contin, parroco di San Lazzaro a Padova, sta svelando, ogni giorno che passa, una piaga sommersa che rischia di espandersi a macchia d’olio. L’ultima rivelazione, contenuta nelle cronache dei giornali locali, è che alle orge in canonica fossero presenti anche altri sacerdoti. Amici di don Contin, provenienti da altre parrocchie della città o della provincia. Dal riserbo degli inquirenti emerge soltanto che la donna di origini rumene che per prima ha denunciato ai carabinieri don Contin (dopo averlo fatto mesi fa, inascoltata, anche con la Curia) ha messo a verbale che agli incontri a luci rosse erano presenti altri uomini, tra cui alcuni sacerdoti.

    Tanto basta per far intuire che ciò che accadeva a San Lazzaro è molto di più di un vizietto privato da parte di un uomo che non osservava la castità prevista dalla sua consacrazione. Parole in libertà o indicazioni precise per gli investigatori? Di certo i carabinieri starebbero per convocare alcuni sacerdoti, come persone informate dei fatti. Ai militari non interessano i loro comportamenti, ma vogliono verificare il sospetto che sta all’origine dell’indagine, ovvero la possibile induzione alla prostituzione di alcune delle donne con cui don Contin aveva una relazione. E’ soltanto per questo che la Procura si sta interessando a ciò che avveniva tra quelle mura. Anche perché la donna che ha denunciato il prete, pur non avendo prove di pagamenti in denaro, ha riferito che il prete-amico le disse: “Sai che puoi guadagnare tanti soldi in questo modo?”.

    La storia ha conosciuto un’escalation da quando è cominciata pochi giorni prima di Natale, con al perquisizione in canonica che aveva portato alla scoperta di una stanza chiusa a chiave in cui erano conservati oggetti erotici, filmini hard e probabilmente anche registrazioni degli amplessi. Dopo la prima donna, ne sono spuntate altre, almeno sette in totale. Poi si è scoperto che don Contin viaggiava spesso, sempre in compagnia femminile. Poi che aveva utilizzato i siti porno per cercare uomini che partecipassero a incontri di piacere. Al riguardo è stata affidata una perizia su computer, tablet e telefonini del sacerdote. Infine si è scoperta la frequentazione di luoghi dove si pratica lo scambio di coppie. Se i carabinieri troveranno la prova che gli incontri sessuali erano organizzati a fini di lucro, per il sacerdote scatterà l’accusa di aver favorito la prostituzione.

    Sullo sfondo rimane il conflitto con la Curia che era informata ben prima che intervenissero i carabinieri delle accuse contro don Contin. Stava facendo un’istruttoria interna quando i militari si presentarono in Vescovado chiedendo l’esibizione del fascicolo riguardante il parroco di San lazzaro. Ma i Patti Lateranensi e gli accordi del Vaticano con lo Stato italiano, consentono di tenere segreti gli atti dell’inchiesta ecclesiastica se non c’è consenso delle parti alla loro consegna. Intanto qualcosa è cambiato nella linea difensiva di don Contin. Ha revocato l’incarico a Michele Godina e ha scelto come nuovo difensore il penalista Gianni Morrone.

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    Don Contin, la curia ammette: “Ricevute segnalazioni su comportamenti poco ortodossi”. Ma non era partita denuncia

    Il sacerdote, parroco di San Lazzaro, è ora indagato per sfruttamento della prostituzione e violenza privata. Aveva cassette con la registrazione di orge e cercava su siti a luci rosse uomini con cui far incontrare le sue amanti. Le gerarchie ecclesiastiche avevano informazioni ma non hanno allertato la magistratura "perché, come prevedono i Patti Lateranensi, mancava il previo consenso delle persone coinvolte”

    Alla fine la Curia di Padova ha dovuto fare un mea culpa pubblico e ammettere che della canonica a luce rosse qualcosa sapeva. O perlomeno erano arrivate denunce da parte di donne che segnalavano il comportamento poco ortodosso di don Andrea Contin, un parroco che a quanto sta emergendo dall’inchiesta condotta dai carabinieri aveva il vizietto del sesso sfrenato. La capitolazione delle gerarchie ecclesiastiche della città del Santo è arrivata sotto forma di un comunicato, a distanza di oltre una settimana dall’esplosione dello scandalo, dalla perquisizione nella canonica di San Lazzaro e dalla convocazione di don Andrea nella caserma dei carabinieri per la notifica del provvedimento di sequestro di oggetti che hanno più attinenza con un sexy-shop che con una chiesa. Provvedimento motivato da un’indagine persfruttamento della prostituzione e violenza privata.

    Il vescovo monsignor Claudio Cipolla subito dopo la prima eco pubblica aveva incontrato il parroco, convincendolo a trasferirsi in una comunità protetta, in attesa degli eventi. Ma siccome in questi giorni sui giornali locali sono usciti dettagli piccanti, compresa l’indiscrezione che la Curia fosse al corrente di alcuni fatti, l’ammissione è arrivata. “Dalla comunità di San Lazzaro ci erano arrivate segnalazioni, avevamo anche aperto un’inchiesta interna, ma l’intervento della magistratura è arrivato prima della nostre conclusioni”. La Diocesi si affida alle norme canoniche. “In caso di segnalazioni riguardanti comportamenti di sacerdoti la prassi ecclesiale prevede una verifica dell’attendibilità e della fondatezza delle informazioni, attraverso un procedimento canonico. Nello specifico del presbitero don Andrea Contin l’autorità diocesana, a seguito delle segnalazioni giunte nei mesi scorsi, ha avviato una indagine previa”. Fase non conclusa, anche se il tempo trascorso è stato di almeno qualche mese. Sono arrivati prima i carabinieri.

    Perché nessuno ha informato l’autorità civile? “Da parte dell’autorità ecclesiastica non è stato consegnato alcun fascicolo alla magistratura ordinaria, perché, come prevedono i Patti Lateranensi, mancava il previo consenso delle persone coinvolte”. Una sottovalutazione? La Curia ammette: “I fatti, oggetto delle indagini, sono molto gravi e ciò addolora il vescovo e la comunità cristiana. È necessario che sia fatta verità, ma è doveroso rispettare il diritto alla buona fama e alla privacy, non solo del sacerdote, ma anche delle donne che hanno avuto il coraggio di segnalare ogni cosa all’autorità, sia civile che ecclesiastica”.

    Quindi le donne coinvolte da don Andrea erano uscite allo scoperto. Una di loro, volontaria in parrocchia, intervistata da Il Mattino di Padova, ha dichiarato: “Ero con lui in canonica, stavamo nello studio. Mi chiamava spesso, diceva che aveva sempre bisogno di me, che non poteva farne a meno. Dopo un po’ si è avvicinato e mi ha baciato. Tutto è cominciato lì”. Il sesso? “Avveniva in canonica e in diverse case… ma non dico di più perché ci sono accertamenti. Quando? A tutte le ore: di mattina, di pomeriggio, a notte fonda. Sempre”.

    Ai carabinieri non interessano i vizi privati di un sacerdote, ma la verifica dell’ipotesi di violenza privata nelle pratiche sessuali e di sfruttamento della prostituzione, ovvero l’aver lucrato su prestazioni a pagamento. Stanno venendo a galla particolari molto imbarazzanti. Ad esempio il fatto che Don Andrea cercasse su siti a luci rosse uomini con cui far incontrare le sue amanti. Verifiche sono in corso su siti di annunci come Bakeca.it, Annunci69.it o Scambiomoglie.it dove comparivano offerte di sesso con fotografie. Ci sono poi le cassette registrate di incontri sadomaso che si sarebbero consumati in canonica, dove l’armamentario del piacere era molto vario, spaziando dalle fruste ai collari, dalle scarpe con il tacco a spillo ai vibratori, dai guinzagli ai falli in lattice.

    Se si trovasse la prova di incontri a pagamento (decisive saranno le testimonianze degli uomini che si stanno rintracciando) allora l’ipotesi di sfruttamento della prostituzione avrebbe un fondamento. Le donne coinvolte potrebbero essere almeno una decina e alcune di loro hanno già raccontato i risvolti di relazioni turbolente, con scambi di coppia e sesso consumato, contro la loro volontà, con altre persone. Insomma, nella canonica di San Lazzaro sarebbe accaduto di tutto. Possibile che nessuno se ne fosse accorto? Anche perché don Andrea aveva una vita movimentata. Viene descritto come un sacerdote super attivo. Aveva fondato una comunità per anziani. Prima di diventare prete si era laureato in giurisprudenza e aveva lavorato in Polizia. Da parroco non disdegnava i viaggi, sempre in compagnia femminile, e con gli alberghisi trattava molto bene. Un tenore di vita se non agiato, perlomeno superiore a quanto il suo guadagno come sacerdote gli consentisse. Da dove arrivava la disponibilità economica? E’ quello che vogliono sapere i carabinieri guidati dal maresciallo Alberto Di Cunzolo.

    Di prove sul sesso consumato in canonica ne sono trovate molte. Le più imbarazzanti alcune video cassette con la registrazione di orge. Allineate in libreria, avevano sulla copertina i nomi dei papi. Per non destare sospetti.

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    Sesso anale, Luxuria risponde a De Mari: “Dannoso? Dovrebbe sapere che fa bene alla prostata”

    “Da chirurgo e da professoressa, dovrebbe sapere che prenderlo dietro fa anche bene alla prostata“, parola di Vladimir Luxuria che ai microfoni de La Zanzara su Radio24, risponde alla professoressa Silvana De Mari che nella stessa trasmissione aveva apertamente criticato la pratica erotica tipica dell’omosessualità maschile, specificando che “il sesso anale causa danni all’organismo, ed è un gesto che viene sempre fatto nelle iniziazioni sataniche”. Luxuria risponde per le rime e spiega che “tutto ciò che provoca un piacere dovrebbe essere un piacere. Io non mai sentito nessuno che è morto perché l’ha preso dietro”. Infine conclude con una battuta sulla polemica sollevata da Mario Adinolfi sulle ospitate gay al festival di Sanremo: “Secondo me viene pagato dall’ufficio stampa di Sanremo per fare un po’ di pubblicità così come è successo con Elton John

     

    Don Andrea Contin, l’amante: “Mi faceva adescare ragazzi e poi filmava. Aveva sempre con sé valigia con vibratori”

    A denunciare l'ex parroco è una parrocchiana 49enne, che in otto pagine di verbale racconta nel dettaglio la sua relazione con il sacerdote. "Mi portò spesso nei parcheggi autostradali nella zona di Vicenza per farmi guardare uomini e donne che facevano sesso fuori dall’auto", è una dei passaggi del racconto della donna

    Una nuova rivelazione a luci rosse praticamente ogni giorno. Potrebbe essere questo il sottotitolo del’inchiesta su don Andrea Contin, il sacerdote della parrocchia di San Lazzaro, in provincia di Padova, attualmente sospeso dal servizio. L’ex parroco è finito al centro di un’inchiesta della procura di Padova per violenza privata e sfruttamento della prostituzione. Da quell’indagine è emerso che don Contin avrebbe avuto un’attività sessuale sfrenata con almeno nove donne. A denunciare l’ex parroco è una parrocchiana 49enne, “l’amante preferita” che in otto pagine di verbale – pubblicate dal Messaggero Veneto – racconta nel dettaglio le accuse al sacerdote. Si tratta della stessa donna con la quale il sacerdote ha subito ammesso le relazioni. “In riferimento alla perquisizione che mi è stata fatta dichiaro di avere conosciuto in parrocchiacinque donne, con le quali, dopo una lunga conoscenza, ho avuto una relazione sentimentale sfociata in rapporti sessuali. I rapporti si consumavano solitamente in canonica anche con la partecipazione di altri uomini, anche di colore. Quest’ultima circostanza si è verificata sempre e solo con una donna…”, ha detto il sacerdote davanti agli investigatori.

    L’inizio della relazione e la doppia vita del sacerdote – Il riferimento è proprio per la 49enne che per prima ha formalizzato le accuse nei suoi confronti. “Iniziai a frequentare nel 2001 la parrocchia di San Lazzaro.Nel 2006 arrivò a capo della parrocchia don Andrea Contin. Un giorno, invitandomi in canonica, dopo una breve conversazione, mi abbracciò e mi baciò sulla bocca. Rimasi impietrita, me ne andai sconvolta”, racconta la donna, aggiungendo che “nel febbraio/marzo 2011 ci fu il primo rapporto sessualein canonica che non fu dolce ma marcatamente aggressivo. Nonostante ciò mi sentivo sempre più innamorata e felice per le sue tante attenzioni”.

    Da quel momento nasce la relazione tra don Contin e la parrocchiana. “Ero realmente felice di ricevere tante attenzioni, fin quando mi fece leggere alcuni sms molto spinti provenienti da altre ammiratrici. Mi faceva vedere anche foto di donne nude durante atti sessuali con altri uomini. Alcune erano parrocchiane che io avevo visto frequentare la chiesa. Mi portò spesso nei parcheggi autostradali nella zona di Vicenza per farmi guardare uomini e donne che facevano sesso fuori dall’auto. In quel periodo mi diede anche le chiavi della canonica e mi aiutò economicamente nell’acquisto di un’auto di cui ero sprovvista”. Secondo la donna, il prete aveva una sorta di doppia vita dato che “nei ristoranti di lusso era conosciuto comel’avvocato. Mi chiese di confermare tale ruolo. Sceglieva sempre hotel molto costosi. Quando prenotavamo mi faceva pagare mediante bonifico dal mio conto corrente per consegnarmi i soldi contanti solo in seguito”.

    La valigetta con i vibratori – Ad un certo punto i rapporti sessuali diventano sempre più spinti. “Lui – ha detto la donna – aveva sempre con sé una valigetta con all’interno vibratori, maschere il latex, maschere subacquee, boccagli, capi in pelle già visibilmente usati da altre donne, stivaloni con tacchi a spillo vertiginosi, catsuit in latex, mascheroni, guanti in latex, tutto il necessario per la metamorfizzazione e un giorno mi portò in un sexy shop  dove acquistò specifici prodotti erotici”. Poi nella storia spunta anche un altro sacerdote. “Un giorno – racconta la parrocchiana- mi portò da don Roberto Cavazzana a Carbonara di Rovolon perché mi disse che doveva salutarlo. A un certo punto mi prese la testa e me la abbassò dicendo che dovevo avere un rapporto orale. Obbedii. La stessa cosa avvenne una seconda volta, quando don Andrea mi portò a cena con don Roberto in un ristorante dei colli. Successivamente ci recammo in canonica a Carbonara di Rovolon dove abbiamo avuto un rapporto sessuale a tre“. Ma non solo. Perché la donna mette a verbale anche che il sacerdote “iniziò a chiedermi di andare dietro la canonica per attirare i ragazzi che giocavano nel campo di calcio e, una volta adescati, mi costringeva ad avere rapporti con loro vicino al garage. Lui, nascosto, mi filmava”.

    La gelosia e le botte – La relazione tra la donna e il sacerdote diventa addirittura violenta. Don Contin infatti è geloso. “A maggio del 2011 – dice la donna – durante la sagra di San Lazzaro, mentre facevo volontariato, lui si accorse di un uomo che mi aveva guardata senza che io me ne accorgessi. Una volta entrata in canonica mi scaraventò a terra e iniziò a picchiarmi. Nei giorni successivi indossai una maglietta lunga per nascondere i lividi”. La donna poi si accorge che il sacerdote ha rapporti con altre donne. “Pochi giorni dopo l’Epifania, nel 2012, una sera mi disse di avere un impegno a Casetta Michelino. Io, già insospettita, andai a verificare e trovai nelle vicinanze dell’albergo Net Center l’auto di una parrocchiana. Verso le 2 di notte la vidi uscire dal bar collegato alla canonica. Fu così che scoprii la loro relazione. A quel punto andai in canonica, lui negò ogni mia accusa e mi picchiò con calci e pugni”. Da qui l’accusa di violenza.

    .. http://video.virgilio.it/guarda-video/la-modella-nella-gabbia-con-lo-squalo-morso-e-20-punti_bc5427111531001?ref=virgilio 
     
     
     
     

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    Sex Factor, il reality per i talenti del porno

    E' l'ultima frontiera del talent: otto donne e otto uomini pronti a contendersi lo scettro di nuova star a luci rosse. In palio un milione di dollari

    Sex Factor, il reality per i talenti del porno
    Qualcuno scherzosamente ha detto che per vincere questo reality non sarà sufficiente avere il fattore “X”, ma sarà necessario possedere quello “XXX”. PerchéSex Factor   è il primo show in cui i concorrenti dovranno darsi da fare per dimostrare di avere abbastanza talento per sfondare nell’industria del porno. Lo show a luci rosse, che sarà presentato dalla pornostar nippo-americana Asa Akira, conterà

    10 episodi e sarà visibile online dal 19 maggio, tenta di sfruttare il successo dei reality: ad avere l’idea è stato il produttore Buddy Ruben, che pur non avendo nessuna esperienza nel settore e con alle spalle soltanto un lavoro di venditore di software in un’azienda della Silicon Valley, ha pensato che il porno fosse l’ultima frontiera che questo genere televisivo non aveva ancora toccato.

    A contendersi il primo premio del valore di 1 milione di dollari, che prevede una parte in contanti e un contratto di tre anni con un produttore di film hard, saranno otto maschi e otto femmine: non solo dovranno riuscire a perdere ogni inibizione per rendere al meglio di fronte alla macchina da presa, ma dovranno dimostrare anche di avere il talento che potrà renderli delle star, convincendo Tori Black, Remy LaCroix, Lexi Bell e Keiran Lee, i quattro giudici professionisti dell’industria che lavoreranno come mentore ciascuno per la propria squadra.

    “È importante che nessuno dei concorrenti sia mai stato filmato prima in una scena di sesso”, ha spiegato Ruben “perché altrimenti basterebbe guardarsi uno qualsiasi dei video hard di attori che fanno sesso nella miriade di siti che online li offrono gratuitamente”.

    Tra questi c’è anche XHamster, che ha comprato lo show e lo trasmetterà online, annunciando anche di avere affidato a Ruben la preparazione di altri due spettacoli per il 2017. Ruben che aveva annunciato l’inizio delle riprese della trasmissione già due anni fa, forse sperava nel frattempo di concludere un accordo per la trasmissione almeno con qualche pay-per-view, ma ha poi dovuto ripiegare sul web, dove pur essendo il programma visibile a chiunque si colleghi al sito, non c’è il rischio di incorrere in censura preventiva e proteste degli spettatori.

     L’acquisizione dello show da parte della società che offre filmati porno gratuiti in rete, come i concorrenti a YouPorn, RedTube e decine di altri ancora, sembra una risposta alla crisi che ha colpito l’industria, prima affossata proprio dall’esplosione dei contenuti gratuiti sul web, senza più poter monetizzare la vendita di Dvd, e successivamente ingolfata dall’eccesso di offerta in rete, tanto da richiedere lo studio di nuove strategie di marketing per attrarre l’audience.

    Ecco così che sono emersi siti come PornHub, che ha appena annunciato la sponsorizzazione di due squadre di sportivi italiani, il Varese Master Team di pallanuoto e la squadra di calcio femminile milanese Champions Feague, tra le vincitrici di un concorso indetto qualche mese fa. Ed è quello che spera probabilmente XHamster con Sex Factor, che vorrebbe attirare il pubblico incarnando il sogno di molti spettatori: diventare una star a luci rosse. Di certo è così per Allie Eve Knox, 25 anni di Dallas, concorrente del programma che ha dichiarato alla ABC: “È la mia grande occasione, ho un mutuo sulle spalle, familiari da mantenere e se posso essere pagata per fare sesso davanti a una cinepresa non vedo perché non dovrei. D’altra parte ci sono tante persone che vanno a letto con estranei e lo fanno persino gratis”.

    Al di là dei reality show prossimi venturi, la grande speranza dell’industria del porno è tuttavia la realtà virtuale, che secondo le previsioni genererà solo per l’hard un fatturato di 1 miliardo di dollari entro il 2025: indossando un casco come Oculus Rift, HTC Vive o Samsung Gear VR, ormai disponibili sul mercato, si può vedere una scena di sesso spinto come se ci si trovasse nella stessa stanza con gli attori. E come in uno dei filmati in soggettiva già offerti da società come HoloGirlsVR, cui hanno aderito diverse pornostar tra cui l’italiana Valentina Nappi, essere quasi protagonisti della scena. Come in un reality show.

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    Benvenuti all'inferno nel cuore dell'heavy metal

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    nel cuore dell'heavy metal

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    ..CULTURA-SCUOLA-UNIVERSITA'

     

     

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    Università Statale Milano, il Tar accoglie il ricorso contro il numero chiuso nelle facoltà umanistiche

    Università Statale Milano, il Tar accoglie il ricorso contro il numero chiuso nelle facoltà umanistiche

     
    SCUOLA

    I giudici del tribunale amministrativo hanno accolto il ricorso presentato a fine luglio dall'Unione degli studenti. Soddisfazione da parte dell'associazione studentesca: "Vittoria storica".

    Niente numero chiuso nelle facoltà umanistiche dell’Università degli studi di Milano. A stabilirlo è il Tar del Lazio che ha accolto il ricorso inoltrato a fine luglio dall’associazione degli studenti Udu (Unione degli studenti) contro la decisione della Statale di fissare delle quote per le iscrizioni a lettere, filosofia, storia, beni culturali e geografia.

    Tar: “No al numero chiuso nelle facoltà per carenza di insegnanti” – “Ora che il Tar del Lazio ci ha dato ragione (si legge nella nota dell’Udu) possiamo dirci estremamente soddisfatti per una vittoria storica che ha riflessi nell’immediato sul futuro di tutti coloro che avrebbero dovuto sostenere il test nei prossimi giorni e sulle decisioni presenti e future prese da quegli atenei che hanno introdotto programmazioni dell’accesso illecite”. Gli studenti ricordano di aver denunciato “sin da subito come la delibera adottata dagli organi accademici contenesse vizi formali e sostanziali mancando di fatto sia una maggioranza vera che il rispetto della normativa nazionale, prima su tutte la legge 264/99” che garantisce il diritto allo studio. L’assenza di un numero sufficiente di docenti non rientra tra le cause previste dalla legge n.264 del 1999 per introdurre il numero chiuso e le facoltà umanistiche non sono tra quelle elencate nella stessa legge che possono avere gli accessi regolamentati. Il pronunciamento rischia di creare un precedente per le facoltà che non rientrano nella direttiva ministeriale. L’Università degli studi di Milano con sede centrale in via Festa del Perdono sarebbe stata l’unico ateneo italiano a prevedere un tetto per gli studenti su quelle specifiche facoltà. “Avevamo denunciato – sostengono gli studenti dell’Udu – come la sordità dimostrata da chi doveva rappresentare tutta la comunità accademica aveva segnato un pericoloso precedente, oltre che un danno per il diritto allo studio di migliaia di studenti che volevano scegliere liberamente il corso del loro futuro”.Studenti: “Su numero chiuso avevamo ragione noi. Pronti a nuove mobilitazioni” – Mostra soddisfazione per la decisione del Tar laziale anche Link Coordinamento Universitario: “Dopo una grande mobilitazione che ha visto docenti e studenti insieme per una università libera e aperta a tutti, il pronunciamento del Tar ci dà ragione”, ha affermato Andrea Torti del gruppo studentesco per cui “deve essere un primo passo per abolire il numero chiuso in tutti i corsi di laurea”. La protesta era nata dopo che a fine marzo la Facoltà di Studi Umanistici della Statale aveva deciso di mettere il numero chiuso in tutti i corsi, incontrando l’opposizione degli studenti e di molti dipartimenti interessati dalla novità inedita. Il rettore, Gianluca Vago, aveva poi ottenuto il voto positivo da parte del Senato accademico. Pronunciamento che oggi i giudici del tribunale amministrativo del Lazio hanno giudicato irregolare. “La lotta però non si ferma qui – dicono i rappresentanti degli studenti – Dopo aver invaso l’ateneo con il nostro no ad un’università elitaria e a porte chiuse continueremo ad organizzarci con assemblee e mobilitazioni. Il numero chiuso scompare ma i problemi denunciati restano”. A partire dal prossimo 5 settembre, data dei test di medicina, gli studenti annunciano mobilitazioni contro i numeri chiusi per ottenere la loro abolizione in ogni università.

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    Numero chiuso all’università, vietato arrangiarsi

    Avevo recentemente scritto un post nel quale descrivevo come compiuta la distruzione dell’Università pubblica italiana, e qualche giorno fa l’Università Statale di Milano ha deliberato il numero chiuso per le facoltà umanistiche, che è un passo ulteriore di questo processo distruttivo. Per comprendere la portata di questa decisione e le sue cause è opportuno rifare il punto della situazione. In alcune facoltà scientifiche il numero chiuso c’è da tempo: la prima facoltà ad introdurlo è stata quella di Medicina. La logica del numero chiuso in queste facoltà sta nelle esigenze della didattica cosiddetta professionalizzante: se si stabilisce (ad esempio in sede europea) che un laureato in Medicina debba svolgere un certo numero prefissato di attività cliniche, il numero chiuso consegue alla stima del volume di attività di quel tipo che il Policlinico universitario svolge in un anno. Questo tipo di vincolo non esiste per le facoltà umanistiche che infatti in precedenza non avevano adottato il numero chiuso.

    La decisione dell’Università di Milano è stata dettata da una logica burocratica imposta dal Ministero dell’Università (Miur) e dall’Agenzia di Valutazione (Anvur). Su indicazione dell’Anvur, il Miur fissa i criteri qualitativi ai quali le università devono attenersi per ottenere l’accreditamento dei corsi di laurea. Questi criteri includono la necessità di garantire un certo numero minimo di docenti dedicato ad ogni corso di laurea, numero che dipende anche dal numero di studenti iscritti. Il blocco del ricambio dei docenti andati in pensione, imposto dal ministro Tremonti nel 2009 e mai ripristinato dai governi successivi, ha causato la perdita di circa il 20% del corpo docente passato da circa 65.000 unità a meno di 50.000. Gli Atenei si erano fino ad ora arrangiati coi docenti disponibili, i quali avevano finora fatto fronte all’emergenza. Ma ora arrangiarsi non è più possibile: il Miur ha fissato criteri più stringenti e il numero di docenti non basta più per soddisfare i requisiti di accreditamento. E’ necessario chiudere corsi di laurea o limitare il numero degli studenti. Infatti la decisione dell’Università di Milano è stata presa contro il desiderio dei docenti e dei rappresentanti degli studenti. In pratica il Miur ha vietato ai docenti di rendersi disponibili ad un carico di lavoro superiore, e agli Atenei di utilizzare la disponibilità di questi docenti. Ad un servizio dello Stato che da tempo funziona alla meglio, arrangiandosi come è possibile, il Miur ha vietato di arrangiarsi, facendo precipitare il servizio offerto ai cittadini.

    Perché accade questo? Per varie ragioni. Lo Stato cerca di risparmiare: le Università sono finanziate anche in proporzione al numero degli studenti iscritti, e la riduzione degli studenti comporta un risparmio. Il governo è avverso alle istituzioni pubbliche anche minimamente indipendenti o critiche, caratteristiche che nelle l’Università sono certamente poco rappresentate, ma pur sempre in misura maggiore che in altri servizi. Infine molti cittadini che per le ragioni più varie non usufruiscono dell’università sono fortemente critici nei suoi confronti. Questo non è il caso dei cittadini studenti che chiedono maggiore accesso all’università, come hanno dimostrato nella vicenda di Milano.

    E’ un errore pensare che tutti i corsi di laurea possano beneficiare del numero chiuso: il numero chiuso può essere una necessità didattica per le materie scientifiche, e deve essere commisurato al fabbisogno di laureati quando da accesso ad una professione ben specifica. Il numero chiuso non ha senso quando non è richiesto da necessità didattica e quando la materia insegnata rappresenta non solo una professione specifica, ma anche un arricchimento del cittadino, che potrebbe poi svolgere (meglio) una professione non immediatamente correlata alla preparazione ricevuta. Un paese più colto è (forse) anche un paese migliore e l’Italia si è impegnata in questo senso col programma europeo Horizon 2020, salvo poi disattendere completamente l’impegno preso.

     

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    Statale di Milano, passa la linea dura: sarà numero chiuso già da settembre 2017. La protesta degli studenti

    Statale, passa la linea dura: sarà numero chiuso già da settembre. La protesta degli studenti
    Gli studenti sdraiati a terra per protesta (fotogramma)

    Approvata in Senato accademico la mozione del rettore. Flash mob degli universitari

     

     

     

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         CLAMOROSISSIMO: ALL'INTERNO DEI MONDIALI BRASILIANI IL
         GRANDE CAPO MAFIOSO BLATTER APRE ALLA MOVIOLA IN CAMPO!!!!

     

                  

     

                  

     

         

            

     


     

     

     

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      CALCIO ITALIOTA ED EUROPEO

     

     

      ITALONIA

     

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    INTERNATIONAL CHAMPIONS CUP 2017: LA PROVA DEL NOVE PER LA FUTURA LEGA RISERVATA SOLO ALLE BIG

    Il digiuno è finito. Tornano le abbuffate di calcio in TV. Le big d’Europa tornano in campo per lanona edizione della International Champions Cup, torneo estivo per eccellenza . Prova del nove, dunque, per rilanciare sul tavolo dei giochi di potere le ambizioni della Relevent Sport, la società che organizza il torneo itinerante nel mondo. Obiettivo, neanche troppo sottaciuto: trasformala in una Champions. SCACCO MATTO IN TRE MOSSE

    S&S SPETTACOLO E SPONSORIZZAZIONI

    Del resto, contano i risultati. Economici, of course. Nessuno ricorda l’albo d’oro della ICC. Ben impressi, invece, nel bilancio delle consorelle partecipanti, i proventi della manifestazione. Tutto nasce da una formula vincente: l’ICC garantisce partite di alto livello ad orari e prezzi per i mercati in cui il calcio è un asset in assoluta crescita: il fatturato, fra inviti, diritti tv, sponsorizzazioni, è di circa 100 milioni di euro all’anno. A cui si aggiungono i soldi incassati dalla presenza del pubblico. Una clientela “affamata” di ogni forma di gadget e pronta a strisciare carte di credito. Una vera manna per il merchandising e le multinazionali che iniziano a investire pesantemente sull’evento.

    LE PROSPETTIVE

    Un fiume di denaro dalla portata così ampia da divenire appetibile anche (e soprattutto) d’inverno. Le Big, secondo voci di corridoio, e non affatto infondate, hanno già in serbo il“colpaccio”: staccarsi dalla UEFA e organizzarsi, da soli, una manifestazione aperta solo al “gotha” europeo. Il prodotto, fatto e finito,  andrebbe poi consegnato ai broadcaster europei. Come convincerli? Semplice: offrendogli ciò che vogliono. Partite di cartello da giocare in stadi stracolmi e non periferici. La ICC traslata in Europa significa addio a partite e gironi dall’esito scontato o in paesi di scarso interesse e tradizione sino agli ottavi di finale. In effetti, la Champions e l’Europa League, specialmente dopo la riforma Platini, hanno pochissime possibilità di alzare l’asticella dei diritti TV. La proporzione è semplice bigmatch :  spettacolo = broadcaster : incassi. Anche perché il gruppo ha “rivoluzionato” il concetto di sponsor: non più il main sponsor e gli altri, ma “pacchetti all inclusive” di 4-5 multinazionali che ruotano. Par condicio fra macchine, birre, società di scommesse.

    IL FORMAT

    Il prodotto offerto dalla Relevent Sports ha enorme successo. Si gioca sempre, tutti i giorni. L’idea è di creare un format sostenibile per acquisire credibilità anche da un punto di vista squisitamente sportivo. O un tutti contro tutti, oppure dei gironi che generino un tabellone tennistico. In entrambi i casi, la formula attirerebbe investitori americani e cinesi, pronti a scommettere su una competizione che, con o senza il patrocinio della UEFA o della FIFA,potrebbe trasformarsi nel nuovo torneo internazionale per club.

     

     

    Champions e Europa League, a Sky i diritti tv 2018-2021

    Champions e Europa League, a Sky i diritti tv 2018-2021
    Sergio Ramos alza al cielo la Champions vinta dal Real Madrid (reuters)

     

    Tutte le coppe si vedranno sulla tv di Murdoch. L'emittente satellitare potrebbe cedere alla Rai una partita a settimana da trasmettere in chiaro. Mediaset battuta

    Ufficiale. Tutto il calcio europeo è di Murdoch. La Champions League torna a Sky, l'Europa League già era sua e l'ha confermata. L'affare è concluso. Sky ha confermato stasera in una nota "L'acquisizione dei diritti della Uefa Champions League - sottolinea il comunicato - è stata ottenuta grazie a un investimento razionale e sostenibile, che ha tenuto conto del valore del prodotto, dell'interesse che suscita anche tra i più giovani e - soprattutto - del nuovo format della competizione, con il quale il numero di partite minimo delle italiane aumenta del 70% rispetto alla media degli ultimi 5 anni".

    L'Uefa ha preferito l'offerta dell'operatore satellitare rispetto a quella presentata da Mediaset. Sky, che avrebbe messo sul piatto più di 200 milioni di euro a stagione, tornerà dunque a trasmettere sulla sua piattaforma satellitare le partite del principale torneo per club europeo a partire dalla stagione 2018 (con la nuova formula delle 4 squadre italiane sicure ai gruppi) e per il successivo triennio. Un grande prodotto. La prossima edizione della Champions sarà ancora trasmessa da Premium (e Canale 5). Molto probabile, anzi quasi certo, a questo punto che l'assegnazione a Sky delle licenze per i tre tornei di Champions League 2018-19, 2019-20 e 2020-21 porti in un secondo momento a una sublicenza a Rai per la trasmissione delle partite in chiaro. Una ogni turno, il mercoledì sera. La Rai pagherebbe a Sky circa 45-50 milioni a stagione (vedi Spy Calcio del 31 maggio). La Uefa infatti ci tiene che una parte di prodotto sia dato in chiaro. Mediaset per il contratto attuale paga 220 milioni l'anno, Sky per quello futuro dovrebbe essere leggermente inferiore. Ma non di molto.

    Per l'Europa league Sky aveva pagato circa 100 milioni a stagione. Ma soprattutto la tv di Murdoch avrà tutte le Coppe europee, con 7 squadre italiane al via, 340 partite. E' la prima volta. Un grandissimo colpo. "Siamo molto felici di questo risultato - il commento di Andrea Zappia, ad di Sky Italia - Il nuovo format sviluppato dalla Uefa ci consentirà di portare ai nostri abbonati un prodotto rivoluzionario per il calcio europeo in Italia. Continueremo a fare innovazione, trasmettendo le partite più importanti anche in 4K HDR. Quest'offerta senza precedenti rafforza la posizione di Sky come leader della programmazione sportiva in Italia ed è anche un altro passo importante di sostegno al calcio italiano, un impegno che continuerà a vederci protagonisti anche nel futuro bando sui diritti della Serie A".
    E ora la serie A: Sky ha già fatto la sua offerta, Mediaset no. Il bando verrà rifatto. Mediaset non può stare senza calcio, soprattutto ora che ha perso l'Europa. "Mediaset ha fatto la cosa giusta: ha presentato un'offerta importante, ma razionale" si legge in una nota. Un'offerta "più elevata rispetto a quella precedente, in ragione della partecipazione al torneo di quattro squadre italiane". Un'offerta comunque "formulata seguendo la nostra visione di evoluzione del mercato pay". Tale visione, sottolinea Mediaset, "ci vede impegnati nella digital transformation dell'offerta che diventerà più leggera e più moderna". Altri operatori "hanno invece attribuito alla competizione europea un valore molto più elevato a cui evidentemente è stato aggiunto un maxi-premio extra con l'obiettivo di ottenere una posizione di dominio sul mercato della pay tv", precisa.  E aggiunge che nella prossima gara per la serie A " "Mediaset si muoverà per garantire ai tifosi la migliore offerta televisiva".

    Serie C, 26 società fallite in cinque anni: Latina e Como le ultime, ma il numero rischia di aumentare prima di agosto

    Serie C, 26 società fallite in cinque anni: Latina e Como le ultime, ma il numero rischia di aumentare prima di agosto

     
    CALCIO

    L’incubo non è ancora finito: se è vero che tutte le altre aventi diritto sono riuscite a presentare nei termini la richiesta d’iscrizione, in diversi casi la domanda risulta incompleta. La Maceratese ha inoltrato il modulo senza l’assegno d’iscrizione, il Mantova è gravato da centinaia di migliaia di euro di debiti e anche il Messina traballa. La prossima data segnata in rosso sul calendario è quella del 5 luglio, poi bisognerà passare dal vaglio della Covisoc

    Si avvicina l’estate, arriva il momento dell’iscrizione ai campionati e le squadre spariscono: stavolta tocca a Latina e Como. La crisi del pallone italiano sembra non avere fine: negli ultimi cinque anni in terza serie sono fallite addirittura 26 società. E l’elenco potrebbe allungarsi: altre 3-4 sono in bilico e saranno incerte fino all’ultimo. A pagare, infatti, sono sempre i più piccoli: i club della rinata Serie C – ha da poco ripreso il vecchio nome, abbandonando quello di Lega Pro – dove non esiste paracadute e non arrivano i soldi dei diritti tv, l’unica risorsa del nostro calcio per cui i grandi presidenti continuano ad accapigliarsi.

    SCOMPAIONO COMO E LATINA – Il 30 giugno era l’ultimo giorno per presentare la domanda di ammissione ai tornei professionistici. A non avercela fatta, per il momento, sono Latina e Como: due piazze importanti, due storie molto diverse tra loro, unite dal minimo comune denominatore della cattiva gestione societaria. I laziali, che solo tre anni fa si giocavano la finale playoff per la promozione in Serie A, erano spacciati da tempo, travolti dai guai giudiziari dell’ex presidente Pasquale Maietta. I lariani, invece, sono stati dalla moglie del calciatore Michael Essien, imprenditrice inglese che a marzo aveva rilevato il titolo del club salvo poi non procedere al rinnovo dell’ affiliazione alla Figc. La domanda di iscrizione al campionato sarebbe pure stata presentata, ma senza il riconoscimento da parte della Federazione è praticamente nulla: anche dalla stessa Lega considerano il Como ormai ufficialmente fuori dai giochi.

    26 CLUB FALLITI IN 5 ANNI – Con loro sale a 26 il numero delle squadre che negli ultimi cinque anni non sono riuscite a iscriversi al campionato di Serie C: si passa da microscopiche realtà come Castiglione e Borgo a Buggiano a piazze storiche come Venezia, Siena, o Grosseto. Il passaggio alla divisione unica, con la sforbiciata da 90 a 60 squadre, sembrava aver fermato l’emorragia: dopo la riforma si era passati dai 7 fallimenti del 2013/2014 ai 4 del 2014/2015. Ma poi la situazione è precipitata di nuovo: 8 non iscritte (record negativo) nel 2015, 5 nel 2016, in attesa di conoscere il dato finale del 2017. Tanto che si è tornati a parlare della possibilità di ridurre il numero delle società professionistiche (uno dei cavalli di battaglia di Claudio Lotito), anche se il presidente Gabriele Gravina non ha intenzione per quest’anno di cambiare formula: “Non è una mia scelta, sono le regole che dicono che il campionato è a 60 squadre. Qualcuno si illude di risolvere la questione tagliando le squadre, ma ci vuole una riforma di sistema: il problema è il calcio italiano, non la Serie C”. Per sostenere un campionato ci vogliono circa 3 milioni di euro, mentre i contributi della Lega si fermano a 500-600mila euro: i club di Serie C perdono in media 1,2 milioni di euro l’anno. In molti fanno fatica ad arrivare a fine stagione, specie le squadre che sono retrocesse dalla Serie B, visto che, contrariamente a quanto succede per chi non raggiunge la permanenza in Serie A, il paracadute è irrisorio: lo dimostrano proprio i casi di Latina e Como (tra i cadetti due anni fa), ma anche i precedenti di Lanciano, Varese e Padova.

    FIDEJUSSIONI, DEBITI E RIPESCAGGI – L’incubo non è ancora finito: se è vero che tutte le altre aventi diritto sono riuscite a presentare nei termini la richiesta d’iscrizione, in diversi casi la domanda risulta incompleta. La Maceratese, ad esempio, ha inoltrato il modulo senza l’assegno d’iscrizione, il Mantova è gravato da centinaia di migliaia di euro di debiti, anche il Messina traballa. La prossima data segnata in rosso sul calendario è quella del 5 luglio, entro cui va depositata la fidejussione obbligatoria da 350mila euro a garanzia del campionato (passaggio tutt’altro che scontato); poi bisognerà passare dal vaglio della Covisoc, l’organo di vigilanza contabile sulle società. Alla fine a saltare potrebbero essere tre, forse quattro squadre. “E io ci metterei la firma: sarebbe comunque un miglioramento rispetto agli anni scorsi”, commenta Gravina. Probabile, comunque, che si aprano altri buchi nell’organico del torneo. E anche colmarli non sarà facilissimo: tra la tassa a fondo perduto da 500mila euro e i parametri stringenti (escluso chi ha già beneficiato di ripescaggi o subito penalizzazioni), si contano sulle dita di un mano le società in grado di ambire a un ripescaggio. Per ora in pole position ci sono Lumezzane, Triestina, Rieti e Rende. In attesa del prossimo fallimento.

    CARLO PETRINI: IL CORAGGIO DI DENUNCIARE


    Carlo Petrini
     rappresenta senza dubbio una delle figure più controverse del calcio italiano, un uomo capace di essere presente in quasi la totalità degli scandali che hanno coinvolto il mondo pallonaro negli anni ‘70 e ‘80, ma altrettanto capace di scoperchiare il calderone dell’ipocrisia sul nostro apparentemente inattaccabile sistema calcio, facendo venire a galla verità scomode che sono sempre state nascoste dall’omertà dilagante che caratterizza questo sport.

    Carlo Petrini nasce a Monticiano (stesso paese di un certo Luciano Moggi) nel 1948, ma le difficoltà familiari lo portano a Genova ad appena 9 anni, al seguito del padre Aldo, che verrà a mancare di lì a qualche anno assieme alla sorella minore. Un’infanzia difficile la sua, ma la svolta sembra arrivare nel 1960 quando il giovane Petrini entra a far parte delle giovanili delGenoa, squadra con la quale 5 anni dopo debutterà non ancora maggiorenne nei professionisti. Dopo la solita gavetta in prestito sui campi di Serie C, con la maglia del Lecce, Petrini torna alla base, gioca benissimo due anni in Serie B che gli valgono la chiamata da parte del Milan di Nereo Rocco. Adattarsi al carattere del Paròn però è molto difficile, specie per Carlo che, come sua stessa ammissione, è un ragazzo che non si fa mettere i piedi in testa da nessuno; la rottura arriva in poco tempo, Petrini dopo una lite con Rocco abbandona di punto in bianco l’allenamento e torna a casa. La rottura a fine stagione è inevitabile, ma le porte della Serie A non sono affatto chiuse, negli anni successivi infatti vestirà le maglie di Torino, Varese, Catanzaro, Ternana, Roma, Cesena, Verona e Bologna. In quest’ultima città però, ormai 32enne, Petrini viene coinvolto nello scandalo scommesse del 1980, il primo grande caso di partite combinate scoppiato in Italia, e verrà squalificato per 3 anni e 6 mesi in seguito alla combine di Bologna-Avellino, poi amnistiati in seguito alla vittoria del mondiale ‘82. Torna per qualche anno a giocare, ma ormai ha fatto il suo tempo, e a 37 anni decide di dire basta col calcio.

    petrini

    Dopo una carriera ventennale divisa tra A e B, apre una propria società finanziaria, che inizialmente, grazie anche alle enormi conoscenze, va a gonfie vele, salvo invertire la rotta nel giro di poco tempo, costringendo Petrini a farsi aiutare da usurai e criminali che lo mettono alle strette. Non riesce a ripagare i debiti e le pressioni diventano insostenibili. E’ giunto il momento di scappare, si rifugia in Francia.

    Per anni non si sente più parlare di lui, fino a quando nel 1995 il figlio Diego, promessa del settore giovanile della Sampdoria, si ammala di tumore al cervello. Ormai le condizioni sono critiche, e prima di morire lancia un appello ai giornali, vuole rivedere il padre, di cui non ha notizie da ormai 6 anni. Attorno a questa vicenda si crea un vero e proprio caso, tutta l’Italia ne parla, ma Petrini ha troppa paura di tornare in Italia, sa perfettamente che la criminalità organizzata lo troverebbe e gli farebbe fare una bruttissima fine. Non vedrà mai l’ultimo respiro del povero Diego.

    Sconvolto da questa incredibile vicenda però, decide che è arrivato il momento di parlare, vuole raccontare la sua storia, vuole fare qualcosa di buono per il calcio, lo sport che gli ha dato tanto, ma che nel momento di difficoltà gli ha anche voltato le spalle (come lui stesso dichiarerà). Inizia a lavorare alla sua autobiografia, che verrà pubblicata nel 2000, dal titolo Nel fango del dio pallone. Il libro scritto da Petrini è devastante, parla di un mondo apparentemente dorato, che in realtà nasconde del marcio ovunque, fa nomi e cognomi senza paura, parla dei calciatori morti a causa del doping, parla delle combine, parla di Luciano Moggi, della Juventus e della sua influenza sul calcio italiano.

    I racconti sono agghiaccianti, soprattutto quelli riguardanti il doping. Petrini fa notare ai lettori come un gran numero di calciatori della sua generazione siano morti a causa di gravi malattie, tumore, leucemia, aneurisma, ad esempio Giuliano Taccola, morto nello spogliatoio durante Roma-Cagliari, Beatrice, Longoni, Brignani, Umile, solo per citarne alcuni. Così racconta di come il doping negli anni settanta fosse una pratica comune nel mondo del calcio italiano. Prima di un Verona-Genoa ad esempio, il medico societario si presentò nello spogliatoio con una boccetta piena di uno strano liquido, e con una siringa (specifica non sterilizzata) fece ben cinque iniezioni a cinque giocatori diversi; Petrini sostiene come quel giorno riuscisse a saltare quasi fino al soffitto del tunnel antecedente al campo da gioco, e una volta dentro, dopo qualche minuto, una bava verdeiniziasse ad uscire dalla sua bocca e da quella degli altri compagni. L’effetto di questa “miracolosa” siringa durava addirittura oltre cinque ore, lasciandoti però stremato una volta terminato l’effetto, gonfiandoti la lingua “tanto da non riuscire a tenere la bocca chiusa” . Ma racconta anche di quando Giorgio Ghezzi, allenatore del Genoa, utilizzò il secondo portiere, il giovane Emmerich Tarabocchia, come cavia, facendogli bere un intruglio (convincendolo fosse del vino bianco)  prima di un allenamento; tutto bene, fino a quando il ragazzo collassò a terra dopo un’uscita in presa alta, stramazzando al suolo con gli occhi rivoltati.

    Probabilmente però il racconto che descrive al meglio la situazione del calcio dell’epoca è quello riguardante la combine di Bologna-Juventus del 13 gennaio 1980, a suo dire partita combinata, ma per la quale non ci fu nessuna squalifica da parte della giustizia sportiva, in quanto il fatto non sussistesse.

    Come racconta, all’epoca la Juventus non navigava in buone acque, così il martedì prima della gara, Roberto Bettega, centravanti juventino, chiamò Beppe Savoldi, giocatore del Bologna, in quel momento in compagnia di Michele Plastino, noto giornalista romano, chiedendo di accordarsi per un pareggio. Il giorno dopo, all’allenamento, dopo qualche evidente telefonata da parte della dirigenza juventina, Riccardo Sogliano, DS del Bologna, convocò tutti i giocatori, compreso lo staff, nello spogliatoio, chiedendo chi non fosse d’accordo a pareggiare l’incontro, perché in tal caso non sarebbe stato convocato. Nessuno disse nulla. Si parlò allora di scommettere, e tutti, tranne Sali e Castronaro, vollero guadagnare qualcosa da questo accordo. I giocatori si rivolsero a Petrini, erano infatti noti i suoi rapporti con Massimo Cruciani, personaggio conosciuto ai tempi della Roma, che aveva un banco di scommesse clandestine, addirittura l’allenatore Marino Perani chiese a Petrini di aggiungere 5 milioni in più da parte sua. Tutto pronto, arrivata la domenica, in ballo c’erano 50 milioni di lire, così prima della partita Petrini parlò nel tunnel con Trapattoni e Causio per confermare l’accordo. Qualcuno, sponda Juve, rispondendo ad una domanda di Petrini disse “non abbiamo avuto tempo di scommettere, ma il colpaccio l’abbiamo fatto due domeniche fa” riferendosi al clamoroso Juve- Ascoli 2 a 3. Entrati in campo, dopo un primo tempo a suo dire ridicolo, i giocatori vennero addirittura presi a pallate di neve dai tifosi tanta la sfacciataggine dell’accordo; nel secondo tempo tutto sembrava andare secondo i piani, ma un tiro senza pretese di Causio, complice un errore di Zinetti (attuale osservatore della nazionale) si insaccò in rete. I giocatori della Juventus sembrava non volessero più rispettare più gli accordi, e Perani per cercare il pareggio gettò nella mischia Petrini. A suo dire gli insulti in campo si sprecavano, fino a quando su un calcio d’angolo Bettega non sentenziò “basta litigare, adesso ci penso io a farvi pareggiare”. Il caso volle però che su quello stesso corner Sergio Brio infilasse la palla nella porta sbagliata, aggiustando il risultato secondo gli accordi.

    Il bello però avvenne due mesi dopo, in seguito alla denuncia sulle partite truccate da parte di Trinca e Cruciani. Infatti dopo i famosi arresti negli stadi, quando lo scandalo scommesseormai imperversava, e stava per colpire anche Juve e Bologna, Petrini ricevette una telefonata, era Giampiero Boniperti. L’allora presidente della Juventus offrì a Petrini ben 200 milioni di lire, depositati in un conto svizzero, per assumersi tutta la responsabilità sulla combine, offerta però declinata prontamente. Allora la seconda proposta: se Petrini avesse convinto Cruciani, con una cospicua somma di denaro pagata dalla Juventus,  a non presentarsi all’interrogatorio su Bologna-Juventus, lo avrebbe aiutato in qualche modo durante il processo. Petrini accettò, e incontrò Cruciani alla porta 5 dello Stadio San Siro; Cruciani accettò la proposta di Boniperti, e non presentandosi al processo, scagionò sia la Juventus che il Bologna.

     

     

     

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    Altri arresti per il Calcioscommesse: 

     

     

    Calcio

     

     

       

     

     

     

     

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    Calcio Italia 2017-2018

     

    Nazionale, Spagna-Italia 3-0: azzurri verso gli spareggi

    Nazionale, Spagna-Italia 3-0: azzurri verso gli spareggi
    (afp)

     

    Dominano le Furie Rosse al Bernabeu: doppietta di Isco, poi Morata nel finale. Probabile a questo punto il play off contro la seconda di un altro girone per la qualificazione al Mondiale

    Tranquilli, la magia della notte del Bernabeu, quella vera, è al sicuro, fra i ricordi più cari. E, in fondo, attendersi da questa Italia una replica, trentacinque anni dopo, era francamente troppo. È andata come sapevano tutti già dal sorteggio di due anni fa: la Spagna ha vinto il suo girone, l’Italia dovrà giocarsi il Mondiale agli spareggi di novembre. La partita decisiva è stata una passeggiata per la Roja, che, consapevole della sua forza, aveva aperto i festeggiamenti già nell’allenamento della rifinitura, in mezzo alla sua gente, e li ha proseguiti per tutta la partita osannando Isco, l’hombre del partido (due gol, prima del sigillo di Morata), Iniesta e alla fine anche Villa, tornato in nazionale dopo quasi tre anni. La partita attesa, preparata da dodici mesi, non ha lasciato scampo agli azzurri, rinnovando l’antica ossessione per un avversario che è tornato mostruosamente proibito, irraggiungibile. Eppure, poco più di un anno fa, era stata l’Italia a cacciare fuori la Roja dall’Europeo, con i colpi di Chiellini e Pellè, due che stavolta neanche c’erano. Una parentesi, ecco. La Nazionale non perdeva in una gara di qualificazione, fra Europei e Mondiali, da undici anni: nel 2006 la Francia superò gli azzurri di Donadoni.

    Orbata di Chiellini, l’Italia ha cambiato i piani della vigilia, rinunciato al proposito di difendersi a tre, unico sistema efficace contro la Spagna negli ultimi anni, e schierando invece la squadra più offensiva possibile, con Candreva e Insigne esterni a sostegno delle due punte, Belotti e Immobile. Lopetegui, nuotando nella sua abbondanza, aveva un solo dubbio, l’ha risolto escludendo Morata per giocare senza punti di riferimento in attacco: i compiti del falso nueve sono finiti sulle spalle di David Silva, in un sistema fluido in cui sarebbe stato comunque inutile attendersi ruoli e posizioni definite e riconoscibili. L’antifona è stata subito chiara: dopo duecento secondi Verratti ha cercato di azzoppare Busquets a centrocampo, prendendosi l’ammonizione e palesando presto l’affanno della mediana azzurra. Due invenzioni di Iniesta, lasciato sempre indisturbato, hanno scoperchiato la difesa di Ventura in un lampo. La prima, dopo sette minuti, ha innescato Koke, steso da De Rossi al limite: della punizione s’è incaricato Ramos che ha messo alto. La seconda, al minuto 13, è stata una meravigliosa imbeccata per Asensio: Bonucci ha speso un’ammonizione pesante (salterà Israele), Isco è stato quasi perfetto, Buffon in ritardo ha fatto il resto.

    Dopo 6 lunghi anni è il Milan, il Nuovo Milan Cinese a spostare gli equilibri, candidandosi seriamente, con una campagna acquisti di oltre 200 milioni di euro, alla conquista dello scudetto. L'Inter della "potenza" Suning immobile come statua di sale.

     

    Bonucci al Milan: è fatta. Per il difensore della nazionale contratto quinquennale da 10 milioni di euro all’anno

    Il centrale campione d'Italia sarà il nuovo capitano del Diavolo. Si tratta di un trasferimento in grado di scombussolare gli equilibri del prossimo campionato di Serie A. Alla Juventus vanno 40 milioni di euro: Marotta e Paratici alle prese con una sostituzione che si presenta difficilissima. I tifosi rossoneri, invece, sognano il ritorno nel calcio che conta e, perché no, lo scudetto

    La frase è abusata, ma mai come in questo caso rende l’idea: per Bonucci al Milan manca solo la firma. Che – la notizia è di questi minuti – arriverà a stretto giro di posta. Ormai non ci sono più dubbi. Il difensore della nazionale, infatti, è nella sede della Juventus per formalizzare un cambio di maglia che rischia seriamente di scombussolare gli equilibri della prossima Serie A. Per lui è pronto un contratto da 7,5 milioni (più 2,5 milioni di bonus) per cinque anni. Alla Juventus (con cui Bonucci ha vinto sei scudetti di fila) andranno 40 milioni netti, senza contropartite tecniche. Subito dopo la firma, Bonucci effettuerà le visite mediche per il Milan: tutto a tempo di record, perché l’obiettivo di Fassone e Mirabelli è quello di far aggregare quanto prima il difensore alla rosa a disposizione di Montella già per la tournée del Diavolo in Cina (partenza oggi alle 13). ORA IL MILAN È AUTORIZZATO A SOGNARE – Leonardo Bonucci sarà il decimo acquisto della sontuosa campagna rafforzamento del nuovo Milan cinese: il suo arrivo colma una delle lacune più evidenti nella squadra rossonera (quella a centrocampo è stata sanata con l’acquisto dell’argentino Biglia dalla Lazio per 20 milioni di euro) e candida di diritto il Diavolo (di cui Bonucci sarà il nuovo capitano) a un ruolo da protagonista per la prossima stagione. Sui social, nel frattempo, i tifosi milanisti sono in subbuglio: in molti vedono l’arrivo di Bonucci come la vendetta per la mai digerita cessione di Pirlo alla Juve nonché la conferma delle intenzioni vincenti della nuova società, che ora punta tutto su una prima punta di grido per interrompere la striscia vincente della Vecchia Signora: il croato Kalinic della Fiorentina e l’ex Aubameyang (Borussia Dortmund) i nomi sul taccuino di Fassone e Mirabelli, che però potrebbero riservare altre sorprese al popolo rossonero. Che, dopo Bonucci, è autorizzata a sognare in grande.

    SENZA BONUCCI LA JUVE PERDE UN CARDINE – Diverso il discorso in casa Juventus. I soldi in arrivo da Milano probabilmente serviranno a colmare la lacuna che si è venuta a creare in difesa. È vero che Allegri potrebbe comunque puntare sul lancio definitivo di Rugani, ma comunque a livello numerico mancherebbe un centrale. In tal senso, non è mistero che per la sostituzione del centrale viterbese servirà un innesto di altissimo livello: radiomercato parla dei greci Manolas (Roma) e Papastathopoulos (Borussia Dortmund) e del laziale de Vrij, nomi che però non solleticano le fantasie del popolo bianconero, alle prese con una delle cessioni più dolorose degli ultimi anni. La reazione sarebbe diametralmente opposta, invece, se la Juve – come sembra – provasse a portare a Torino il brasiliano del Psg Thiago Silva, da sempre pupillo di Max Allegri. Resta il fatto che Bonucci, oltre ad essere tuttora uno dei migliori difensori del mondo, è stato l’asse portante dell’impenetrabile retroguardia che ha permesso alla Juventus di dominare in Italia e avere un ruolo importante in Europa. Non solo. Bonucci è uno degli idoli della tifoseria nonché uno dei leader dello spogliatoio.

    TENSIONI CON ALLEGRI E NELLO SPOGLIATOIO ALLA BASE DELLA CESSIONE – O almeno così era fino alla vigilia della finale di Champions di Cardiff: alcuni retroscena hanno parlato di una furibonda lite tra il primo e il secondo tempo della sfida con il Real Madrid, con Bonucci furioso nei confronti di Dybala ma anche di Barzagli. Una ricostruzione mai confermata, ma che comunque è arrivata dopo la litigata con Allegri – questa sì confermata – che costò al difensore la sfida di Champions contro il Porto. Ed è proprio quell’immagine di Bonucci da solo in tribuna, al pari dei post dopo la sconfitta di Cardiff (“È stato un onore far parte di questo gruppo”), a rendere l’idea di un addio non del tutto inaspettato, ma comunque clamoroso. Anche economicamente. Appena l’estate scorsa, infatti, il Chelsea di Antonio Conte (corsi e ricorsi storici: l’ex tecnico della Juve è andato via da Torino il 15 luglio 2014) aveva offerto oltre 60 milioni di euro. La Juve e Bonucci avevano detto no. Oggi la storia si ripete, con esito diverso: il calciatore è in viaggio verso Milano, a Torino lascia meno di quanto si sperasse in termini economici, ma soprattutto tantissimi dubbi di carattere tecnico sulla tenuta difensiva dei campioni d’Italia. La sensazione, infine, è che questo passaggio di maglia possa davvero cambiare gli equilibri della prossima Serie A.

    Torino, presentato il nuovo Filadelfia. Cairo: "Un luogo magico"

    Ricostruito e rinnovato lo storico impianto nel quale ha giocato il Grande Torino. Il presidente granata: "E' uno stadio quasi sacro, che ha sempre portato fortuna al club"

     

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    Calcio Italia 2017-2016.

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    Ultrà Atalanta: 20 arresti per spaccio, rapine e violenze negli stadi. Indagato anche il figlio del procuratore
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    INTER

     

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    Tra FFP e Pechino: Zhang con le mani legate.l'unione con Evergrande ed il possibile coinvolgimento nell'Inter.

    L'Inter, anche quest'anno, è stata frenata nella sua volontà di rilancio dal Fair play finanziario. "Quella in corso è la terza delle quattro stagioni previste dall’accordo firmato con Nyon e l’Inter deve chiudere il bilancio 2017-18 in parità, al netto delle spese virtuose (quelle sui giovani, sulle infrastrutture...) - sottolinea il Corriere dello Sport -. Impresa non facile perché il management, per raggiungere la parità nel bilancio chiuso lo scorso 30 giugno, ha contabilizzato la vendita pluriennale di alcuni suoi asset (il nome della Pinetina, il training kit, alcuni prodotti elettronici in co-branding per la Cina) e non potrà ripetere certe operazioni. Accordi simili sono allo studio in altre categorie merceologiche e non va escluso che entro giugno qualcosa che faccia lievitare i ricavi possa saltare fuori. Ciò premesso, l’Inter ha anche un’altra serie di sanzioni accessorie da evitare: per esempio se non vuole vedersi ridotta numericamente la lista Uefa per le coppe europee la spesa per gli stipendi dei calciatori deve ammontare massimo al 60% del fatturato. Ecco perché quest’anno il monte ingaggi è sceso rispetto ai 92 milioni della passata stagione e si è attestato intorno a quota 86. In caso di ricavi inferiori, l’Inter sarà comunque in regola. Sono stati risparmiati gli stipendi di Jovetic (3,5 milioni), Kondogbia (3,7), Medel (1,9) e Murillo (1,5) oltre a una parte di quello di Gabigol (3). E’ chiaro però che senza i paletti dell’Uefa, abbinati con le limitazioni del governo di Pechino, allestire una squadra ancora più competitiva e con più alternative sarebbe stato più semplice".

    E pure per il mercato di gennaio saranno limitati i margini di manovra per Ausilio e Sabatini. "Un sollievo per i conti potrebbe arrivare dai risultati: qualificarsi per la Champions garantirebbe al bilancio 2018-19 i soldi dell’ Uefa, ma in quello del 2017-18 finirebbero i bonus previsti dai contratti con gli sponsor nerazzurri e un assegno più alto da parte della Lega Serie A. Non sarebbe male...", spiega il quotidiano romano.Il gruppo Suning ha stabilito una nuova partnership importante con Evergrande Group, tra i principali gruppi cinesi nel settore immobiliare. La notizia è stata data dall'emittente di Stato CCTV5, secondo la quale i due colossi sarebbero pronti a dare vita ad una partnership che riguarderà diversi settori, dalla finanza all'energia elettrica: le due aziende in futuro saranno in stretto contatto, dando vita ad una sorta di fusione tra le due parti che potrebbe coinvolgere anche il calcio, essendo Evergrande proprietaria anche del Guangzhou, la squadra di calcio più titolata del Paese. Tra le varie ipotesi avanzate, la fusione tra la squadra oggi allenata da Felipe Scolari e lo Jiangsu Suning di Zhang Jindong, ma anche l'eventuale ingresso di Evergrande nel pacchetto azionario dell'Inter, dove rileverebbe la quota oggi in mano ad Erick Thohir, anche se per il momento sono solo supposizioni. Ieri, Xiu Jiayin, numero uno di Evergrande, è stato in visita nella sede di Suning, alla presenza di tutti i vertici delle due aziende a anche di Liu Jun, ex ad dell'Inter e Ceo di Suning Sports Group. Alla fine, i due hanno celebrato l'accordo con un brindisi uguale a quello compiuto da Zhang e Thohir nel giorno dell'annuncio dell'acquisizione del 70% dell'Inter. 

     

    Bologna-Inter 1-1

    . http://video.sky.it/sport/calcio/highlights-serie-a/bologna-inter-1-1/v367787.vid

    Crotone-Inter 0-2, Skriniar e Perisic regalano la vetta solitaria a Spalletti

    Crotone-Inter 0-2, Skriniar e Perisic regalano la vetta solitaria a Spalletti
    L'esultanza di Perisic dopo il gol del 2 a 0 (ansa)

     

    La quarta vittoria consecutiva dei nerazzurri, momentaneamente da soli al comando, matura nel finale dopo che la squadra di Nicola va più volte vicina al vantaggio e Handanovic è decisivo. A segno lo slovacco e il croato

    http://www.repubblica.it/sport/calcio/serie-a/2017/09/16/news/inter_vince_a_crotone-175668479/

    Inter-Spal 2-0, Icardi e Perisic firmano la terza vittoria di fila

    Inter-Spal 2-0, Icardi e Perisic firmano la terza vittoria di fila
    Perisic festeggia il gol del raddoppio (reuters)

     

    I nerazzurri restano in testa a punteggio pieno. L'argentino sblocca la partita con un rigore concesso grazie al Var, il croato raddoppia nel finale. La squadra di Semplici esce comunque a testa alta dal Meazza

    http://www.repubblica.it/sport/calcio/serie-a/2017/09/10/news/inter_batte_spal_con_icardi_e_perisic-175093201/

     

    Roma-Inter 1-3: super Icardi, giallorossi al tappeto

    Roma-Inter 1-3: super Icardi, giallorossi al tappeto
    Icardi realizza il gol del sorpasso (ansa)

     

    Una doppietta dell'argentino lancia i nerazzurri che passano all'Olimpico in rimonta, replicando all'iniziale gol di Dzeko. Nel finale chiude i conti Vecino. Sfortunati gli uomini di Di Francesco: tre pali e un sospetto rigore negato

    Spalletti gioca un brutto scherzo alla 'sua' Roma nel giorno del ritorno nella Capitale. Trascinato da un super Icardi, autore di una doppetta d'autore, passa in rimonta all'Olimpico e lascia l'Inter in vetta alla classifica a punteggio pieno. E' stata una vittoria sofferta al termine di una gara da due volti. Per un'ora la Roma è parsa decisamente superiore: ha segnato un gol col solito Dzeko e ha legittimato il vantaggio colpendo tre pali. Poi, d'incanto, è salito in cattedra Icardi che con due perle da grande centravanti ha preso per mano la squadra nerazzurra dandole forza e coraggio per portare a casa un successo pesantissimo in chiave Champions.

    ROMA SFORTUNATA, L'INTER C'E' - Alla Roma è mancata la fortuna. Per due volte i legni le hanno impedito di trovare il 2-0 che, probabilmente, avrebbe cambiato il corso della gara. Poi, una volta incassato il pari, sono venuti fuori i limiti di una rosa ancora incompleta, penalizzata, al momento, anche dagli infortuni. L'Inter non ha brillato per un'ora ma già dà l'idea di essere una squadra mentalmente più solida e con le idee chiare. Basi, insomma, fondamentali per costruire ben altra stagione rispetto alla scorsa.

    DI FRANCESCO LANCIA JESUS A DESTRA - Costretto a colmare il vuoto lasciato dagli indisponibili Bruno Peres e Karsdorp sulla destra, Di Francesco alla fine ha deciso di sacrificare Jaun Jesus, inserendo al centro della difesa Fazio. Spalletti ha replicato con uno schieramento più prudente rispetto a quello visto con la Fiorentina: fuori Brozovic e dentro Gagliardini con Borja Valero alzato a fare il regista alto dietro a Icardi.

    PALO DI KOLAROV, GOL DI DZEKO - L'Inter è partita facendo un buon pressing ma la Roma non ha sofferto. I giallorossi hanno allertato Handanovic sfiorando il bersaglio con Fazio sugli sviluppi di un angolo e poi con Kolarov, che ha centrato in pieno un palo con un gran sinistro al volo da 25 mt, e poi (15') sono passati: Nainggolan ha lanciato in area sul filo del fuorigioco Dzeko che dopo un perfetto controllo di petto ha scaraventato il pallone in rete con un preciso destro al volo.

    NAINGGOLAN CENTRA IL SECONDO LEGNO - L'Inter ha accusato il colpo e ha faticato a trovare il modo per mettere in moto i propri esterni. La Roma, brava a tenere corte le linee, ha difeso con ordine e al 39' ha sfiorato il raddoppio con Nainggolan  che ha spedito un bolide in diagonale di nuovo contro il palo alla destra di Handanovic. Passata la paura l'Inter ha spinto con più decisione e, prima della conclusione del tempo, ha trovato modo per per impegnare per la prima volta Alisson con un forte tiro dai 12 mt di Icardi.

    ROMA, TERZO PALO CON PEROTTI - Spalletti ha tentato a cambiare qualcosa: ha tolto Gagliardini, ha abbassato Borja Valero e ha mandato Joao Mario a fare il trequartista. Malgrado ciò l'Inter ha faticato a ritrovare le misure. E le è andata bene che la Roma non ne abbia approfittato. Perotti ha iniziato a fare il bello e cattivo tempo sulla sinistra ma non ha avuto la fortuna dalla sua parte. Prima non si è visto accordare da Irrati un sospetto rigore per un fallo di Skriniar e poi ha colpito il palo interno con un bel destro a giro dal limite.

    ICARDI PAREGGIA I CONTI - L'Inter ha tirato un sospiro di sollievo e, in pratica, sul capovolgimento di fronte ha pareggiato. Candreva ha smarcato al limite Icardi che con un destro in girata da grande attaccante ha battuto sul tempo Alisson. La Roma ha tentato immediatamente di riportarsi in avanti ma El Shaarawy, da poco subentrato a Defrel, si è visto negare da Dalbert, inserito al posto di Nagatomo il 2-1: l'ex difensore del Nizza ha salvato sulla linea in rovesciata un pallonetto del tornante giallorosso su un'uscita di Handanovic.

    PERISIC INVENTA, ICARDI E VECINO RIBALTANO IL RISULTATO - L'episodio ha rinfrancato l'Inter che, riuscendo finalmente a sfondare sulla sinistra con Perisic, ha fatto la differenza. L'esterno croato per due volte ha saltato Jesus in velocità ha contentito prima a Icardi (meraviglioso destro in girata) e poi a Vecino (tocco al volo in anticipo su Manolas), di chiudere la partita. Nel mezzo altre due grandi emozioni con Icardi che ha calciato addosso a Alisson un bel pallone smarcante di Valero e Nainggolan che da due passi, dopo un rimpallo, ha fallito il 2-2.  La Roma, con Under e Tumminello lanciati disperatamente nella mischia, si è rovesciata in avanti e, in pieno recupero, ha rischiato di incassare in contropiede anche l'1-4 su un sinistro di Joao Mario. Sarebbe stata una punizione decisamente eccessiva.

    ROMA-INTER 1-3 (1-0)
    Roma (4-3-3): Alisson, Juan Jesus, Manolas, Fazio, Kolarov, Nainggolan, De Rossi (38′ st Under), Strootman, Defrel (18′ st El Shaarawy), Dzeko, Perotti (46′ st Tumminello s.v.). (28 Skorupski, 18 Lobont, 15 Moreno, 40 Ciavattini, 7 Pellegrini, 21 Gonalons, 30 Gerson, 24 Florenzi, 48 Antonucci). All.: Di Francesco.
    Inter (4-2-3-1): Handanovic, D'Ambrosio, Skriniar, Miranda, Nagatomo (12′ st Dalbert), Gagliardini (1′ st Joao Mario), Vecino, Candreva (38′ st Cancelo), Borja Valero, Perisic, Icardi (27 Padelli, 13 Ranocchia, 15 Ansaldi, 61 Vanheusden, 77 Brozovic, 8 Jovetic, 23 Eder, 96 G.Barbosa, 99 Pinamonti). All.: Spalletti.
    Arbitro: Irrati di Pistoia 5,5.
    Reti: nel pt 15′ Dzeko; nel st 23′ e 32′ Icardi, 42′ Vecino.
    Angoli: 12-6 per la Roma.
    Recupero: 1′ e 3′.
    Ammoniti: Candreva, Juan Jesus per gioco falloso.
    Spettatori: 51.000

    Inter-Fiorentina 3-0: Icardi-Perisic stendono la Viola (grazie anche alla Var...)

    Inter-Fiorentina 3-0: Icardi-Perisic stendono la Viola (grazie anche alla Var...)
    L'esultanza dopo il gol di Perisic (lapresse)

     

    I nerazzurri partono fortissimo e grazie a una doppietta dell'argentino e a una rete del croato guadagnano i primi tre punti della stagione

    Due gol nel primo quarto d'ora, poi una lunga attesa con qualche sofferenza e infine il colpo del definitivo ko a undici minuti dalla fine. La prima Inter ufficiale di Spalletti diverte San Siro con un 3-0 alla Fiorentina, costruito fin dalle prime battute grazie al solito Mauro Icardi. L'argentino parte con una doppietta: primo gol su rigore conquistato dallo stesso centravanti (intervento scomposto di Astori), secondo con un colpo di testa da grande attaccante su cross di Perisic. Il croato è stato l'altro protagonista della serata con tante volate e il tuffo di testa della terza rete. A dimostrazione che la sua mancata cessione forse è il colpo migliore dell'estate nerazzurra.
     
    QUANTI INTRECCI TRA ALLENATORI - Tra il secondo gol di Icardi e il colpo della sicurezza di Perisic, la Fiorentina che pareva rassegnata al ruolo di sparring partner ha saputo reagire. I viola hanno chiamato Handanovic a un paio di parate difficili: prima con Simeone, poi con Babacar (il portiere sloveno è stato spesso chiamato in causa dai retro-passaggi dai compagni). L'ex tecnico interista Pioli ha alternato i suoi centravanti dopo un'ora di gioco. Per l'allenatore emiliano un'accoglienza calorosa da parte del pubblico di San Siro: striscione affettuoso degli ultrà nerazzurri e tanti applausi di tutto lo stadio (presenti quasi 52.000 spettatori). In una serata di intrecci intorno alle panchine in tribuna era presente l'ex viola Paulo  Sousa, accompagnato dalla moglie dopo aver seguito Atalanta-Roma a Bergamo nel pomeriggio (in tribuna anche il sindaco di Milano, Beppe Sala, tifoso nerazzurro, che a fine gara ha scambiato qualche impressione con Steven Zhang).
     
    PRIMO VAR A SAN SIRO - Ma l'occasione migliore per gli ospiti è arrivata al 33' del secondo tempo con un destro precisissimo del francese Veretout (il migliore dei suoi) che ha centrato in pieno il palo interno finendo per passare alle spalle di Handanovic e attraversare tutta la linea di fondo. E' stata l'ultima concreta speranza di rientrare in partita prima del 3-0 di Perisic. La Fiorentina avrebbe potuto avere un'altra chance nel primo tempo con un responso diverso da parte del Var, entrato in azione per un contatto sospetto in area tra Miranda e Simeone. Dopo quasi due minuti di consultazione davanti al monitor (un minuto e 48 secondi, tempi che vanno molto al di là delle richieste Fifa) il rigore non è stato concesso confermando così la decisione di Tagliavento che non è andato a seguire l'azione davanti al monitor ma ha atteso in mezzo al campo l'esito dell'esame dei colleghi.
     
    JOAO MARIO IN CATTEDRA - Spalletti ha alternato i suoi creativi in mezzo al campo sostituendo Borja Valero con Joao Mario e Brozovic con Gagliardini. Il numero 10 portoghese ha dispensato lezioni di calcio nei suoi 25 minuti in campo regalando assist ai compagni. Dopo due tentativi falliti da Icardi (suggerimento altruista a Gagliardini che ha sciupato malamente a porta quasi vuota) e Perisic, ci ha pensato lo stesso croato a trasformare in gol i suggerimenti del Campione d'Europa 2016. Spalletti ha risparmiato Dalbert, lasciato in panchina a beneficio di Nagatomo che è stato piuttosto brillante. Tra sei giorni prima prova della verità per lo Spalletti nerazzurro, atteso sabato sera all'Olimpico dalla "sua" Roma.   

    INTER - FIORENTINA 3-0
    INTER (4-2-3-1) Handanovic - D'Ambrosio, Skriniar, Miranda, Nagatomo - Vecino, Borja Valero (19' st Joao Mario) - Candreva, Brozovic (26' Gagliardini), Perisic - Icardi (38' st Eder). 
    FIORENTINA (4-2-3-1) Sportiello - Tomovic, Vitor Hugo, Astori, Olivera - Sanchez, Veretout (35' st Zekhnini) - Dias, Benassi (10' st Cristoforo), Eysseric - Simeone (15' st Babacar). 
    RETI: 4' pt su rigore e 15' pt Icardi, 34' st Perisic
    ARBITRO: Tagliavento
    NOTE: ammonito Sanchez. Spettatori 51.752.

    Inter già al palo completamente annientata dal Milan. 14 luglio 2017. Rossoneri avantissimo con Bonucci a cui si unisce Biglia dalla Lazio, Conti e Kessiè dall'Atalanta, Andrè Silva dal Porto, Borini dal Sunderland, Rodriguez dal Wolfsburg, Musacchio dal Villareal, rinnovo a Donnarumma a 6 milioni a stagione per 5 anni, Bonucci siamo intorno ai 10 milioni a stagione: Fassone e Mirabelli, ex dirigenti Inter cacciati da Thohir perchè ritenuti incompetenti e scemi , stanno letteralmente fumando la super mega proprietà di stocazzo Suning troppo impegnata a salvare lo Jangsu di Don Testa di Gran Cazzo Fabbio Merdoso Capello ( dirigenza con in mano l'Inter che si fa sfottere in casa sua da quel gobbo-milanista di merda, eccezzionale, solo quei coglioni fottuti dell'Inter riescono a tanta merda!!!!) per interessarsi della carcassa neroazzurra. Il Milan sta realizzando un capolavoro: ha saltato l'accordo tra gentiluomini dell'Uefa per il FFP che a quanto pare funziona solo per quegli stronzoni dell'Inter ( a proposito, altro che fuochi d'artificio dopo il 30 giugno: lettura dell'accordo alla mano, il pareggio di bilancio è obbligato fino all'esercizio 2018-2019......) e con la super campagna di rafforzamento che ha sfondato i 200 milioni di euro giocherà e giocherà bene la Merdopa perchè, come ha dimostrato M(a)ourinho, non è solo una coppetta di merda: ti da l'accesso alla Coppa dei Miliardi, se dovesse andare male il campionato, c'è un salvataggio a disposizione e senza mutilazione della rosa o coglionazzi olandesi lisergici in panchina che schieravano la primavera per fare collezione di figure di merda. Complimenti vivissimi per l'ennesima stagione di merda: la disastrosissima stagione scorsa è stata affidata ad un procuratore anglo-iraniano, questa ad un pelatina, che per quanto buon allenatore, si ritrova con una rosa già mozzata con la dipartita di Perisic, l'unico in grado di saltare l'uomo, ancora piena zeppa di oggetti misteriosi ( GabiMinchia e JoaoMarioLoScemo......) e di cammellati impossibili da vendere per lo schifo che fanno.

    Primavera, scudetto all'Inter: Fiorentina battuta 2-1. E' l'ottavo titolo. Dopo un anno di anarchia totale la prima squadra ha un allenatore: Spalletti

    Primavera, scudetto all'Inter: Fiorentina battuta 2-1
    (agf)

     

    Al Mapei Stadium i nerazzurri sconfiggono in finale i viola grazie ai gol di Vanheusden e Pinamonti. Inutile la rete di Sottil. I ragazzi interisti riportano a Milano un tricolore cinque anni dopo l'ultimo trionfo della stagione 2011/2012. Si tratta dell'ottavo titolo.

    REGGIO EMILIA - Il primo trofeo della gestione Suning dell'Inter arriva grazie al settore giovanile. La squadra nerazzurra infatti si è laureata Campione di Primavera battendo in finale al Mapei Stadium la Fiorentina per 2-1. I ragazzi allenati da Stefano Vecchi riportano a Milano un tricolore dopo cinque anni di digiuno.

    DECIDONO VANHEUSDEN E PINAMONTI - La partita ha visto il risultato sbloccato Vanheusden al 18′ del primo tempo, grazie a un colpo di testa su calcio d'angolo. Poi al 22′ della ripresa è giunto raddoppio di Pinamonti, bravo ad anticipare tutti e a concretizzare di testa e all'incrocio dei pali un cross di Emmers. Inutile il gol viola su rigore di Sottil al 31′, la Fiorentina esce sconfitta dalla finale per il titolo.

    OTTAVO SCUDETTO - È l'ottavo scudetto Primavera nella storia del club nerazzurro, cinque anni dopo l'ultimo trionfo della stagione 2011/2012. Quella era la squadra di Andrea Stramaccioni, in mano poi a Daniele Bernazzani al momento di prendere in mano la prima squadra. E si tratta di un en plein per Stefano Vecchi che, alla guida della formazione giovanile, nel 2015 ha vinto il Torneo di Viareggio, poi l'anno successivo la Coppa Italia e ora il Campionato.


     

    Lazio-Inter 1-3, risveglio nerazzurro con l'Europa già lontana. L'obbligo del pareggio di bilancio ed il disastro di Conte. Settima in classifica, fuori da tutto!

     

    Dopo due mesi e mezzo da incubo, la squadra di Vecchi torna alla vittoria piegando i biancocelesti, in vantaggio con Keita (poi espulso, così come Lulic) prima di crollare fisicamente e mentalmente: Andreolli, l'autogol di Hoedt e la firma finale di Eder fissano il punteggio. L’Inter vince una partita che non sposta nulla sul giudizio stagionale.

    Inter, Vecchi: "I giocatori non accettano lo sforzo. La squadra sta bene fisicamente ma fatica ad andare oltre".Il tecnico nerazzurro parla alla vigilia della sfida contro la Lazio: "Non possiamo finire la stagione in questo modo. Ho cercato di motivare i ragazzi sull'aspetto personale". "Gabigol? Titolare no, ma può giocare". La squadra ha preso mazzate clamorose ultimamente, è difficile essere solidali l’uno con l’altro, ognuno ha negatività dentro di sé, se singolarmente i ragazzi non risolvono i loro problemi non possono poi risolvere quelli del gruppo.

    Antonio Conte si presenterà da Abramovich (e Marina Granovskaia) forte dell’offerta Suning della quale si conoscono i dettagli praticamente ufficiali: Zhang senior ha offerto al tecnico campione col Chelsea un quinquennale da 15 milioni netti a stagione e un budget di 200 milioni per il mercato 2017-18. Conte, la cui intenzione è quella di non lasciare la Premier, è stato spiazzato dall’entità della proposta e aspetta di verificare le intenzioni di Abramovich prima di decidere.Nel frattempo prosegue lo screening dei cinesi e di Sabatini per individuare le alternative: Spalletti è ancora la soluzione più facile e convincente. Zhang vuole però un vincente

     

    Le parole di ieri di Ausilio potrebbero significare il suo addio all'Inter
    INTER-NEWS.IT
     
     
     
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    Torino-Inter 2-2: i nerazzurri franano DEFINITIVAMENTE nella rincorsa al terzo posto. Poi verranno le sconfitte col Doria e quella gravissima col Crotone. Prima stagione Sino-Indonesiana DISASTROSA, continua la collezione di ottavi e noni posti, ammassati oltre 200 punti di ritardo dalla prima in un lustro. Non si vede la fine di questo SFASCIO.

     

     

     

     
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    Football Club Internazionale Polisportiva

    Il Football Club Internazionale[1], noto come Internazionale Milano, è stata una squadra di pallacanestro maschile italiana della città di Milano, sezione della più famosa squadra di calcio.

    Prese parte ai primi campionati organizzati dalla Federazione Italiana Basket-Ball (FIB), capitanata dal presidente e fondatore della federazione Arrigo Muggiani. Vinse uno scudetto nel 1923 e non ottenne altri risultati di prestigio. Si sciolse alla fine degli anni venti.

    La formazione che vinse il quarto campionato italiano era composta da: Vito Baccarini, Gustavo Laporte, Manzotti, Arrigo Muggiani (capitano e allenatore), Marco Muggiani, Giuseppe Sessa.

    Arrigo Muggiani divenne in seguito presidente della Federazione Italiana Basketball; il fratello Marco fu il primo allenatore della Nazionale.

     

     

    Cronistoria[modifica | modifica wikitesto]

    Cronistoria del Football Club Internazionale
     
    • 1908 - Fondazione del Foot-Ball Club Internazionale il 9 marzo. Durante gli anni venti il club è attivo come società polisportiva.
    • 1922 - Partecipa al Girone A del campionato, perde la finale per il terzo posto contro la Comense.
    • 1923 - Scudetto.svg Campione d'Italia

    Palmarès[modifica | modifica wikitesto]

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    Addio a Eugenio Bersellini, guidò l'Inter allo scudetto del 1980

    Aveva 81 anni. Soprannominato 'sergente di ferro' per i suoi duri metodi d'allenamento, raggiunse il suo apice da allenatore nell'Inter, conquistando uno scudetto, nel 1980, e due Coppe Italia. Vinse la terza coppa con la Samp nell'85 e poi diventò campione di Libia nel 2002 con l'Al-Ittihad

     

    PRATO - PRATO - Il calcio piange il 'sergente di ferro'. A 81 anni è morto a Prato, dove risiedeva, Eugenio Bersellini. La famiglia sta allestendo la camera ardente. Calciatore non eccelso che, a parte gli ultimi due anni a Lecce, trascorse tutta la sua carriera in Lombardia, tra Brescia, Monza e Pro Patria, Bersellini ebbe la sua notorietà da allenatore collezionando ben 490 panchine in serie A (148 vittorie, 197 pareggi e 145 sconfitte).

    UNO SCUDETTO E DUE COPPE ITALIA CON L'INTER - In 4 anni passò dalla C alla massima categoria guidando Lecce, Como e Cesena. Il suo calcio pragmatico e redditizio lo portò a fare il salto di qualità, passando prima alla Sampdoria, che allenò dal 1975 al '77, e poi all'Inter, scelto dall'allora presidente Ivanoe Fraizzoli. Le cinque stagioni trascorse Milano fruttarono al tecnico uno scudetto, nel 1980, e due Coppe Italia (nel '78 e nell'82).

    UNA COPPA ITALIA CON LA SAMP - Dal 1982 passò al Torino, guidato fino al 1984, e poi, nelle due stagioni successive, tornò alla Sampdoria con cui, nel 1985, conquistò la terza Coppa Italia. Concluse la sua avventura in A nel 1990 nell'Ascoli dopo essere passato attraverso le esperienze alla Fiorentina (1986-1987) e all'Avellino (1987-1988). Quindi tornò in C1 al Como (1990-1991), in B a Modena (1991-1992), a Bologna (1992-1993), e a Pisa (da febbraio a giugno del 1994) e poi ancora in C1 con due anni al Saronno (1995-1997).

    CAMPIONE DI LIBIA CON L'AL-ITTIHAD - Dal 1998 al 1999 decise di tentate l'avventura all'estero mettendosi ala guida della Libia. Nel 2001 lasciò l'incarico per allenare l'Al-Ahly. Nel 2002 passò all'Al-Ittihad vincendo il campionato libico con in squadra tra gli altri, anche il figlio di  Gheddafi, Al-Sa'adi, noto in Italia per la breve parentesi a Perugia e a Udine. Smise ma nel 2006 rientrò nel mondo del calcio accettando l'invito della Lavagnese in Serie D che gli chiese di condurla alla salvezza. E riuscì nell'impresa vincendo il playout con la Narnese: 5-1 al ritorno dopo aver perso 0-2 all'andata. Il suo ultimo incarico fu quello di di direttore sportivo del Sestri Levante, squadra ligure di Serie D, nel 2007.

    IL RICORDO DI ALTOBELLI - "Mi sono sentito con i vecchi amici dell'Inter, siamo tutti in contatto via chat, e in questo momento posso dire che fra tutti noi c'è un grande momento di malessere" le parole di Alessandro Altobelli, che di quell'Inter allenata da Bersellini era il centravanti. "Bersellini è stata la mia grande fortuna - continua "Spillo" - Fu lui, appena arrivato all'Inter, a volermi in nerazzurro e lì mi fece crescere e diventare, grazie ai suoi allenamenti e al suo metodo, tutto quello che sono stato. Il merito è suo: evidentemente aveva visto qualcosa in me, qualcosa su cui lavorare e credere. Fu la mia fortuna e anche quella dell'Inter, che in quei 5 anni, oltre al campionato vinse due Coppe Italia, raggiunse una semifinale di Coppa campioni e batté due volte la Juventus in goleada".
    Eppure, il soprannome di Bersellini era "Sergente di ferro"... "Questo perché decideva tutto lui - spiega Altobelli - Perché credeva fortemente in quello che faceva, anche a costo di sbagliare. In effetti, oltre ad essere un grande tecnico, insisteva molto sulla preparazione atletica e all'epoca, in questo senso, fu un innovatore: aveva già introdotto lo stretching, ad esempio, nessuno lo faceva. Certo, poi c'erano anche ritiri dal venerdì fino alla metà della settimana successiva... Ma per vincere servono sacrifici e questo è il più grande insegnamento che ci lascia".

     
     
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                                                                                                                                                                                                                                                                                       aprile 2015

                                                                                                                                                                                                                                                                                       

                                                                                                                                                                                                                                                                                       

                                                                                                                                                                                                                                                                                       

     

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    Scudetto.svg 1. 600px Nero e Bianco (Strisce).png Juventus 77
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    Coppacampioni.png 3. 600px Azzurro con N cerchiata.png Napoli 55
    UEFA Cup (adjusted).png 4. 600px Colori di Udine.png Udinese 55
    UEFA Cup (adjusted).png 5. 600px Nero e Azzurro (Strisce)2.png Inter 55
      6. Bianco e Celeste con aquila.svg Lazio 55
      7. Giallo oro e Rosso cremisi.svg Roma 51

     

     

       CALCIO EUROPEO e COPPE

     

     

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    Champions, troppo Messi per la Juventus: il Barcellona vince 3-0

    Champions, troppo Messi per la Juventus: il Barcellona vince 3-0
    Messi esulta dopo il gol (lapresse)

     

    La squadra di Allegri regge un tempo al Camp Nou, prende gol all'ultimo minuto del primo tempo poi crolla nella ripresa sotto i colpi della stella argentina autore di una doppietta. A segno anche Rakitic

    Una lezione di calcio, un'umiliazione per la Juve che ricomincia la Champions prendendo 3 gol, dopo che l'aveva chiusa a Cardiff prendendone 4. Il crollo difensivo lo produce Messi (doppietta, assist, palo), ma il più forte giocatore al mondo non è la sola spiegazione del disastro. In realtà, la difesa bianconera è diventata un concetto astratto. La fine della Bbc, con Bonucci andato a fare danni al Milan e Barzagli e Chiellini invecchiati e/o infortunati, consegna ad Allegri un reparto quasi tutto da rifare. Al Camp Nou è stato imbarazzante vedere Benatia che annaspava in quel modo, e non è che i suoi colleghi facessero molto di più o molto meglio. La Juve si è spaccata come una mela, e non l'hanno tenuta insieme le sue stelle d'attacco che in Europa continuano a mancare. Al cospetto di Messi, Dybala è sembrato un bambino alle prese con la palletta di gomma, mentre Higuain è stato abulico come troppo stesso gli accade, proprio come nella sventurata finale di Cardiff. Non si vince una Champions così, anzi si cade subito, inciampando sul primo gradino.

    La Juve è stata quasi sempre sotto ritmo, però ha tenuto il campo per mezza partita, più il campo del pallone. Il Barcellona sembrava quasi tornato alla sua antica vocazione al palleggio, un po' estenuato e più sterile che negli anni d'oro. Anche se al 20' è servita una parata angelica di Buffon, con l'istinto della mano destra e la rapidità che pareva perduta: altro che finito, quello è stato un guizzo da drago ventenne. Suarez, il tiratore, quasi non ci credeva. Poi, però, povero Gigi, che incubi.
    Fino al primo gol di Messi, i bianconeri hanno respinto con mestiere l'onda d'urto catalana, non troppo veemente in verità, ma nei pochi istanti del vantaggio si è notata l'evidente differenza tecnica: uno scambio stretto tra Suarez e l'argentino ha pietrificato Sturaro, Barzagli e Benatia (persino un tunnel tra le sue gambe), con Buffon che non poteva certo raggiungere quell'angolo lontano dove Messi aveva deciso di depositare il pallone.

    Champions, troppo Messi per la Juventus: il Barcellona vince 3-0

    Higuain in azione

    Alle assenze strutturali e numerose (Mandzukic, Chiellini, Khedira, Cuadrado, Marchisio, Hoewedes, più Lichtsteiner non inserito nella lista Uefa), dopo nemmeno mezza gara è andata ad aggiungersi quella dell'infortunato De Sciglio, il quale peraltro aveva a lungo vagato con estremo imbarazzo. Dopo la sua uscita, la Juve si è sistemata con una insolita difesa a 3, con Barzagli lasciato comunque al centro insieme a Benatia e Sturaro piazzato sull'esterno destro, però più avanzato rispetto a De Sciglio. Tutto sarebbe stato più semplice se Lichtsteiner non fosse stato escluso abbastanza inspiegabilmente da questa prima fase di Champions. Alla fine, però, lo show di Messi ha umiliato i bianconeri, una pena quel secondo tempo senza sostanza, con pochissimo cuore e con voragini difensive, un canyon nel quale il Barcellona è andato in gita.

    BARCELLONA-JUVENTUS 3-0 (1-0)
    BARCELLONA (4-3-3) Ter Stegen - Semedo, Piqué, Umtiti, Jordi Alba - Rakitic (32' st Paulinho), Busquets, Iniesta (38' st André Gomes) - Dembélé (25' st Sergi Roberto), Messi, Suarez. All. Villaverde
    JUVENTUS (4-3-3) Buffon - De Sciglio (41' pt Sturaro), Barzagli, Benatia, Alex Sandro - Bentancur (18' st Bernardeschi), Pjanic, Matuidi - Dybala, Higuain (42' st Caligara), Douglas Costa. All. Allegri
    Arbitro: Skomina (Slo).
    Marcatori: 45' pt Messi, 11' st Rakitic, 24' st Messi.
    Note: ammoniti Bentancur, Semedo, Messi, Barzagli, Pjanic, Caligara. Spettatori paganti 78.656.

    Fair play finanziario, Uefa apre inchiesta su Paris Saint Germain

    Nel mirino del massimo organismo continentale, gli acquisti di Neymar e Mbappé

     

    ROMA - Psg sotto inchiesta dopo la dispendiosissima campagna acquisti. La Camera Investigativa dell'Organo di Controllo Finanziario per Club della Uefa ha aperto un'inchiesta formale sul club francese nell'ambito del suo continuo monitoraggio dei club disciplinati dalle regole del Fair Play Finanziario (FFP). Lo rende noto il massimo organismo continentale del calcio. L'inchiesta sarà incentrata sulla conformità del pareggio di bilancio, in particolare dopo i recenti trasferimenti della finestra di mercato estiva.

    Nel mirino ci sono gli acquisti da parte del brasiliano Neymar e del francese Mbappè, strappati a suon di milioni, rispettivamente, dal Barcellona e dal Monaco. Nei prossimi mesi la Camera Investigativa dell'Organo di Controllo Finanziario per Club della Uefa si incontrerà regolarmente per valutare attentamente tutta la documentazione relativa a questo caso. "La Uefa ritiene il Fair Play Finanziario sia un sistema fondamentale per assicurare la sostenibilità finanziaria del calcio europeo. La Uefa - conclude la nota - non rilascerà ulteriori commenti su questa vicenda mentre sarà in corso l'inchiesta".

    Champions League: la Juve inizia dal Camp Nou. La Roma ospita Simeone, Napoli in Ucraina

    I bianconeri impegnati il 12 settembre a Barcellona. La squadra di Di Francesco accoglie l’Atletico Madrid. Gli azzurri esordiranno il 13 nella trasferta contro lo Shakhtar

     

    ROMA - La Juventus riparte dal Camp Nou. I bianconeri esordiranno in Champions League il 12 settembre sul campo del Barcellona. L'ultimo precedente risale all'anno scorso ed è favorevole: uno 0-0 con il quale la squadra di Allegri ha difeso il 3-0 dello Juventus Stadium, centrando la semifinale nella massima competizione europea. Questa volta l'incontro con Messi e compagni è più lontano dalla finalissima, che si disputerà il 26 maggio a Kiev. Il Barcellona affronta un momento di difficoltà dopo l'addio di Neymar al Paris Saint-Germain, che ha messo la dirigenza in grave difficoltà, ma fare risultato in Catalogna è sempre difficilissimo. Nel girone anche Olympiacos - che il 27 settembre si presenterà all'Allianz Stadium - e Sporting Lisbona.

    ROMA CONTRO SIMEONE - Nella giornata d'apertura della Champions un'altra sfida Italia-Spagna: la Roma di Di Francesco ospiterà l'Atletico Madrid, nel primo dei quattro big match di un girone che si prospetta molto complicato. Oltre alla squadra di Simeone, infatti, i giallorossi incontreranno anche il Chelsea di Conte (primo incrocio a Stamford Bridge il 18 ottobre). Quarta forza, almeno sulla carta, il Qarabag: la prima squadra azera a partecipare alla Champions League.

    SARRI INIZIA DA CHARKIV - Il 13 settembre sarà la volta del Napoli, impegnato a Charkiv contro lo Shakhtar Donetsk. I padroni di casa giocano da un paio di stagioni nell'arena del Metalist a causa della guerra con la Russia iniziata nel 2014, che ha coinvolto tutto l'est dell'Ucraina e in particolare Crimea e Donbass, la regione in cui si trova Donetsk. L'esordio al San Paolo contro il Feyenoord. La prima contro il City di Guardiola in Inghilterra, il 17 ottobre.

    NEYMAR IN SCOZIA - Tra le big esordio difficile per il Paris Saint-Germain di Neymar, contro il Celtic di Rodgers. Gli scozzesi sono la terza forza del girone e si giocheranno subito una chance a Celtic Park. Il Real Madrid campione in carica ospita l'APOEL. Il Manchester United ad Old Trafford il Basilea, mentre il City andrà in trasferta a Rotterdam, contro il Feyenoord. Carlo Ancelotti e il suo Bayern all'Allianz Arena contro l'Anderlecht. Infine, due match molto equilibrati: Liverpool-Siviglia e Tottenham-Borussia Dortmund.

    Il calendario delle italiane:
    GRUPPO A

    12 settembre, Roma-Atletico Madrid
    27 settembre, Qarabag-Roma
    18 ottobre, Chelsea-Roma
    31 ottobre, Roma-Chelsea
    22 novembre, Atletico Madrid-Roma
    5 dicembre, Roma-Qarabag
    GRUPPO D
    12 settembre, Barcellona-Juventus
    27 settembre, Juventus-Olympiacos
    18 ottobre, Juventus-Sporting Lisbona
    31 ottobre, Sporting Lisbona-Juventus
    22 novembre, Juventus-Barcellona
    5 dicembre, Olympiacos-Juventus
    GRUPPO F
    13 settembre, Shakhtar-Napoli
    26 settembre, Napoli-Feyenoord
    17 ottobre, Manchester City-Napoli
    1 novembre, Napoli-Manchester City
    21 novembre, Napoli-Shakhtar

     

     

    C

     

     

     

     

    Gran Bretagna

    Premier 2013-2014 : al Manchester City Titolo e Coppa di Lega, all'Arsenal la Coppa d'Inghilterra

     

     

    Germania

     

    Spagna

     

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    Spagna, tonfo Real Madrid: cade in casa con il Betis

    Spagna, tonfo Real Madrid: cade in casa con il Betis
    (ap)

     

    Clamoroso ko interno dei Blancos, che non solo non battono il record del Santos di Pelè (73 partite sempre in gol) ma scivolano a -7 dal Barcellona

    Serata da incubo per il Real Madrid, che nella sera del ritorno in campo di Cristiano Ronaldo dopo la squalifica, incappa in un brutto ko interno contro il Betis Siviglia. La rete degli andalusi giunge proprio in extremis grazie all'ex Roma Antonio Sanabria, che con i Blancos totalmente sbilanciati in avanti, colpisce al 94' con un colpo di testa ravvicinato. Sfuma anche la possibilità di battere il record del Santos, solo eguagliato nello scorso turno, di 73 partite consecutive sempre in gol. Ora in classifica si complica, con il Barcellona a +7. Al secondo posto, a due lunghezze dai blaugrana, c'è invece il Siviglia di Berizzo che riesce a piegare il Las Palmas a sette minuti dalla fine grazie alla rete di Jesus Navas.

    Il Real Madrid viene staccato anche dall'Atletico. I colchoneros, avversari della Roma in Champions, soffrono sul terreno del San Mamés contro l'Athletic Bilbao, ma alla fine riescono a conquistare i tre punti imponendosi per 2-1. L'Atletico ha rischiato di andare sotto al 41' del primo tempo, ma il centravanti Aduriz ha fallito dal dischetto, nella ripresa è passato in vantaggio con Correa al 10', al 28' è arrivato il raddoppio di Griezmann. L'arrembaggio finale dei baschi ha prodotto il gol della bandiera di Garcia al 47', su passaggio di Balenziaga.

    Dopo aver raccolto un primo punto nelle prime 4 giornate, il Deportivo La Coruna centra il primo successo stagionale superando 1-0 l'Alaves con un gol di Luisinho a fine primo tempo. Baschi invece ancora a zero in attesa di scegliere il sostituto dell'esonerato Zubeldia.

     

     

    Spagna, il Real Madrid torna campione dopo 5 anni,doblete con la 12a Coppa dei Campioni

    Spagna, il Real Madrid torna campione dopo 5 anni
    (lapresse)

     

    I Blancos, a cui sarebbe bastato un pareggio, vincono a Malaga 2-0 e si aggiudicano la Liga, che mancava dal 2012. Inutile il successo in rimonta del Barcellona su l'Eibar

    Dopo una lunga attesa durata 5 anni, il Real Madrid torna a vincere la Liga conquistando il 33esimo titolo. Ai Blancos bastava un punto alla 'Rosaleda' di Malaga ma Cristiano Ronaldo ha indirizzato ancora meglio la sfida dopo 2': passaggio Isco, dribbling su Kameni in uscita e palla in rete. E' la settima stagione consecutiva che l'asso portoghese chiude con più di 40 reti complessive, mentre il Real ha segnato in tutte le partite di questa Liga portandosi a 50 match consecutivi, inclusa la scorsa annata. Il Malaga ci ha provato, ma Navas è stato decisivo in più di un'occasione: in particolare nel primo tempo ha tolto letteralmente dall'incrocio una punizione di Sandro Rodriguez. In apertura di ripresa però Benzema (in posizion dubbia) ha chiuso i giochi, ribattendo in rete un grande intervento di Kameni su Sergio Ramos.

    Spagna, carattere Real: rimonta due gol e batte il Villarreal. Il Barcellona espugna il Calderon

    Spagna, carattere Real: rimonta due gol e batte il Villarreal. Il Barcellona espugna il Calderon
    Messi entra e decide la sfida (ap)

    I blaugrana battono 2-1 l'Atletico, ma in serata arriva la grande risposta della squadra di Zidane, che sull'orlo del baratro vince (2-3) una gara che potrebbe risultare decisiva. Giornata che potrebbe risultare determinante nell'economia della Liga. Il Real Madrid rimonta due gol al Villarreal e resta in testa alla classifica, anche con una partita ancora da recuperare. A Vila-Real, dove succede tutto nella ripresa. Trigueros e Bakambu illudono il Sottomarino Giallo, ma Bale, Ronaldo (rigore) e Morata firmano il successo per 3-2 degli uomini di Zidane.

    Il Barcellona in precedenza aveva centrato un successo molto pesante in casa dell’Atletico Madrid. La sfida del “Vicente Calderon” termina 2-1 e vede i Il Barcellona aggiudicarsi l’ennesimo confronto stagionale contro la squadra di Simeone. La gara si sblocca al 64′, con Rafinha che trova la stoccata vincente dopo una serie di rimpalli in area. I Colchoneros, chiamati a ‘vendicare’ l’eliminazione in Coppa del Re, riescono a trovare il pari dopo sei minuti grazie all’incornata di Godin, ma all’86’ Messi di prepotenza sigla il definitivo 2-1. Torna a vincere dopo due sconfitte di fila l’Espanyol, che rifila tre gol all’Osasuna. Apre i giochi Caicedo, che alla mezz’ora sbaglia anche un rigore dopo il fallo con espulsione di Oier, mentre nella ripresa vanno a segno Jurado e, nel recupero, Moreno.

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    Spagna, finale di Coppa del Re: vietate le bandiere catalane

    La Delegazione del Governo di Madrid, in occasione della gara tra Barcellona e Siviglia, ha deciso di vietare l'ingresso allo stadio della bandiera associata all'indipendentismo catalano. E c'è chi suggerisce di boicottare la partita

    MADRID - È polemica in queste ore in Spagna in seguito alla decisione delle autorità di Madrid di vietare l'accesso al Vicente Calderon, sede domenica della finale di Coppa del Re tra Barcellona e Siviglia, di vietare l'ingresso allo stadio della "Estelada", la bandiera non ufficiale utilizzata generalmente dai simpatizzanti dell'indipendenza catalana. La polizia ha comunicato che verrà perquisito ogni spettatore che avrà accesso alla partita per evitare che le bandiere "vietate" possano entrare, il tutto basandosi sulla Legge dello Sport che, come spiegato dalla delegata del governo spagnolo Concepcion Dancausa "Non deve convertirsi in uno scenario di confronto poltico." Le reazioni da parte delle autorità catalane non si sono fatte attendere.

    REAZIONI POLITICHE - Il presidente della Generalitat, il governo catalano, Carles Puidgemont, e il sindaco di Barcellona, Ada Colau, hanno già fatto sapere che diserteranno la finale di Coppa del Re come segno di protesta per il divieto. "Non sono d'accordo con la decisione e non andrò alla finale," - ha sentenziato senza mezzi termini Puidgemont, aggiungendo, - La Estelada è una bandiera legale e democratica, la si può vedere sui balconi di Barcellona e nelle mani di milioni di catalani che in essa vedono un simbolo di libertà."

    BOICOTTARE LA FINALE -
     Ancor più contundente è stato il commento di Joan Tardá, portavoce al Congresso del partito politico della Sinistra Repubblicana Catalana (ERC). "È una vergogna che una bandiera legale venga proibita, - ha scritto il deputato nel suo account di Twitter, - Se si attacca la libertà di espressione, forse sarebbe meglio che il Barcellona non si presenti, che boicotti la finale."

    CONDANNA BLAUGRANA
     - La dirigenza della stessa squadra catalana si è espressa tramite un comunicato condannando la decisione della delegazione del Governo di Madrid, definendo il veto alla Estelada come: "Un attentato alla libertà di espressione, un diritto fondamentale di tutti gli individui." - sottolineando che il Barcellona, - "Ha difeso e continuerà a difendere la libertà di espressione dei suoi soci e tifosi, che hanno sempre dimostrato un alto livello di civiltà e rispetto." La società catalana ha anche chiesto a chi ha preso la decisione "Senso di responsabilità e collaborazione per la creazione di un buon clima che deve precedere un evento come la finale di Coppa del Re."

    I PRECEDENTI - Indipendentemente dalla legittimità o meno della decisione, le ragioni legate una decisione di un tale veto vanno ricercate nei precedenti che si sono venuti a creare ogni volta che il Barcellona (sia nel calcio sia nel basket) ha partecipato a

     

    una finale di Coppa del Re. Con la presenza di migliaia di bandiere relazionate con l'idea indipendentista e la marea di fischi che sovrastano l'esecuzione dell'inno spagnolo, senza dimenticare la presenza dello stesso Re di Spagna, di cui la coppa porta il nome, i tifosi catalani hanno sempre espresso quello che alcuni non esitano definire il proprio orgoglio e il proprio malestare nei confronti della nazione da cui vorrebbero staccarsi. Difficile credere che semplicemente vietando

     

     

    La Liga per il secondo anno consecutivo va al Barca. Con  vittorie consecutive finali i blaugrana tengono a distanza Real ed Atletico, nonostante la flessione dall'eliminazione clamorosa dalla Coppa dei Campioni. E' il 24° titolo, per il Real Mdrid la stagione è da salvare nella finale di Coppa dei Campioni, nel derby contro l'Atletico di Simeone....

     

     

     

     

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    Luca Cordero di Montezemolo: "Ferrari ormai è americana". Lo sfogo del manager a un passo dalle dimissioni. Licenziato in diretta dal Grande Capo Minchionne,il figlio illegittimo di Gianni Agnelli ha fatto la fine di Zaccheroni...

    La dimissioni ancora non ci sono, ma tutto suggerisce che arriveranno molto presto. Soprattutto dopo le parole con cui da Cernobbio Sergio Marchionne ha liquidato la questione: "Nessuno è indispensabile". Così per Luca Cordero di Montezemolo, da 23 anni alla guida della Ferrari, è già tempo di ricordi e riflessioni amare. "È finita un'epoca", avrebbe commentato ieri sfogandosi con persone a lui vicine, secondo quanto riporta stamattina il Corriere della Sera. "La verità è che ormai la Ferrari è americana".

    Leggi anche: Sergio Marchionne su Luca Cordero di Montezemolo: "Tutti sono necessari, nessuno è indispensabile. La Ferrari non vince da 6 anni"

    Il timore di Montezemolo è che ora, con la quotazione a Wall Street della nuova Fca e la sua uscita da Maranello, la Ferrari possa "diventare come la Lamborghini". D'altronde la Ferrari è "il marchio più conosciuto al mondo", l'oggetto dei desideri per eccellenza. Al punto che Montezemolo non si sorprenderebbe affatto se fosse proprio Marchionne, in futuro, a diventarne presidente.

    Con una punta di nostalgia, Montezemolo avrebbe ricordato ai suoi di quando l'avvocato Agnelli comprò la Ferrari per tenerla in Italia ed evitare proprio che finisse nelle mani degli americani della Ford. Premure antiche, di cui oggi non resta più nulla. Quanto alle parole di Marchionne, Montezemolo si sarebbe limitato a descriverle con un aggettivo: "ingenerose". Come ingenerosa è stata la sua estromissione dal consiglio di amministrazione della nuova società, una decisione che al manager non è mai andata giù.

     

    LA WILLIAMS IN MOSTRA ALLA MALPENSA TERZA E QUARTA AL GRAN PREMIO DI MONZA 7 SETTEMBRE 2014

     

     

    Ferrari, Marchionne gela Montezemolo "Contano i risultati: noi non vinciamo da 6 anni"

    Ferrari, Marchionne gela Montezemolo
    "Contano i risultati: noi non vinciamo da 6 anni"

    L'ad: "La questione non è all'odg, ma nessuno è indispensabile
    Abbiamo i piloti migliori, non possiamo partire dal 7° posto"
    Gp Monza, vince Hamilton. Alonso si ritira / Cronaca

    Doppietta Mercedes nel giorno del disastro Ferrari: primo Hamilton, poi Rosberg. Il tutto con Alonso costretto al ritiro - sembra per un problema al motore - quando arrancava in decima posizione, e Raikkonen nono al traguardo solo grazie alla penalizzazione di 5 secondi inflitta a Magnussen.

    La cronaca della gara, giro per giro

    Una disfatta che pesa: per la prima volta - da quando è in Ferrari - Alonso non sale sul podio a Monza, e questo succede proprio sotto gli occhi di Marchionne, Montezemolo e un mare di tifosi. Tifosi che - a quanto pare - sembra abbiano già scelto su cui puntare: Hamilton, applaudito qui come se corresse in Ferrari, con tanto di fischi per il suo odiato compagno di squadra Rosberg. E stesso discorso per Massa, terzo, festeggiato con grande calore dai ferraristi che non dimenticano il suo passato con la tuta rossa. "Non corro più per la Ferrari - ha detto commosso Felipe sul podio, rivolgendosi direttamente ai tifosi - ma il mio cuore è sempre qui con voi".

    Quarto si è classificato il finlandese Valtteri Bottas, con la seconda Williams, e quinto Daniel Ricciardo (Red Bull), vincitore delle ultime due gare.

    L'australiano ha preceduto per l'ennesima volta il compagno di squadra Sebastian Vettel e Magnussen (McLaren), che però per una penalizzazione di cinque secondi retrocede al decimo posto, alle spalle di Raikkonen. Settimo è quindi Perez con la Force India, ottavo Jenson Button (McLaren).

    Dal punto di vista della classifica mondiale comunque cambia poco perché Rosberg rimane saldamente al comando, ma la seconda vittoria in carriera sul circuito di Monza, da aggiungere alle tre pole position ottenute, per Hamilton ha un sapore speciale, che segna un punto molto importante a suo favore nei confronti di Nico.

    Non va dimenticato infatti che Lewis - per la gioia dei suoi tanti tifosi a Monza - la vittoria se l'è davvero meritata: sopo una partenza complicata che lo ha visto retrocedere dalla pole in quarta posizione, Hamilton ha iniziato una rimonta irresistibile a colpi di sorpasssi e giri veloci. Al 28° giro la svolta, con Rosberg che va lungo a una variante ed è costretto a cedere la prima posizione al compagno di squadra. Per Hamilton è poi una marcia trionfale fino alla vittoria.

    Blog, mondiale riaperto

    In ogni caso la sesta vittoria stagionale consente ad Hamilton di diminuire il gap che lo separa da Rosberg in classifica: con 238 punti il tedesco è ora a +22 sul compagno di squadra. I due driver della Mercedes, dopo il chiarimento e la tregua seguiti all'incidente di Spa, si sono ignorati al termine della gara. La sfida è aperta.

    Ordine d'arrivo
    1 Lewis Hamilton Mercedes
    2 Nico Rosberg Mercedes +3.1 secs
    3 Felipe Massa Williams-Mercedes +25.0 secs
    4 Valtteri Bottas Williams-Mercedes +40.7 secs
    5 Daniel Ricciardo Red Bull Racing-Renault +50.3 secs
    6 Sebastian Vettel Red Bull Racing-Renault +59.9 secs
    7 Sergio Perez Force India-Mercedes +62.5 secs
    8 Jenson Button McLaren-Mercedes +63.0 secs
    9 Kimi Räikkönen Ferrari +63.5 secs

     

     

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