DISASTRO
CLIMATICO E MORFOLOGICO ITALIOTA e MONDIALE
. La
salvezza del mondo: il Tardigrado

Al massimo raggiungo il mezzo
centimetro di lunghezza, complessivamente
costituiscono un gruppo di circa un
migliaio di specie (finora
accertate), per chi conosce meglio il mondo animale
appartengono al “phylum dei protostomi celomati”: sono loro
che un giorno, se
mai la Terra dovesse essere colpita da un cataclisma.
potrebbero portare avanti la vita finché
il pianeta torni ad avere condizioni adatte ad altre specie
più complesse. Sono
i tardigradi.
Non sono esseri viventi appena scoperti, tutt’altro, ma ora
uno studio della Oxford University, pubblicato su Scientific
Reports ci
dice quali sono le loro
strabilianti caratteristiche e
capacità di sopravvivenza.
Eccole:
-
possono sopravvivere a -272 °C per qualche minuto (si
ricordi che la lo zero assoluto, ossia la temperatura al
di sotto della quale non si può ulteriormente scendere è
-273 °C),
- oppure a
-20 °C per decenni e all’opposto
-
possono vivere anche a +150 °C.
- Il loro corpo permette
loro di sopravvivere
sia a pressioni uguale a zero, come quelle che vi sono
nello spazio,
-
sia a pressione di 1.200 atmosfere come si incontrerebbero
sul fondo della Fossa delle Marianne a
11.000 metri di profondità sotto il livello del mare.
- E se manca cibo, non
importa. Possono
sopravvivere anche 30 anni senza toccare acqua e alcun
nutrimento.
- E se ne fanno un baffo
a livelli di radiazioni migliaia
di volte superiori a quelle che distruggono tutte le altre
forme di vita.
I ricercatori dicono che non
si riesce a trovare quale evento catastrofico potrebbe
interessare il nostro pianeta che possa distruggerli
completamente. Non
un asteroide (al
momento non
ce ne sono di noti in rotta di collisione con
la Terra), nemmeno
l’esplosione di una supernova nelle
vicinanze del nostro pianeta (dovrebbe trovarsi a 0,14 anni
luce per creare loro problemi, ma la stella più vicina si
trova a 4 anni luce) e neppure i micidiali raggi gamma,
tipici di esplosioni che avvengono nell’Universo di
inusitata potenza, potrebbero far scomparire completamente i
tardigradi.
Al di là di aver trovato i veri Highlander del
nostro pianeta le caratteristiche dei tardigradi portano ad
alcune riflessioni davvero interessanti.
La prima fa ipotizzare che la
vita sul nostro pianeta potrebbe rimanere quasi sicuramente
fino a che il Sole si spegnerà, fra 3 o 4 miliardi
di anni, indipendentemente da ciò che potrà accadere al
pianeta stesso (a meno di un impatto con un corpo celeste
che lo disintegri completamente).
Questo ci dice anche che se la vita sboccia su un pianeta
risulta sorprendentemente resistente e dura a scomparire.
Sottolinea Rafael
Alves Batista, della Oxford University e fra gli
autori dello studio: “È quasi
certo che la vita sulla Terra può continuare a prolificare
anche ben dopo di noi. I tardigradi sono molto vicini a
quello che potremmo definire immortalità”.
In secondo luogo la loro esistenza fa supporre che la
vita nell’Universo potrebbe esistere anche in condizioni
inimmaginabili per noi uomini e forse stiamo limitando
enormemente il campo entro cui andiamo a cercare la vita
extraterrestre su
altri pianeti, in quanto imponiamo
regole che salvaguardano quasi unicamente la vita dell’uomo
o al più dei mammiferi o dei rettili.La
vita invece, potrebbe avere un range di condizioni
estremamente più ampia. E questo è un motivo in più per
cercarla altrove, su Marte, in altri luoghi del sistema
solare e certamente tra i pianeti di altre stelle.
Clima, il Mar Caspio sta evaporando. ''A questo ritmo la
parte Nord sparirà in 75 anni''
Non è la prima volta che il più grande lago del mondo perde
acqua, ma ora lo sta facendo a un ritmo doppio rispetto al
minimo degli anni '70, la scoperta si deve alle osservazioni
satellitari. Secondo gli scienziati se non aumenterà
l'apporto dei fiumi o delle piogge, tutta la sua parte meno
profonda potrebbe andare perduta.
ANCHE il Mar Caspio sta perdendo acqua, evapora a causa
delle temperature sempre più alte: il suo livello è sceso di
un metro e mezzo in circa 20 anni e continua ad abbassarsi.
Il lago più grande del mondo soffre dunque l'eccessiva
evaporazione e l'apporto da piogge e fiumi che è sempre più
scarso. A questo ritmo tutta la sua parte settentrionale
potrebbe sparire nel giro di tre quarti di secolo.

A preoccupare gli studiosi non è tanto il livello attuale
delle acque, non è stato infatti ancora raggiunto il record
negativo fatto registrare alla fine degli anni '70, quanto
piuttosto il trend in picchiata, un calo di quasi sette
centimetri all'anno, il doppio rispetto a 40 anni fa. La
tendenza non sembra diminuire, anzi, dal 1995 al 2015 la
curva è diventata sempre più ripida. Metà della colpa,
secondo un team internazionale di ricercatori guidati
dall'Università del Texas, autori dello studio pubblicato
su Geophysical
Research Letters,
è da attribuire alle temperature, che sono cresciute in
media di un grado centigrado tra i due periodi di
riferimento (1979-1995 e 1995-2015). E che continueranno ad
alzarsi, secondo gli scienziati, guidate dai cambiamenti
climatici in atto. A influire però sono anche la riduzione
delle precipitazioni e il contributo dei fiumi, il più
grande dei quali è il Volga.
REPORTAGE Nel
deserto dell'Aral, dove il lago è un ricordo
La scoperta che il mar Caspio si sta riducendo è avvenuta
quasi per caso, calibrando gli strumenti dei satelliti Grace
(Gravity recovery and climate experiment) della Nasa, sonde
che misurano accuratamente il campo gravitazionale della
Terra e che riescono a individuare e misurare la quantità di
acqua presente, anche nel sottosuolo.
Come una bilancia che riesce però a pesare mentre è in
orbita, a quasi 500 chilometri di distanza.
LEGGI Marche,
scomparso Pilato: il 'lago con gli occhiali'
Lo specchio d'acqua, di gran lunga il più grande del pianeta
con una superficie pari a circa 371.000 chilometri quadrati
(più della Germania), ha sperimentato molte fluttuazioni
nella sua profondità media negli ultimi decenni. La più
importante delle quali, appunto, si è conclusa alla fine
degli anni 70.
Il Caspio è anche uno dei laghi più profondi, l'abisso
arriva a oltre un chilometro nella sua parte meridionale, è
salato e può essere considerato come un piccolo mare. Il
rischio riguarda però soprattutto la parte settentrionale,
quella meno profonda: "L'evaporazione - scrivono gli
scienziati - avrà l'impatto più grande nella porzione nord
del Mar Caspio, perché molta dell'acqua in quell'area è
inferiore ai cinque metri di profondità". A questo ritmo,
sette centimetri all'anno, tutta quella zona si prosciugherà
in circa 75 anni, come
è già successo con il lago d'Aral,
con un danno economico e ambientale incalcolabile.
Incendi, anche la Groenlandia brucia. Greenpeace : "Fiamme a
150 km dal Circolo polare artico"
ANCHE LA GROENLANDIA brucia. Da giorni ormai nella parte
occidentale, ci sono fiamme tra i ghiacci, nella zona in cui
prima c'era il permafrost. "Per la prima volta in assoluto,
incendi a 150 km dal circolo polare artico", ha twittato
Giuseppe Onufrio, direttore delle campagne di Greenpeace
Italia, dal suo profilo social @gonufrio. Altri incendi si
sono verificati nella zona, ma questo è l'incidente più
grande mai visto dal satellite.
"L'ondata di calore di quest'ennesima, anomala, estate sta
distruggendo il patrimonio ambientale italiano a ritmi
preoccupanti - si legge sul sito di Greenpeace Italia -
secondo dati raccolti da Legambiente a fine luglio erano già
andati in fumo quasi 75.000 ettari del nostro paese. Più di
quanto bruciato l'anno scorso. Le cause sono note e la
'sorpresa' di troppi pare fuori luogo: azioni criminali
(della criminalità organizzata o di singoli, per gesti di
pura follia o di meditato calcolo) e dissesto del territorio
con una manutenzione dei suoli, delle foreste e del
patrimonio naturale in genere che non è all'altezza di un
paese del g7. Stupisce che in questo contesto non si discuta
in modo approfondito degli effetti (ci sono? non ci sono?)
dell'eliminazione del corpo forestale dello stato (adesso
carabinieri forestali, senza più compiti specifici di lotta
agli incendi) che sembrerebbe aver creato vari intoppi al
contrasto ai roghi"."C'è tuttavia un terzo
elemento, Altrettanto prevedibile e previsto - si legge -
che doveva essere considerato e non lo è stato: il clima è
cambiato. L'estate torrida del 2003 ha lasciato in europa
una lunga e tragica scia di morti 'in eccesso'
(prevalentemente anziani e soggetti debilitati): almeno
80.000 Persone in dodici paesi. Che qualcosa del genere
dovesse ricapitare, prima o poi, lo si sapeva. E che
quest'anno, dopo un inverno anomalo, ampie fette del paese
fossero in 'crisi idrica' era palese, almeno dal mese di
aprile. Un chiaro campanello d'allarme per tutti. In
particolare per chi ci governa e può e deve intervenire con
urgenza per mettere in pratica quanto deciso con l'accordo
di parigi sul clima: a cominciare dall'eliminazione dell'uso
di combustibili fossili.
Che gli incendi siano associati all'aumento delle
temperature è ovvio. È notizia di questi giorni che in
Siberia la superficie percorsa da incendi quest'anno ha già
superato 1 milione di ettari con la spiacevole conseguenza
che la fuliggine degli incendi, depositata sul ghiaccio ne
aumenta il surriscaldamento e quindi la velocità di fusione.
La stima è che ogni anno, in tutta la russia, si perdano 2,5
milioni di ettari di foreste. "E quest'anno- si legge in
conclusione- per la prima volta in assoluto, sono segnalati
incendi perfino in Groenlandia (forse, causati da incauti
turisti) dove sono andati in fumo 1.250 Ettari a soli 50 km
dal fronte di un ghiacciaio. A 150 km dal circolo polare
artico. In un pianeta che non è più lo stesso".
Se il mondo continuerà a bruciare combustibili fossili e a
usare il carbone a tempo indeterminato, il cambiamento
climatico potrebbe arrivare a sciogliere
tutto il ghiaccio dei poli e quello sulle montagne,
secondo il National
Geographic.
Ci sono oltre 21 milioni di km cubi di ghiaccio sulla
Terra. Secondo molti scienziati ci vorrebbero più di 5.000
anni per scioglierlo tutto. Ma nell’arco di vita della
prossima generazione, alcune città potrebbero già cessare
di esistere se il mondo non ridurrà drasticamente le
emissioni di carbonio.
Questo farebbe salire il livello del mare di
approssimativamente 66
metri, sommergendo
città che si affacciano sul mare come Venezia, Buenos
Aires e Il Cairo.
Hawking: "Terra
invivibile
tra 100 anni su un altro pianeta".
Anno 2106, fuga dalla Terra. Non è il titolo di un film di
fantascienza, bensì la profezia di Stephen Hawking, il
grande astrofisico, autore del best-seller "Dal big bang ai
buchi neri" e di innumerevoli studi sull'universo.
Interpellato in una conferenza stampa sulla data in cui gli
esseri umani potrebbero risiedere su un altro pianeta, lo
scienziato britannico ha risposto che "tra vent'anni
potremmo avere una base permanente sulla Luna e tra quaranta
su Marte".
Ma poi ha osservato che, per svariate ragioni, la Luna e
Marte non sono adatti a ospitare qualcosa di più di
minuscoli avamposti di umani: "Non troveremo niente di bello
come la Terra, a meno che non andiamo a cercare in un altro
sistema solare. Del resto, se vogliamo garantire la
sopravvivenza della nostra specie, dovremo allargare la
conquista dello spazio. La vita sul nostro pianeta è sempre
più a rischio di estinguersi a causa di disastri naturali,
surriscaldamento globale, guerre nucleari, virus
geneticamente modificati o altri pericoli".
Ce la faremmo a traslocare, in caso di bisogno, su un altro
pianeta? Secondo Hawking sì, a una condizione: "Se riusciamo
a evitare di sterminarci gli uni con gli altri nei prossimi
cent'anni".
In altre parole: nel giro di un secolo, avremo i primi
avamposti (Luna e Marte) e probabilmente anche la tecnologia
necessaria per erigere colonie spaziali su larga scala. Per
cui, se intorno al 2106 un disastro minacciasse la
sopravvivenza sulla terra, i terrestri potrebbero fuggire
altrove.
Già, ma dove esattamente? Il Guardian ha
stilato una lista, chiedendo ai suoi esperti di valutare i
pro e contro. La Luna, per esempio, ha il vantaggio di
essere a soli tre giorni di distanza dalla Terra e di
offrire una vista favolosa del nostro pianeta: ma ha un
panorama piuttosto deprimente, nel lungo termine la mancanza
di gravità distruggerebbe muscoli e ossa dei "coloni"
terrestri e comunque non è abbastanza grande da ospitarli
tutti. Marte è un po' meglio, ha il 40 per cento di gravità
della Terra, un qualche tipo di atmosfera, acqua ghiacciata
ai poli e probabilmente sotto terra: ma non è facile
atterrarvi e occorrono sei mesi per raggiungerlo. Su Venere,
per dirne una, fa troppo caldo: a 450 gradi centigradi di
temperatura si scioglierebbe anche l'acciaio. Mercurio è
troppo freddo ai poli e troppo caldo sul lato che guarda il
Sole. E così via.
L'unica soluzione, come dice Hawking, sarebbe trovare una
replica della Terra in un altro sistema solare: un pianeta
grande circa come il nostro, quindi con una simile forza di
gravità e alla distanza giusta dalla stella che lo riscalda.
Un pianeta del genere potrebbe certamente esistere, ma sulla
Terra non abbiamo ancora telescopi abbastanza potenti per
localizzarlo. E, se esiste, sorge un problema etico: se ha
gravità, ossigeno e la temperatura giusta, su quel pianeta
si è sicuramente sviluppata la vita. Potrebbe, insomma,
essere già abitato. Significa che, per salvarci, dovremmo
appropriarci del pianeta di un'altra specie o chiedere
ospitalità. In entrambi i casi, non sarebbe semplice.
Antartide, l’iceberg da record si stacca. Le immagini dal
satellite: “Grande due volte il Lussemburgo”
Un colosso di circa 5800 km2, dal peso di mille
miliardi di tonnellate. La Natura continua, quindi, a
mandarci segnali, in contrasto con alcune analisi
scettiche e giravolte politiche sul surriscaldamento
del Pianeta, come il recente dietrofront degli Usa di
Donald Trump sull’accordo di Parigi
Pochi mesi fa era ancora una ferita tra i ghiacci
dell’Antartide settentrionale,
nella piattaforma denominata Larsen
C.
Profonda 500 metri e lunga centinaia di chilometri, quella
ferita nel corso degli ultimi mesi ha continuato a
sanguinare e ad estendersi, a una velocità di alcune
centinaia di metri al giorno. A maggio, ad esempio, in
appena una settimana è cresciuta di 17 chilometri. Una progressione
inesorabile,
che ha portato nelle ultime settimane a colmare le poche
decine di chilometri che la separavano dal mare. “Non mi
sorprenderebbe se la regione collassasse prima dell’arrivo
dell’inverno in Antartide,
nel giro di alcuni mesi, portando al distacco di un iceberg
di più di 5000 km2”, aveva
spiegato lo scorso febbraio a ilfattoquotidiano.it Carlo
Barbante,
direttore dell’Istituto per la dinamica dei processi
ambientali del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr).
Quella previsione si è adesso avverata, portando, nella
prima metà di luglio del 2017, alla formazione
di uno dei dieci iceberg più grandi mai generati negli
ultimi 30 anni,
da quando, cioè, si studia l’Antartide approfonditamente. Un
colosso di circa 5800 km2, dal peso di mille miliardi di
tonnellate, grande due volte il Lussemburgo. La Natura
continua, quindi, a mandarci segnali, in contrasto con
alcune analisi scettiche e giravolte politiche sul
surriscaldamento del Pianeta, come
il recente dietrofront degli Usa di Donald Trump
sull’accordo di Parigi.
La progressione della spaccatura tra i ghiacci
dell’Antartide è stata monitorata in questi mesi anche dallo
spazio, grazie ai satelliti radar Sentinel-1 della
costellazione Copernicus dell’Agenzia spaziale europea
(Esa), e ai satelliti della costellazione Cosmo-SkyMe
nell’ambito di un’iniziativa avviata dall’Agenzia
spaziale italiana (Asi)
nel 2015 per consentire alla comunità scientifica nazionale
e internazionale di accedere gratuitamente ai dati del
sistema satellitare. Solo pochi chilometri di ghiaccio
tenevano il blocco collegato alla calotta principale del
continente bianco. “Il
ghiaccio di questo gigantesco iceberg potrebbe riempire 460
milioni di piscine olimpiche”, spiegano gli esperti
della Swansea University, l’ateneo britannico che ha dato
per primo la notizia del distacco, e che tiene sotto
osservazione da più di 10 anni la piattaforma Larsen C, sin
dalla formazione delle prime, piccole, crepe. “Il
colossale iceberg non farà aumentare i livelli del mare,
ma potrebbe rendere la calotta di ghiaccio meno stabile –
sottolinea Anna Hogg, esperta di osservazioni satellitari
dei ghiacciai presso l’University of Leeds, intervista da
The Guardian -. È come avere un cubetto di ghiaccio in un
gin tonic: non è detto che il suo scioglimento ne aumenti il
volume nel bicchiere in modo considerevole”. “Per il momento
– aggiunge a The Guardian Adrian Luckman, che insegna
glaciologia alla Swansea University -, osserviamo un unico
grande blocco. Ma è probabile che nel tempo si frammenterà”.
Le conseguenze sul paesaggio antartico, secondo gli esperti,
sono ancora tutte da valutare. Ci
vorranno, ad esempio, anni per capire se comprometterà la
stabilità e l’integrità della banchina rimasta scoperta.
Credit Copernicus Sentinel data (2017), processed by ESA, CC
BY-SA 3.0 IGO
La Pianura Padana soffoca e muore

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Segni di risveglio ai Campi Flegrei. Il vulcano più grande
d'Europa preoccupa i ricercatori
"Dobbiamo monitorarlo meglio" esortano i ricercatori dell'Ingv,
dopo uno studio scientifico che rivela segni di
irrequietezza nella caldera abitata da 500mila persone. Il
suolo si sta sollevando, le emissioni di gas aumentano,
così come le temperature del sottosuolo. E il magma ha
raggiunto la profondità di 3-4 chilometri
I Campi Flegrei potrebbero raggiungere un punto critico.
Il suolo si sta rigonfiando, il magma sta risalendo e le
temperature interne aumentano. Si tratta ancora di valori
minimi: nulla a che vedere con un’eruzione imminente. “Ma
bisogna intensificare l’attività di sorveglianza” esorta
l’Ingv (Istituto
nazionale di Geofisica e vulcanologia) dopo la
pubblicazione di un suo studio su
Nature Communications.
La ricerca, coordinata da Giovanni Chiodini e condotta
insieme alle università di Palermo, Roma Tre e Savoia in
Francia, ha cercato di fissare il possibile “punto
critico” oltre il quale la risalita del magma e dei suoi
gas renderebbe instabile tutto il sistema. “Raggiunte le
condizioni critiche – spiega Chiodini – il magma rilascia
grandi quantità di vapore”. Risalendo verso la superficie,
questo vapore bollente indebolisce le rocce, aprendo due
possibili scenari. Il primo è l’eruzione, il secondo
(quello opposto) è un aumento della viscosità del magma, e
quindi la fine della sua risalita.
Resta dunque incerto cosa accadrà in uno dei supervulcani
più pericolosi del mondo, che 39mila anni fa provocò
l’eruzione più potente del pianeta negli ultimi 200mila
anni, ricoprì delle sue ceneri l’Europa fino a Mosca,
bloccò i raggi del Sole provocando un “inverno vulcanico”
di due anni e secondo alcuni contribuì
addirittura all’estinzione dei Neanderthal. Ma per le
500mila persone che vivono nel bel mezzo della caldera, i
segni di irrequietezza non sono da prendere sotto gamba.
Tanto che nel 2012 l’allerta è stata innalzata da verde a
gialla (livello di attenzione).
Il magma oggi è risalito a 3-4 chilometri dalla superficie
(stessa profondità dell’ultima eruzione, detta del Monte
Nuovo, nel 1538). Le analisi dei gas della solfatara di
Pozzuoli dimostrano che le rocce intorno al serbatoio di
magma si stanno scaldando e rilasciano sempre più vapore
acqueo. “Il possibile avvicinarsi del magma alle
condizioni di pressione critica – spiega ancora Chiodini –
può spiegare l’attuale accelerazione delle deformazioni
del suolo, il recente incremento delle scosse di terremoto
e l’aumento dei gas più sensibili agli incrementi di
temperatura”.
Più che dal simbolico Vesuvio, è dunque dai Campi Flegrei
che gli abitanti di Napoli e dintorni dovrebbero
guardarsi. La forma di caldera anziché di montagna fa
sembrare innocuo questo vulcano con un diametro di 12
chilometri, metà a terra e metà nel golfo di Pozzuoli,
costellato da bocche eruttive, coni e fumarole. Ma se
greci e romani collocavano qui (nell’Averno) la porta
dell’inferno, una ragione probabilmente c’è.
Nella storia, la caldera si è sempre alzata e abbassata,
quasi avesse un respiro. Nel mercato romano di Pozzuoli
alcune colonne sono incrostate da conchiglie, a
dimostrazione che un tempo si trovavano sotto l’acqua.
Dopo l’eruzione del Monte Nuovo, la caldera si è assestata
sprofondando leggermente. E’ tornata ad alzarsi a partire
dal 1950, fino all’eclatante bradisismo degli anni ’80.
Tra il 1982 e il 1985 il suolo si sollevò di quasi due
metri e uno sciame sismico provocò l’evacuazione degli
abitanti di Pozzuoli. Dal 2005 il suolo si è rialzato di
altri 40 centimetri, seguito millimetro per millimetro dai
satelliti CosmoSkyMed, dall'Istituto Irea
del Cnr che
ne analizza i dati e dalle stazioni di monitoraggio dell'Ingv.
Una sequenza di piccoli terremoti conferma che il gigante
potrebbe aver voglia di risvegliarsi. Sarebbe come –
dichiarò alla Reuters qualche anno fa Giuseppe De Natale,
il direttore dell’Osservatorio
Vesuviano dell’Ingv
(il più antico centro di ricerche sui vulcani del mondo )
– come l’arrivo di un grande meteorite. Un’eventualità
tanto rara quanto catastrofica”. |
La corrente oceanica anomala è tornata dopo 5 anni di pausa. Ci
saranno effetti su scala globale: piogge violente e alluvioni
in Cile, Perù, Bolivia; lunghe siccità in Australia e in
Indonesia

LA STORIA , SCIENZA,sviluppo
Urbano e Tecnologico
DA STAR WARS a Superman, da Ritorno al Futuro a Star Trek, il
cinema di fantascienza ci ha fatto conoscere molto bene gli
ologrammi. Siamo infatti abituati a vedere ologrammi di
personaggi, astronavi, e ovviamente alieni di ogni specie. Ma
quel che forse non immaginiamo è che l'intero Universo potrebbe
essere un gigantesco e sofisticato ologramma. E' questa la
conclusione di una nuova ricerca internazionale, che combina
aspetti teorici della fisica dell'universo primordiale a studi
legati alla struttura fondamentale della materia. Una complessa
analisi, a cui hanno partecipato in Italia ricercatori della
Sezione di Lecce dell'Infn e dell'Università del Salento. Lo
studio, pubblicato su Physical
Review Letters,
potrebbe aprire la strada per una migliore comprensione del
cosmo, spiegando come sia nato e come si siano prodotti lo
spazio e il tempo in cui viviamo.
Un modello per l'Universo. Secondo
il modello attuale, il nostro Universo è nato dal Big Bang, una
colossale "esplosione iniziale" avvenuta quasi 14 miliardi di
anni fa. Dopo il Big Bang l'Universo ha iniziato a espandersi in
modo continuo fino a raggiungere l'aspetto attuale. Resta da
capire come mai questa espansione stia procedendo in
modo accelerato, ovvero perché l'Universo si "gonfi" sempre più
velocemente. Il modello attuale, supportato dai dati
sperimentali, si basa su una combinazione fra materia visibile e
materia oscura e sull'azione della misteriosa Energia Oscura,
che sarebbe la principale responsabile dell'espansione
accelerata. Ma secondo la nuova ricerca, le osservazioni
sarebbero in accordo anche con un modello alternativo, basato su
un Universo olografico. "L'ipotesi che il nostro universo
funzioni come un enorme e complesso ologramma è stata formulata
negli anni '90 del secolo scorso da diversi scienziati,
raccogliendo evidenze teoriche in vari settori della fisica
delle interazioni fondamentali", ha spiegato Claudio Corianò,
ricercatore dell'INFN e professore di fisica teorica
dell'Università del Salento, fra gli autori dello studio.
Visioni in 3D. Ma,
fantascienza a parte, che cosa vuol dire Universo olografico?
L'idea da cui si parte è quella di un ologramma ordinario, in
cui un'immagine tridimensionale è codificata su una superficie
bidimensionale. Per costruire la percezione della terza
dimensione, si parte dall'informazione sulle due dimensioni
iniziali. "Per creare un ologramma", spiega Corianò, "si prende
un fascio laser luminoso e lo si separa all'origine in due
fasci: uno è inviato su un oggetto distante e quindi viene
riflesso, mentre l'altro è inviato per essere registrato.
Servono due coordinate per indirizzare il fascio incidente
sull'oggetto, in modo da esplorarlo completamente, mentre è
proprio l'interferenza tra il fascio originario e quello
riflesso che permette di ricostruire l'immagine e dare il senso
della profondità". Un altro esempio di ologramma che molti hanno
in tasca (senza saperlo) sono gli ologrammi di sicurezza, quelle
figurine tridimensionali stampate sulle carte di credito.
Universi olografici. A
partire dal concetto di ologramma ordinario, i fisici teorici
hanno costruito un modello in cui è l'intero Universo ad essere
un ologramma. Possiamo infatti descrivere un punto dell'Universo
utilizzando quattro dimensioni, tre per lo spazio più una
dimensione "extra" per il tempo. Esattamente come un
ologramma ordinario, in cui rappresentiamo un oggetto
tridimensionale a partire da due dimensioni, in questo modello
i punti dell'Universo a quattro dimensioni si costruiscono
usando solo tre dimensioni. A partire da questa "struttura base"
a tre dimensioni, possiamo così "proiettare" l'intero Universo
nelle tre dimensioni dello spazio e nel tempo.
Dalla teoria alle osservazioni. Tra
ologrammi, Universo e dimensioni varie è facile perdersi fra
equazioni e concetti molto complessi. Eppure la conclusione di
Corianò e colleghi è che i dati osservativi sono compatibili con
questo modello di Universo. I ricercatori hanno infatti
analizzato le osservazioni condotte dal satellite europeo Planck, progettato
per studiare la radiazione cosmica di fondo. Analizzando la
struttura di questa radiazione di fondo, che possiamo
considerare l'"eco" del Big Bang, è infatti possibile riuscire a
scovare gli indizi della natura olografica dell'Universo. Nel
loro lavoro, gli autori confermano che il modello attuale
rappresenta meglio i dati, sottolineando però che in alcune
condizioni il modello olografico potrebbe essere più
adeguato. Oltre a farci riflettere su concetti così complessi,
gli autori sperano che questo risultato possa aprire la strada a
una comprensione più profonda dell'Universo in cui viviamo,
magari adottando un punto di vista meno convenzionale ma
sicuramente molto affascinante.
.
Come raggiungere Proxima b (e frenare): "Ci vorranno 140
anni ma potremo fermarci"

Uno studio pubblicato sull'Astrophysical journal letters
ipotizza di usare il vento solare e vele grandi quanto
dieci campi da calcio per accelerare e decelerare
piccolissime sonde una volta arrivate a destinazione. Ci
impiegheranno quasi un secolo e mezzo, un tempo molto più
lento rispetto a quello ipotizzato da Hawking e la
Breakthrough Initiative, ma con la possibilità di entrare
in orbita attorno alla stella più vicina alla Terra e
studiare il pianeta forse simile al nostro
.SPEDIRE
fino a Proxima centauri delle sonde in tempi
"umani", a un quinto della velocità della luce, è
possibile, lo
ha detto Stephen Hawking.
Ma come si fa a frenare? Un nuovo studio spiega
come, anche se servirà un po' più di pazienza. Ci ci
vorrà circa un secolo e mezzo invece che i 20 anni
ipotizzati dal progetto Breakthrough
Starshot del
miliardario russo Milner. Ma invece di schizzar via
con appena il tempo di scattare qualche foto, le
sonde potranno inserirsi nell'orbita della stella
per cercare e studiare con calma Proxima b, il
pianeta scoperto nel 2016 che le ruota attorno nella
fascia di abitabilità. Il tutto grazie a vele solari
ed energia gratis offerta dalle stelle.Due studiosi, René
Heller del
Max Planck Institute for Solar System Research in
Göttingen, in Germania, e Michael
Hippke,
hanno pubblicato i loro calcoli sull'Astrophysical journal
letters.
Secondo lo studio, portare le sonde in orbita
attorno alla stella più vicina alla Terra è
possibile a patto di sacrificare del tempo, dunque
ridurre la velocità.
Invece di accelerare fino a 60.000 chilometri al
secondo, servirà un'andatura di crociera più
modesta. "Appena" 13.000 chilometri al secondo per
raggiungere Alpha Centauri in 95 anni. E poi altri
46 fino a Proxima Centauri, la nana rossa con il
pianeta che si spera sia "gemello della Terra".
Un "vento" diverso.
Il progetto di Milner, sostenuto, oltre che
dall'astrofisico inglese anche da Mark
Zuckerberg,
prevede sparare raggi laser da terra per colpire
delle speciali vele alle quali sono agganciate le
sonde, per accelerarle. Secondo l'ipotesi di Heller
e Hippke il dispendioso raggio super energetico non
servirà più. Basterà sfruttare il flusso di fotoni
proveniente dal Sole. Una spinta debolissima in
grado però, sul lungo periodo, di generare velocità
incredibilmente alte.
Per fare tutto questo occorre però anche pensare a
vele diverse. "Spinnaker" di grafene, sottilissimi e
grandi all'incirca come dieci campi da calcio, in
modo da catturare abbastanza fotoni per accelerare
apparecchi che dovranno pesare pochissimo, circa
dieci grammi. Una volta arrivate nei pressi di Alpha
Centauri, lo stesso sistema utilizzato per
accelerare servirà anche per frenare, usando, in
maniera inversa, il "vento" di fotoni proveniente
dalla stella.
L'ultimo passaggio. Da
qui in poi sarà tutto affidato a quello che gli
autori della ricerca chiamano "assist
fotogravitazionali". Di nuovo, l'accelerazione
prodotta dai fotoni questa volta combinata con
l'"effetto fionda" generato dalla gravità della
stella. Quest'ultima spinta sarà quella definitiva
verso Proxima Centauri, la terza stella del gruppo,
più lontana dalle altre due.
Dopo varie orbite ellittiche, il passo finale sarà
avvicinarsi a Proxima b, quel pianeta roccioso, poco
più grande della Terra, alla distanza giusta per
ipotizzare che sulla sua superficie possa trovarsi
acqua allo stato liquido. Per ora l'unico altro
posto nell'Universo dove possiamo sperare di
osservare così da vicino eventuali tracce di vita
fuori dal Sistema solare.
I freddi calcoli di Heller e Hippke dipingono,
purtroppo, una realtà molto meno ottimistica degli
annunci precedenti. Ad attendere quei dati (ai 140
anni di viaggio dobbiamo aggiungere i 4,3 anni che
ci impiegherebbe il segnale inviato dalle sonde per
arrivare fino alla Terra) ci saranno i nostri
pronipoti. Ma si tratterebbe comunque di un grande
salto in avanti. Se dovessimo imbarcarci ora alla
massima velocità possibile con motori a propulsione
ci impiegheremmo circa 100.000 anni. |
|
'Quel tunnel porta agli inferi''. La scoperta nell'antica
Piramide della Luna
Il
sito archeologico di Teotihuacan, in Messico (ansa)
In Messico gli archeologi hanno individuato un passaggio
sotterraneo a 10 metri di profondità. Potrebbe dirci che fine
"fece il popolo di Teotihuacan"
NASCOSTA là sotto c'è la porta per il mondo degli inferi. In
Messico gli specialisti dell'Istituto Nazionale di
Antropologia e Storia (Inah) hanno fatto una straordinaria
scoperta: a 10 metri di profondità sotto la famosa Piramide
della Luna, nel sito di Teotihuacan a 40 chilometri della
capitale, c'è un tunnel segreto. Collega la piramide alla
piazza centrale e secondo gli esperti potrebbe rappresentare
la "riproduzione di un mondo sotterraneo", un'ulteriore prova
che l'antica civiltà misteriosamente scomparsa con l'avvento
degli Aztechi credesse nella distinzione fra mondo dei viventi
e quello degli inferi.
La scoperta è avvenuta grazie a un sistema di tomografia
computerizzata che sfrutta la resistenza della corrente
elettrica e rivela possibili passaggi segreti: del resto,
nella vicina Piramide del Sole e nel Tempio del Serpente
piumato erano già state ritrovate cavità sotterranee, motivo
per cui i ricercatori hanno insistito con la Piramide della
Luna.
Per ora il tunnel è solo stato individuato e gli archeologi
messicani dovranno decidere se scavare o meno alla ricerca di
nuovi reperti in grado di raccontarci cosa accadde al popolo
teotihuacano che esisteva tra il I e l'VIII secolo d.C e
scomparve bruscamente lasciando poche tracce. La piramide,
alta in totale 43 metri, risale circa al 200 d.C ed è la
seconda più grande struttura di questo tipo dell'antica città
dopo quella del Sole. Per l'archeologa Verónica
Ortega, vice capo dei lavori nel sito archeologico di
Teotihuacan "molto probabilmente il tunnel era utilizzato per
riti sacri e cerimonie".
E' convinta che il contenuto del cunicolo possa rivelare molto
sugli usi e i costumi della civiltà precolombiana: "La
scoperta confermerebbe che gli abitanti di Teotihuacan
seguirono lo stesso schema nei loro templi su larga scala e
che la loro funzione sarebbe quella di emulare il mondo
sotterraneo".
Negli anni Settanta fu scoperto un tunnel sotto la Piramide
del Sole, ma era già stato saccheggiato mentre in quella del
Serpente furono ritrovate strutture per contenere sementi,
ceramiche e ossa animali. Negli anni intorno alla "Luna" sono
state individuate tracce di sepolture ma si cercano ancora
prove definitive del rapporto vivi-inferi di questa comunità
che allora contava 100mila persone. Secondo alcuni studi per i
Teotihuacan il mondo sotterraneo potrebbe essere stato, come
credenze, più importante di quello sovrastante e fondamentale
nella creazione della vita e il tunnel potrebbe anche essere
associato ai flussi sacri dell'acqua.
Finora non sono mai stati trovati resti che potessero
appartenere direttamente ai governanti di Teotihuacan per cui,
spiegano dall'Inah, una tale scoperta potrebbe aiutare a
"svelare un mistero che inseguiamo da anni". Sempre se
decideranno di scavare verso la porta degli inferi.
Scoperto un cimitero di navi nel Mar Nero. "Hanno 2500 anni e
sono perfettamente intatte"
Credits:
Black Sea Project MAP
Ritrovamento "ineguagliabile" in Bulgaria. Gli archeologi del
Black Sea Project: "Senza ossigeno reperti ben conservati"
CERCAVANO risposte al cambiamento climatico e hanno trovato un
tesoro: un cimitero di navi dall'"ineguagliabile valore". Sul
fondo del Mar Nero che si affaccia sulla Bulgaria un team di
ricercatori e archeologi, in tre anni di lavoro, ha individuato
60 imbarcazioni romane, bizantine, ottomane che hanno
attraversato 2.500 anni di storia. Fra queste, tra le ultime
scoperte, c'è una nave romana che ha duemila anni ed è
"perfettamente conservata" spiegano entusiasti i membri del MAP,
il Black
Sea Project guidato
dal centro di Archeologia Marittima dell'Università di
Southampton e finanziato dall'EEF (Expedition and Education
Foundation).
Come ha spiegato il professor John
Adams,
alla guida del progetto, lo scopo iniziale della spedizione era
fare indagini geofisiche e studi sull'impatto del riscaldamento
globale quando, a forza di immergersi in profondità con
tecnologie di diverso tipo (anche 3D), sono finiti per
imbattersi in qualcosa di unico. Una dopo l'altra, sul fondo di
un mare che in profondità è anossico, ovvero con acque prive di
ossigeno, c'erano relitti di navi con alberi maestri
"ottimamente conservati", stive cariche "di anfore, ceramiche e
altri oggetti" e soprattutto tipi di imbarcazioni "mai viste
prima. Li potevamo osservare su mosaici, ma non dal vivo.
Sembrava un film" racconta Ed
Parker,
ceo del progetto.Timoni, alberi, corde e altri reperti saranno
ora analizzati in un lavoro che richiederà "mesi, forse anni. Si
tratta di uno dei più grandi progetti di archeologia marina mai
messi in atto prima d'ora" e che riguarda "relitti dei più
grandi imperi". Alcune delle navi più antiche risalirebbero al
V A.c, altre sono del XIX secolo e i ricercatori, per proteggere
le loro scoperte, hanno deciso di mantenere segrete parte delle
aree dove sono state individuati i relitti.Grazie alla poca luce
e l'assenza di ossigeno "legni, metalli e altri materiali non
sono danneggiati e le condizioni di alcuni relitti sono
sconcertanti per quanto siano intatti". Per analizzarli sono
stati utilizzati robot subacquei per arrivare fino a oltre 2000
metri di profondità, veicoli a distanza (ROV), scanner, laser e
attrezzature geofisiche. "Siamo convinti ci possano raccontare
molto della storia navale di diversi imperi. E' davvero un
scoperta ineguagliabile" continua Adams spiegando che sono stati
realizzati modelli 3D delle navi.
In attesa di nuove informazioni dagli esami dei primi relitti le
immagini e i lavori della spedizione MAP saranno presto
protagonisti di un documentario girato dalla Bbc.
DAI GALLI INSUBRI AI ROMANI.
DALL'EPOCA REPUBBLICANA A QUELLA IMPERIALE

MEDIOLANUM CAPITALE DELL'IMPERO
ROMANO (285 d.C. - 476 d.C.) DA MASSIMIANO A TEODOSIO IL GRANDE
Ormai la città era diventata
influente ed importante e gli imperatori, al varo della
Tetrarchia voluta da Diocleziano allo scopo di consolidare
strutture e confini di un impero sempre più vasto,decisero di
farne capitale . Il confine nord in quel momento storico era a
400 chilometri e l'esistenza di un centro vasto come Mediolanum
rispondeva perfettamente alle esigenze di difesa contro le
invasioni barbariche sempre più frequenti.
IL PODEROSO SVILUPPO URBANISTICO
TARDO-IMPERIALE
http://www.skuola.net/storia-arte/medioevo/storia-arte-medievale.html
IL DISASTRO DELLE
INVASIONI BARBARICHE E LA CADUTA DELL'IMPERO
Scoperte nuove lettere vicino al Vallo di Adriano. I messaggi
dei soldati in Britannia: "Portate più birra"
Le
tavolette di Vindolanda trovate in Gran Bretagna (Credits:
Chesterholm Museum)
Ritrovate altre 25 tavolette a Vindolanda in Gran Bretagna. Gli
esperti: "Testi straordinari, ci racconteranno i romani"
"I miei soldati non hanno più birra, si prega di inviarne
ancora". Firmato Masclus, soldato di migliaia di anni fa.
Questo è uno dei tanti messaggi, in grado di raccontarci la
vita degli antichi romani, contenuto in una nuova
straordinaria scoperta fatta nel forte romano di
Northumberland, la zona chiamata Vindolanda, in Inghilterra,
al confine con la Scozia, nell'area del Vallo di Adriano.
Quando nel 1992 Robin
Birley, archeologo direttore dei lavori, scoprì a
Vindolanda numerosi e importanti lettere dell'epoca romana
(oggi custodite al British Museum insieme a quelle ritrovate
dal 1973 ad ora) suo figlio Andrew aveva 17 anni e sognava di
diventare come il padre. "Ho sempre sperato che lì sotto ci
fosse ancora qualcosa. E questa è una scoperta
straordinaria".
A fine giugno infatti quel sogno è diventato realtà: dagli
scavi, che ora dirige lui stesso, Birley junior ha recuperato
25 tavolette, lettere scritte su pezzi di quercia o betulla,
conservati in buono stato e ora pronte per essere decifrate,
che si crede siano databili intorno al I secolo d.C. Un
ritrovamento "che aspettavo da una vita" dice Birley dopo aver
brindato con i suoi collaboratori.
Sono messaggi dal passato, per lo più legati alla vita
militare del forte, in grado secondo gli studiosi di dirci
"molto su come vivevano e su ciò che è successo".
I pezzi di legno, sottilissimi e su cui erano incisi alcuni
testi con inchiostro, erano disposti in un tratto di quattro
metri e posizionati in profondità, come "se qualcuno li avesse
nascosti lì per noi".
Grazie alle condizioni del terreno e all'umidità di quest'area
della Gran Bretagna le tavolette si sono "conservate in modo
unico". L'esame iniziale, in attesa di quelli a infrarossi e
l'analisi del testo che richiederanno diverso tempo e il
coinvolgimento di più equipe, ha già dimostrato come alcune
delle missive fossero state firmate da un soldato noto come
Masclus che dava indicazioni sul rifornimento del forte del
muro di Adriano e chiedeva aiuto ai suoi superiori. Rispetto
alla classica betulla molti testi si trovano su quercia "e
questo ci permette una migliore lettura e maggiore
conservazione. Altri testi crediamo siano messaggi personali"
continua Birkley.
L'intera famiglia dei Birkley, il figlio Andrew la madre
Patricia e il padre Robin, seguono i lavori di Vindolanda da
decine di anni. Nel 2003 gli esperti del British Museum
definirono le tavole trovate qui (in particolare quelle del
1992) come il tesoro archeologico più importante proveniente
dalla Gran Bretagna. Per certi versi ancor più preziose delle
tavolette di Bloomberg, trovate a Londra, perché quelle di
Vindolanda "raccontano passaggi della vita molto personali.
Non c'è niente di più eccitante di leggere questi messaggi dal
passato lontano".
Secondo gli esperti i nuovi frammenti "ci aiuteranno a capire
la vita dell'Impero e forse emergeranno
nuovi nomi a cui dovremmo dare un posto nella storia della
Gran Bretagna romana. Per tutti noi, dagli studiosi ai
volontari che scavano, il giorno in cui abbiamo alzato "al
cielo" le prime tavolette ritrovate sarà un momento che
ricorderemo per sempre".

Le
mura aureliane, da Porta san Sebastiano a Porta Ardeatina.
http://www.viaappiaantica.com/
Belisario entra a Roma
Il 9 dicembre (o il 10) del
536
Belisario entrò trionfante a Roma, nella antica capitale dell'impero
romano, dove oramai i fausti di un tempo erano solo un
lontano ricordo, Roma aveva solo 50.000 abitanti, Belisario non
trovò resistenza da parte degli ostrogoti, per poter prendersi
la città, ma subito saputa la notizia un esercito ostrogoto che
si trovava nel
nord Italia si mise in marcia per andar a riprendersi la
città. Belisario quindi inviò un suo ufficiale che consegnò le
chiavi di Roma all'Imperatore
Giustiniano I, e che portò prigioniero a
Costantinopoli il generale ostrogoto che aveva consegnato la
città. Belisario si accorse subito che la situazione delle
mura aureliane (le mura di Roma) era pessima, e quindi
provvide subito a farle riparare, visto che era stato informato
che gli ostrogoti si stavano avvicinando.
Nel febbraio del
537,
trentamila ostrogoti si trovavano alle porte di Roma, pronti ad
assediare la città, per fermare l'avanzata dei Bizantini
capitanati dal generale Belisario, e prendere il possesso
dell'ex capitale dell'impero.
Belisario si trovava svantaggiato, aveva solo
cinquemila uomini, non sufficienti per la difesa della città, e
le mura aureliane erano facilmente espugnabili dato il loro
cattivo stato. Gli ostrogoti si posizionarono attorno alla
città, costruendo sette accampamenti onde bloccare l'arrivo di
rifornimenti e iniziarono i preparativi. Inoltre tagliarono i
quattordici
acquedotti della città per lasciare la popolazione
senz'acqua.
Belisario, per fronteggiare la situazione,
prese i seguenti provvedimenti:[1]
- per impedire ai Goti di penetrare nella
città attraverso gli acquedotti (come aveva fatto Belisario
stesso, tra l'altro, per
espugnare Napoli pochi mesi prima), li fece ostruire con
un solido muro.
- pose a custodia delle porte uomini fidati.
In particolare Belisario decise di sorvegliare egli stesso la
Salaria e la Pinciana, mentre affido a Costanziano la custodia
della Flaminia. Una porta venne serrata con un cumulo di
pietre per impedire a chicchessia di aprirla.
- infine decise, per provvedere ai bisogni
della popolazione, di costruire dei rudimentali ma ingegnosi
mulini ad acqua sfruttando le acque del
Tevere. I Goti, avutene notizia da disertori, tentarono di
sabotare l'invenzione gettando nelle acque del Tevere alberi e
cadaveri. Belisario però riuscì a contrastare i loro tentativi
di non far funzionare i mulini ad acqua con delle funi di
ferro che andavano da una riva all'altra del Tevere e che
impedivano agli oggetti gettati dai Goti nel fiume di
proseguire oltre. In questo modo impediva inoltre ai Goti di
entrare in città tramite il fiume Tevere.
All'alba del diciottesimo giorno d'assedio
gli ostrogoti attaccarono, ma la loro disorganizzazione e
l'inesperienza nell'uso delle macchine d'assedio permise ai
bizantini di ottenere una facile vittoria, mietendo un gran
numero di vittime tra le file nemiche.[4]
L'assalto iniziò con i Goti che facevano avanzare le torri
d'assedio verso le mura. Belisario ordinò allora agli arcieri di
mirare di proposito ai buoi che trainavano le torri in modo da
ucciderli e da impedire alle torri di essere trasportate fino
alle mura; la strategia funzionò e i Goti si trovarono con
un'arma inutilizzabile.[4]
Vitige decide quindi di cambiare strategia: ad
una parte del suo esercito ordinò di tenere occupato Belisario
nella difesa della
Porta Salaria tramite il lancio di strali sopra i merli,
mentre lui e un'altra parte dell'esercito avrebbero tentato
l'attacco alla
Porta Prenestina, più facile da espugnare per il debole
stato delle mura.[4]
Bessa e Peranio, i generali a difesa della porta e delle mura
circostanti, chiesero allora aiuto a Belisario, il quale,
affidata a un suo amico la difesa della Porta Salaria, andò
subito a soccorrere la porta Prenestina.[5]
Belisario, vedendo le mura in cattivo stato, ordinò ai suoi
uomini di non respingere il nemico: lasciò pochi uomini a difesa
dei merli mentre il fior dell'esercito venne collocato vicino
alla Porta. I Goti, entrati da un foro nelle mura, vennero qui
sconfitti e costretti alla fuga. Le loro macchine d'assedio
vennero date alle fiamme.
Un'altra parte dell'esercito goto assalì nel
frattempo la
Porta Aurelia, difesa da Costantino. Quest'ultimo aveva con
sé pochissimi uomini in quanto il Tevere, che scorreva vicino
alla porta e al muro, sembrava proteggerlo abbastanza da un
assalto goto e si preferì lasciare ben difesi parti di mura più
importanti.[4]
I Goti, valicato il Tevere, assaltarono la Porta e il Muro con
ogni macchina d'assedio di sorta (soprattutto scale) e tirando
frecce contro gli Imperiali. Gli Imperiali sembravano disperare:
le baliste erano inutilizzabili in quanto erano a lunga gittata
e quindi erano inservibili per colpire nemici molto vicini alle
mura; i Goti erano in superiorità numerica; e stavano
appoggiando le scale per valicare le mura.[4]
I Bizantini però non si persero d'animo e, facendo a pezzi molte
delle più grandi statue, le gettarono dalle mura contro i
nemici.[4]
La tattica ebbe successo e i nemici iniziarono a indietreggiare;
allora gli Imperiali, rinvigoriti, attaccarono con maggior foga
attaccando i Goti con frecce e pietre. I Goti, respinti, non
attaccarono più, almeno per quel giorno, la porta Aurelia.[4]
I Goti provarono allora ad attaccare la Porta
Trasteverina ma il generale bizantino Paolo riuscì a respingerli
senza problemi.[5]
Rinunciato all'attacco della
Porta Flaminia, protetta da un suolo dirupato e dal generale
bizantino Ursicino, i Goti attaccarono allora la Porta Salaria
subendo gravi perdite.[5]
Giunse infine la notte e la battaglia si concluse con la
vittoria bizantina sui Goti. Curiosamente i Goti non attaccarono
una parte delle mura non riparata da Belisario per la
superstizione dei suoi uomini (essi dicevano che per via di una
leggenda sarebbe stato San Pietro in persona a proteggerle dai
Goti)[5]:
se avessero deciso di attaccarle, forse la battaglia sarebbe
finita in modo diverso per loro.
Ma la vittoria non servì a rompere l'assedio,
e Belisario sapeva che il suo esercito era comunque di gran
lunga inferiore a quello degli Ostrogoti, così decise di inviare
un messaggero all'imperatore
Giustiniano I per chiedere rinforzi:[6]
« Secondo i vostri
ordini, sono entrato nei domini dei Goti, e ho ridotto alla
vostra obbedienza l’Italia, la Campania, e la città di Roma.
[…] Fin qui abbiamo combattuto contro sciami di barbari, ma
la loro moltitudine può alla fine prevalere. […]
Permettetemi di parlarvi con libertà: se volete, che
viviamo, mandateci viveri, se desiderate, che facciamo
conquiste, mandateci armi, cavalli e uomini. […] Quanto a me
la mia vita è consacrata al vostro servizio: a voi tocca a
riflettere, se […] la mia morte contribuirà alla gloria e
alla prosperità del vostro regno. » |
Il giorno dopo la battaglia si vide costretto
ad effettuare delle scelte drastiche per migliorare la difesa
dell'Urbe come far uscire dalla città tutti coloro che non erano
in grado di brandire un'arma (tra questi vi erano le donne e i
bambini), che vennero trasferiti temporaneamente a Napoli.[7]
La decisione di far uscire dalla città le persone non in grado
di combattere era dovuta alla volontà di far durare il maggior
tempo possibile le scorte di cibo utilizzandole solo per sfamare
le persone in grado di combattere, mentre gli altri,
trasferendosi a
Napoli, venivano comunque sfamati.[7]
Le persone trasferite a Napoli vi giunsero o per via mare o
seguendo la
Via Appia, senza venire attaccata dai Goti in quanto,
essendo Roma una città di vastissima estensione, i Goti non
erano riusciti a circondarla tutta quanta, quindi bastò uscire
da una via distante dagli accampamenti goti.[7]
Proprio per questi motivi fu possibile
introdurre a Roma scorte di cibo per parecchi giorni senza
essere notati dai Goti. E, durante la notte, capitava di sovente
che i Mauri, soldati foederati dell'Impero,
facessero delle sortite contro gli accampamenti goti,
uccidendone alcuni durante il sonno e spogliandoli.[7]
Belisario nel frattempo notò la sproporzione tra l'estensione
delle mura e il numero dei soldati che le dovevano sorvegliare e
decise di risolvere il problema obbligando gli abitanti rimasti
a diventare soldati e far ronda sulle
mura aureliane.[7]
Prese delle severe precauzioni per assicurarsi della fedeltà dei
suoi uomini: cambiava due volte al mese gli ufficiali posti a
custodia delle porte della città,[7]
ed essi venivano sorvegliati da cani e altre guardie per
prevenire un eventuale tradimento.
In quei giorni i Bizantini deposero Papa
Silverio, accusato di parteggiare con i Goti, e lo spedirono in
esilio in Grecia. Venne eletto al suo posto Virgilio, gradito
dall'Imperatrice Teodora. Vennero espulsi, per lo stesso motivo,
alcuni senatori.[7]
La conquista di Porto e i problemi arrecati ai Romani
Nel frattempo Vitige decise per rappresaglia
di uccidere i senatori romani rifugiatisi a Ravenna all'inizio
della guerra.[8]
Inoltre, per tagliare i contatti degli assediati con l'esterno,
impedendo così loro di ricevere scorte di cibo e acqua, decise
di conquistare Porto, lontana circa 20 stadi, la distanza che
separa Roma dal Mediterraneo.[8]
Dunque, trovatala senza presidio, i Goti occuparono Porto,
sterminando la popolazione locale e arrecando grossi problemi
agli assediati in quanto a Porto giungevano principalmente le
scorte di cibo necessarie per resistere all'assedio.[8]
I Romani furono quindi costretti a recarsi ad Ostia per
rifornirsi di cibarie, facendo tra l'altro molta fatica in
quanto abbastanza lontana da Roma a piedi.[8]
Scontri sotto le mura
Venti giorni dopo la conquista ostrogota di
Porto, arrivarono a Roma i primi rinforzi inviati da
Giustiniano: i generali Valentiniano e
Martino alla testa di mille e cinquecento cavalieri, per lo
più Unni, ma comprendenti anche Sclaveni ed Anti, popolazioni
alleate dell'Impero residenti oltre Danubio.[9]
Belisario, confortato dall'arrivo di rinforzi, decise di
adoperare una tattica di guerriglia, approfittando della
superiorità degli arcieri bizantini per logorare le forze
nemiche: ordinò ad una sua lancia, Traiano, di attaccare, alla
testa di duecento pavesai, i Goti, impedendo ai suoi di
combatterli da vicino con la spada o con l'asta, e permettendo
loro di adoperare solo l'arco; quando le frecce sarebbero finite
i soldati bizantini sarebbero riparati alle mura.[9]
Traiano, ricevuto l'ordine, prese i 200 pavesai e uscì con essi
dalla Porta Salaria, dirigendosi verso il campo nemico.[9]
I barbari, sorpresi dall'arrivo dei 200 pavesai, si gettarono
fuori degli steccati per assalire l'armata di Traiano,
dispostosi sulla sommità di una collina per ordine di Belisario:
i pavesai di Traiano cominciarono a colpire i nemici di frecce,
uccidendone almeno mille, per poi ripararsi dentro le mura.[9]
Visto che la tattica di guerriglia cominciava a dare i suoi
frutti, infliggendo perdite all'armata nemica, Belisario, alcuni
giorni dopo, inviò trecento pavesai alla testa di Mundila e
Diogene, per attaccare allo stesso modo, adoperando l'arco, gli
Ostrogoti, infliggendo così loro delle perdite persino peggiori
rispetto al primo scontro; Belisario, incoraggiato, inviò altri
trecento pavesai sotto il comando di Oila, i quali inflissero
ulteriori perdite ai Goti; in tre scontri sotto le mura, gli
arcieri di Belisario era riusciti a uccidere, secondo Procopio,
ben 4.000 Goti.[9]
Vitige, allora, volendo adoperare la stessa
tattica di Belisario, ordinò a cinquecento cavalieri di
avvicinarsi alle mura, e di fare all'esercito di Belisario la
stessa accoglienza che essi avevano ricevuto.[9]
I cinquecento cavalieri goti, saliti su un'altura non distante
da Roma, furono però attaccati da 1.000 arcieri scelti bizantini
posti sotto il comando di
Bessa, i quali, attaccando a suon di frecce i guerrieri
goti, inflissero loro pesanti perdite, costringendo i pochi
superstiti a fuggire negli accampamenti goti, dove furono
pesantemente rimproverati per il loro fallimento da Vitige, il
quale sperava che il giorno successivo, adoperando diversi
combattenti e la stessa tattica, il successo avrebbe forse
arriso ai Goti.[9]
Due giorni dopo Vitige inviò altri cinquecento Goti, selezionati
da tutti i suoi campi, contro il nemico; Belisario, accortosi
del loro arrivo, inviò a combatterli Martino e
Valeriano alla testa di mille e cinquecento cavalieri, i
quali inflissero pesanti perdite agli Ostrogoti.[9]
Procopio spiega i motivi per cui la tattica di
guerriglia di Belisario aveva successo: Belisario, infatti, si
era accorto dei talloni di Achille dell'esercito ostrogoto, e
stava provando a sfruttarli: infatti, mentre "quasi tutti i
Romani, gli Unni ed i confederati loro sono valentissimi arcieri
a cavallo", i cavalieri ostrogoti al contrario non sapevano
combattere con l'arco, venendo addestrati a maneggiare le sole
aste e spade; per questo motivo, negli scontri non in campo
aperto, gli arcieri a cavallo bizantini, approfittando della
loro abilità nell'arco, riuscivano ad infliggere pesanti perdite
al nemico.[9]
LO SCONTRO IN CAMPO
APERTO E LE PESANTI PERDITE SUBITE DAGLI IMPERIALI:RE VITIGE
TUTTAVIA TOGLIE L'ASSEDIO PER PAURA DI ESSERE TAGLIATO FUORI DAL
NORD D'ITALIA
L'ASSEDIO E LA DISTRUZIONE DI MILANO DEL 539 d.C.:
I GOTI PORTANO LA GUERRA NEL NORD
La sempre più precaria situazione politica e
militare causò però alla città diverse ferite e Milano conobbe,
nel 539,
la sua prima distruzione: l'imperatore
romano d'Oriente
Giustiniano I, deciso a riconquistare i territori imperiali
d'occidente, attaccò il re goto
Teodato inviando in Italia al comando delle sue truppe il
generale
Belisario, iniziando quella che diventerà la lunga
Guerra gotica; durante l'assedio di Roma del 537-538,
durante l'inverno del 537-538, Belisario ricevette a Roma il
vescovo di Milano, Dazio, con alcuni tra i cittadini milanesi
più illustri: questi chiesero al generalissimo di inviare
nell'Italia nord-occidentale (provincia di Liguria) un piccolo
esercito; se l'avesse fatto, loro avrebbero consegnato
all'Impero non solo Milano, ma tutta la provincia romana di
Liguria (grossomodo corrispondente all'Italia nord-occidentale).[4]
Belisario mantenne le promesse: mandò via mare
un esercito 1.000 uomini per intraprendere la conquista della
Liguria. L'esercito bizantino sbarcò a Genova e riuscì in breve
tempo a occupare Milano, Bergamo, Como, Novara e a tutti gli
altri centri della Liguria ad eccezione di Pavia.
La reazione di Vitige, tuttavia, non si fece attendere: inviò
Uraia
con un consistente esercito per cingere d'assedio Milano, e
sollecitò il re dei Franchi,
Teodeberto I, a intervenire in suo sostegno. Teodeberto,
però, avendo stretto dei trattati di alleanza con Giustiniano
(che non aveva rispettato), decise prudentemente di non
intervenire direttamente nel conflitto, inviando a dar manforte
ai Goti non guerrieri franchi ma 10.000 guerrieri burgundi,
sudditi dei Franchi.
Belisario decise di inviare soldati alla
liberazione di Milano, ma la divisione in due fazioni
dell'esercito bizantino in seguito all'arrivo in Italia del
generale
Narsete, fece sì che la parte dell'esercito dalla parte di
Narsete disubbedì agli ordini di Belisario di accorrere alla
liberazione di Milano se non l'avesse autorizzato prima
esplicitamente Narsete.
Quando arrivò l'autorizzazione di
Narsete era troppo tardi: gli stenti subiti dai Milanesi
assediati si aggravarono a tal punto «per la mancanza di cibo
che molti non disdegnavano di mangiar cani, sorci ed altri
animali abborriti prima per cibo dell’uomo»[5]
e la guarnigione imperiale decise quindi di arrendersi. Milano
fu distrutta:
« Milano quindi fu
agguagliata al suolo, e massacrato ogni suo abitatore di
sesso maschile, non risparmiandosi età comunque, e per lo
meno aggiugnevane il numero a trecento mila; le femmine
custodite in ischiavitù spedironsi poscia in dono ai
Burgundioni, guiderdonandoli con esse del soccorso avutone
in questa guerra. Oltre di che rinvenuto là entro Reparato
prefetto del Pretorio lo fecero a pezzi e gittaronne le
carni in cibo ai cani. Gerbentino, pur egli quivi di stanza,
poté co’ suoi trasferirsi per la veneta regione e pe’confini
delle vicine genti nella Dalmazia, e passato in seguito a
visitare l’imperatore narrogli a suo bell’agio quell’immensa
effusione di sangue. Quindi i Gotti, occupate per
arrendimento tutte le altre città guernite dalle armi
imperiali, dominarono l’intera Liguria. Martino ed Uliare
coll’esercito si restituirono in Roma. » |
(Procopio,
La Guerra Gotica, II, 21.) |
In realtà la cifra di Procopio di 300.000
milanesi maschi massacrati è esagerata e va perlomeno divisa per
dieci (30.000).
Al termine della guerra gotica, che durò fino
al 553/554, ma si protrasse in alcune zone dell'Italia
settentrionale fino al 561/562, l'Italia fu conquistata dai
Bizantini e Milano, secondo la Cronaca di Mario
Aventicense, fu ricostruita per opera di
Narsete:[6]
(LA)
« Hoc anno Narses ex praeposito et patricio post
tantos prostratos tyrannos, ... Mediolanum vel reliquas
civitates, quas Goti destruxerant, laudabiliter reparatas,
de ipsa Italia a supra scripto Augusto remotus est.» » |
(IT)
« In quest'anno [568] Narsete ex proposito e
patrizio, dopo aver abbattuto tanti tiranni... e ricostruite
lodevolmente Milano e le città rimaste, che i Goti avevano
distrutto, fu destituito dal governo dell'Italia dal
suddetto Augusto [Giustino II]. » |
(Mario Aventicense, Chronica, Anno 568.) |
Sembra che nel breve periodo bizantino
potrebbe essere stata elevata a capitale della diocesi italiana
(Italia del Nord), anche se ciò non è certo.[7]
Infatti, intorno alla fine del VI secolo, Genova risulta essere
la sede dei vicarii del prefetto del pretorio d'Italia,
che potrebbero essersi trasferiti, insieme all'arcivescovo di
Milano, a Genova dopo la conquista longobarda di Milano (3
settembre 569).
LA DECADENZA SOTTO IL PRIMO
PERIODO LONGOBARDO E LA COSTRUZIONE DEL TICINELLO COME BARRIERA
CONTRO LE INVASIONI DA PAVIA (568-590 d.C) DA ALBOINO
ALL'ANARCHIA DEI DUCHI LONGOBARDI. IL RUOLO DI TEODOLINDA,REGINA
DEI BAVARI
L'entrata in scena dei Longobardi
arrivava all'improvviso. Popolo poco conosciuto alle cronache
romane si contraddistingueva dagli altri popoli di lingua
germanica per non aver subito alcun influsso romano
contrariamente a Franchi,Visigoti,Ostrogoti che si erano divisi
le spoglie dell'impero.
Nel periodo successivo alle
Guerre marcomanniche la storia dei Longobardi è
sostanzialmente sconosciuta. L'Origo riferisce di
un'espansione nelle regioni di "Anthaib",
"Bainaib"
e "Burgundaib"[27],
spazi compresi tra il medio corso dell'Elba
e l'attuale
Boemia settentrionale[28][29].
Si trattò di un movimento migratorio dilazionato nel corso di un
lungo periodo, compreso tra il
II e il
IV secolo, e non costituì un processo unitario, quanto
piuttosto una successione di piccole infiltrazioni in territori
abitati contemporaneamente anche da altri
popoli germanici[28][30][31].
Tra la fine del IV e l'inizio del
V secolo, i Longobardi tornarono a darsi un re,
Agilmondo[32],
e dovettero confrontarsi con gli
Unni,
chiamati "Bulgari" da Paolo Diacono[33].
Sempre tra IV e V secolo ebbe avvio la trasformazione
dell'organizzazione tribale longobarda verso un sistema guidato
da un gruppo di
duchi; questi comandavano proprie bande guerriere sotto un
sovrano che, ben presto, si trasformò in un
re vero e proprio. Il re, eletto come generalmente accadeva
in tutti i popoli
indoeuropei per acclamazione dal
popolo in armi, aveva una funzione principalmente militare,
ma godeva anche di un'aura sacrale (lo "heill",
"carisma"); tuttavia, il controllo che esercitava sui duchi era
generalmente debole[34].
Nel
488-493
i Longobardi, guidati da
Godeoc e poi da
Claffone, "ritornarono" alla storia e, attraversata la
Boemia e la
Moravia[35][36],
si insediarono nella "Rugilandia",
le terre a ridosso del medio
Danubio lasciate libere dai
Rugi
a nord del
Norico dove, grazie alla fertilità della terra, poterono
rimanere per molti anni[36][37];
per la prima volta entrarono in un territorio marcato dalla
civiltà romana[35].
Giunti presso il Norico, i Longobardi ebbero conflitti con i
nuovi vicini, gli
Eruli,
e finirono per stabilirsi nel territorio detto "Feld"
(forse la
Piana della Morava, situata a oriente di
Vienna[36][38]).
Un'alleanza con Bisanzio e i Franchi permise a
re
Vacone di mettere a frutto le convulsioni che scossero il
regno ostrogoto dopo la morte del re Teodorico nel
526:
sottomise così gli
Suebi
presenti nella regione[39]
e occupò la
Pannonia I e Valeria (l'attuale
Ungheria a ovest e a sud del
Danubio)[40][41].
Alla sua morte (540)
il figlio
Valtari era minorenne; quando, pochi anni dopo, morì, il suo
reggente
Audoino usurpò il trono[42]
e modificò il quadro delle alleanze del predecessore,
accordandosi (nel
547 o
nel 548)
con L'imperatore
bizantino
Giustiniano I[42]
per occupare, in Pannonia, la
provincia Savense (il territorio che si stende fra i fiumi
Drava
e
Sava) e parte del Norico, in modo da schierarsi nuovamente
contro i vecchi alleati Franchi e
Gepidi e consentire a Giustiniano di disporre di rotte di
comunicazione sicure con l'Italia[43][44].
Grazie anche al contributo militare di un
modesto contingente bizantino e, soprattutto, dei cavalieri
avari[12],
i Longobardi affrontarono i Gepidi e li vinsero (551)[45],
mettendo fine alla lotta per la supremazia nell'area
norico-pannonica. In quella battaglia si distinse il figlio di
Audoino,
Alboino. Ma uno strapotere dei Longobardi in quella zona non
serviva gli interessi di Giustiniano[46][47]
e quest'ultimo, pur servendosi di contingenti longobardi anche
molto consistenti contro Totila e perfino contro i
Persiani[48],
cominciò a favorire nuovamente i Gepidi[46][47].
Quando Audoino morì, il suo successore Alboino dovette stipulare
un'alleanza con gli
Avari,
che però prevedeva in caso di vittoria sui Gepidi che tutto il
territorio occupato dai Longobardi andasse agli Avari[47].
Nel 567
un doppio attacco ai Gepidi (i Longobardi da ovest, gli Avari da
est) si concluse con due cruente battaglie, entrambe fatali ai
Gepidi, che scomparivano così dalla storia; i pochi superstiti
vennero assorbiti dagli stessi Longobardi[49][50].
Gli Avari si impossessavano di quasi tutto il loro territorio,
salvo
Sirmio e il litorale
dalmata che tornarono ai Bizantini[50][51].
Invasione dell'Italia
Sconfitti i
Gepidi, la situazione era cambiata assai poco per
Alboino, che al loro posto aveva dovuto lasciar insediare i
non meno pericolosi
Avari;
decise quindi di lanciarsi verso le pianure dell'Italia,
appena devastate dalla sanguinosa
Guerra gotica. Nel
568 i
Longobardi invasero l'Italia attraversando l'Isonzo[52].
Insieme a loro c'erano contingenti di altri popoli[53].
Jörg Jarnut, e con lui la maggior parte degli autori, stima
la consistenza numerica totale dei popoli in migrazione tra i
cento e i centocinquantamila fra guerrieri, donne e non
combattenti[52];
non esiste tuttavia pieno accordo tra gli storici a proposito
del loro reale numero[54].
La resistenza bizantina fu debole; le ragioni
della facilità con la quale i Longobardi sottomisero l'Italia
sono tuttora oggetto di dibattito storico[55].
All'epoca la consistenza numerica della popolazione era al suo
minimo storico, dopo le devastazioni seguite alla Guerra gotica[55];
inoltre i Bizantini, che dopo la resa di
Teia, l'ultimo re degli
Ostrogoti, avevano ritirato le migliori truppe e i migliori
comandanti[55]
dall'Italia perché impegnati contemporaneamente anche contro
Avari
e
Persiani, si difesero solo nelle grandi città fortificate[52].
Gli
Ostrogoti che erano rimasti in Italia verosimilmente non
opposero strenua resistenza, vista la scelta fra cadere in mano
ai Longobardi, dopotutto
Germani come loro, o restare in quelle dei Bizantini.[55]

Nel 568 i
Longobardi, condotti da Alboino, invasero l'Italia dalla
Pannonia; dopo aver occupato le Venezie tranne alcune città
costiere, Alboino invase la Lombardia e il 3 settembre della
terza
indizione (anno 569) entrò a Milano:
(LA)
« Alboin igitur Liguriam introiens, indictione
ingrediente tertia, tertio nonas septembris, sub temporibus
Honorati archiepiscopi Mediolanum ingressus est. Dehinc
universas Liguriae civitates, praeter has quae in litore
maris sunt positae, cepit. Honoratus vero archiepiscopus
Mediolanum deserens, ad Genuensem urbem confugit. » |
(IT)
« Alboino, invasa la Liguria, entrò a Milano nella
terza indizione, il 3 settembre, ai tempi dell'arcivescovo
Onorato. Successivamente conquistò tutte le città della
Liguria, tranne quelle sul littoriale. Ma l'arcivescovo
Onorato, abbandonando Milano, fuggì nella città di Genova. » |
(Paolo Diacono, Historia Langobardorum,
II, 25.) |
Cartina politica dell'Italia nel 600 dopo Cristo. La linea rossa
delimita la prima occupazione Longobrda estremamente frammentata
Come conseguenza della conquista,
l'aristocrazia senatoria, il vescovo e gran parte del clero si
rifugiano per più di settant'anni a
Genova; la città si impoverisce gravemente, anche per il
prevalere di
Pavia,
divenuta la capitale dei Longobardi.
Nel 588
Audualdo e altri sei duchi dei Franchi minacciano la città
di Milano con il loro esercito mentre
Autari è asserragliato a
Pavia
ma la dissenteria scoppiata tra le loro file li costringe a
ritirarsi in Francia dopo aver conquistato numerose fortezze.
All'inizio di novembre del 590, in seguito alla morte di
Autari,
Agilulfo, il duca di
Torino, diviene il nuovo re con
Teodolinda come consorte e sposta la capitale del Regno dei
Longobardi da Pavia a Milano. Poco dopo nasce
Gundeberga, figlia postuma di
Autari. Nel maggio del 591
Agilulfo viene riconosciuto da tutti i longobardi quale
nuovo re a
Milano.
In questo periodo si ebbe una germanizzazione
della regione intorno a Milano e di altre aree che
complessivamente vennero chiamate
Langobardia Maior (corrispondente allora a gran parte
dell'Italia centro-settentrionale e avente come fulcro la
capitale Pavia); questo termine, trasformatosi in Lombardia,
passò a designare la regione intorno a Milano. Mentre gli
Ostrogoti tentarono di portare avanti la cultura romana,
inizialmente sotto i Longobardi la popolazione cittadina venne
trattata come una popolazione di sconfitti soggetta a pesanti
tributi che andavano nelle tasche dei liberi germanici. Le cose
migliorarono col regno di
Autari (584-590)
e ancor di più sotto la regina
Teodolinda, che si era convertita al
cattolicesimo dall'originario
arianesimo.